Il presidente egiziano afferma che il suo Paese è una democrazia “bambina” in cui le libertà fondamentali possono aspettare. Un analista mette in luce la passività dell’Occidente. Intanto Papa Francesco chiede che ne è della missione storica dell’Europa

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:08:33

Prima il caso Regeni e quello dei tanti egiziani scomparsi nel nulla e più recentemente la mobilitazione del sindacato egiziano dei giornalisti hanno riproposto con forza la questione del rispetto dei diritti umani nell’Egitto del presidente Abdel Fattah al-Sisi. A differenza di altri regimi autoritari del passato, che mascheravano la loro politica repressiva con una retorica puramente cosmetica della democrazia e dei diritti fondamentali, la posizione del presidente egiziano è meno ambigua. Durante una conferenza stampa del 17 aprile, tenuta in occasione della visita in Egitto del presidente francese François Hollande, al-Sisi ha dichiarato che in Egitto la situazione dei diritti umani non può essere valutata secondo i criteri europei perché il suo Paese “è uno Stato bambino che compie i suoi primi passi di Stato democratico moderno”, minacciato dal terrorismo e immerso nel clima “estremamente tumultuoso” della regione mediorientale. Nel suo discorso al-Sisi non nega il valore dei diritti umani, ma rimanda la loro applicazione a tempi politicamente più propizi, rivendicando di fatto quell’idea di una “eccezione araba” che le Rivoluzioni del 2011 avevano fugacemente smentito. Commentando sul quotidiano al-Masry al-Youm le parole del presidente al-Sisi, l’analista egiziano Amr Shobaki ha riconosciuto che la questione della democrazia e dei diritti umani è “prematura” finché l’Egitto non riuscirà a risolvere i tanti problemi che lo attanagliano. Shobaki si chiede però perché l’Occidente accetti discorsi simili. Certo ci sono in ballo consistenti interessi economici e geopolitici. Per esempio Shobaki ricorda che in un anno la Francia è diventata il primo fornitore di armi dell’Egitto. Ma la vera ragione dell’indifferenza europea, afferma l’analista, è che le “élites occidentali, e in particolare europee, la pensano ormai come il presidente egiziano […] e ritengono che la stabilità non-democratica sia cento volte meglio del caos rivoluzionario o della democrazia da cui nascono i terroristi o i migranti. Per questo molti occidentali si stupirebbero se riuscissimo a costruire una democrazia stabile e avanzata”. Colpisce rileggere su questo sfondo quanto scriveva nel 1938 il grande intellettuale egiziano Taha Hussein nel suo Il futuro della cultura in Egitto: “è nostro dovere – diceva Hussein – cancellare dal cuore degli egiziani l’idea scellerata e abominevole che fa loro credere di essere stati creati con una natura diversa da quella degli europei e di essere stati dotati di un intelletto diverso da quello degli europei”. Taha Hussein, che era un convinto assertore dell’appartenenza dell’Europa e dell’Egitto a una comune civiltà mediterranea, vedeva nella cultura europea un’ideale a cui ispirarsi. Non si tratta certamente di rimpiangere i tempi della “missione civilizzatrice” del nostro continente, tanto più che quando Taha Hussein scriveva le sue parole alcuni Paesi europei avevano già contratto la malattia totalitaria e l’Europa stava per sprofondare nella catastrofe bellica. Ma rimane la domanda posta il 6 maggio scorso dal Papa durante il discorso per il conferimento del premio Carlo Magno: “Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà? Che cosa ti è successo, Europa terra di poeti, filosofi, artisti, musicisti, letterati? Che cosa ti è successo, Europa madre di popoli e nazioni, madre di grandi uomini e donne che hanno saputo difendere e dare la vita per la dignità dei loro fratelli?” Forse anche il Medio Oriente è curioso di conoscere la nostra risposta.