Il tema della “liberazione della donna” rivela come il secolare e il religioso si siano reciprocamente spartiti lo spazio nella società marocchina

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:10:30

Il percorso complesso dell’elaborazione del Codice dello statuto personale in Marocco e le diverse modalità con cui ulema, islamisti e modernisti hanno affrontato il tema della “liberazione della donna” rivelano come il secolare e il religioso si siano reciprocamente spartiti lo spazio nella società marocchina. Un caso emblematico per comprendere le dinamiche instaurate tra Islam e modernità nei Paesi a maggioranza musulmana.

A partire dal periodo coloniale (1912) il sistema giuridico marocchino ha conosciuto un ridimensionamento della dimensione religiosa a favore del diritto positivo, mentre il campo giuridico è diventato sempre più complesso e diversificato. Per addentrarci in tale complessità sembra utile prendere in considerazione le diverse concezioni del rapporto tra il diritto e la religione non in modo normativo, ma in relazione ad alcuni processi sociali concreti che ci permettono d’identificare gli attori e il loro uso della religione e del diritto. Il processo scelto per il presente studio è il conflitto sociale sfociato nell’elaborazione del codice della famiglia nel 2004.

 

Il caso dell’emancipazione femminile

Poco dopo l’indipendenza del Marocco, l’elaborazione del Codice dello statuto personale (CSP) fu affidata nel 1957 a una commissione composta da ulema. All’epoca le riforme giuridiche e politiche si facevano in un contesto di euforia nazionalista. Bisognava rompere con il sistema giuridico coloniale e il CSP fu utilizzato per riaffermare l’identità nazionale e musulmana del Marocco. Ma da simbolo dell’identità religiosa e nazionale il CSP divenne per alcuni attori un ostacolo alla “liberazione della donna” e a partire dagli anni ’80 molti intellettuali sollevarono la questione della condizione della donna. Nel 1982 Zakia Daoud pubblicò nella rivista Lamalif un articolo intitolato “La donna minore”, in reazione a un testo scritto nel 1981 da alcuni sociologi (Fatima Mernissi e Malika Belghiti) e giuristi (Ahmed Khamlichi e ‘Abderrazak Moulay Rachid) e in cui si parlava già di riforma del CSP. A partire dagli anni ’90 il movimento femminile si farà regolarmente carico della questione dei diritti della donna e in particolare dello statuto personale.

Nel 1992 l’Unione dell’Azione Femminile (vicina a un partito di sinistra, l’Organizzazione per l’azione democratica e popolare) lanciò una petizione per riformare il CSP. Oltre che dalle associazioni femminili, la petizione fu sostenuta da due partiti di sinistra (il Partito del Progresso e del Socialismo e l’Unione Socialista delle Forze Popolari) e dall’Organizzazione Marocchina dei Diritti dell’Uomo. Il movimento raggiunse il suo obiettivo di raccogliere un milione di firme e la petizione fu inviata al primo ministro. Il fatto di non averla inviata al re Hassan II in quanto Comandante dei credenti (Amîr al-mu’minîn) significava che la riforma del CSP era posta sul piano politico e non su quello religioso. Il gruppo islamista Riforma e Rinnovamento (Jamâ‘at al-islâh wa-l-tajdîd) emise una fatwa che definiva la campagna un atto di apostasia, riportando così il problema all’ambito religioso.

In un discorso del 20 agosto 1992 il Re fece capire che la modifica del CSP era una sua prerogativa e che il movimento delle donne avrebbe dovuto rivolgersi a lui. Chiese anche di non mescolare le questioni religiose con quelle civili e politiche. Un mese più tardi, il 29 settembre, Hassan II ricevette a Palazzo alcune donne rappresentanti di partiti politici e organizzazioni per i diritti dell’uomo, con l’esclusione dell’Unione dell’Azione Femminile che aveva lanciato la petizione, e annunciò la creazione di una Commissione incaricata della riforma del CSP, composta da 20 ulema tra cui una donna e un rappresentante della Corte. Nel marzo del 1993 la Commissione consegnò il suo rapporto a Hassan II il quale, a sua volta, il primo maggio presentò il progetto di riforma alle rappresentanti delle organizzazioni femminili chiedendo loro e ai membri della Commissione di trovare un accordo. Il 10 settembre 1993 il Re promulgò il dahîr [decreto, N.d.T.] che riformava il CSP. I cambiamenti apportati furono tuttavia giudicati superficiali dalle organizzazioni femministe e il dibattito sul CSP continuò durante gli anni ’90, anni segnati dal consolidamento della società civile e dall’apertura del regime politico. Quest’apertura portò nel 1998 a un governo d’alternanza guidato da un ex oppositore del regime monarchico, ‘Abderrahman Youssoufi.

Presentando il suo programma di governo in Parlamento, il Primo Ministro indicò tra i suoi obiettivi l’elaborazione di una strategia globale volta a rafforzare la posizione della donna. Nel marzo del 1998 Said Saadi, Ministro degli Affari Sociali e membro del Partito del progresso e del socialismo, ex Partito comunista, presentò il progetto del Piano nazionale d’integrazione della donna nello sviluppo (d’ora in poi, semplicemente Piano).

Il Ministro degli Habous e degli Affari Islamici costituì allora una commissione di ulema a cui chiese un parere sul Piano. La reazione degli ulema, esposta in un rapporto di una quarantina di pagine del maggio 1999, fu critica e negativa. Fu questa la scintilla che fece scoppiare il conflitto, aperto e virulento, che avrebbe diviso il Governo, le organizzazioni politiche e la società. Il rifiuto del Piano venne riproposto in una serie di comunicati firmati da alcune organizzazioni religiose, dalla Lega degli Ulema del Marocco (27 maggio 1999), dal Movimento Unità e Riforma (MUR, 28 giugno 1999) e dal Partito Giustizia e Sviluppo (PJD). Questi comunicati insistevano sul carattere areligioso e anti-islamico del documento.

 

Misure difficili da negoziare

Il Piano prevedeva oltre 200 misure destinate per la maggior parte ad assicurare il miglioramento della condizione della donna, come alfabetizzazione, sviluppo economico, potenziamento delle competenze etc., ma il dibattito si focalizzò su otto misure riguardanti la riforma del CSP, tra le quali l’elevazione dell’età del matrimonio a 18 anni, la sostituzione del ripudio con il divorzio giudiziario, l’abolizione della poligamia (salvo eccezioni), la divisione dei beni coniugali dopo il divorzio e la tutela matrimoniale per le donne maggiorenni, ridotta a opzione facoltativa.

Da parte loro, le associazioni e le personalità indipendenti favorevoli al Piano si mobilitarono per creare, nel luglio del 1999, la Rete per il Sostegno alla Realizzazione del Piano. La risposta degli avversari del Piano non si fece attendere: il 7 novembre nasceva l’Istanza nazionale per la protezione della famiglia. L’Istanza, formata da alcuni membri del PJD, del MUR, della Lega degli Ulema, del Movimento Giustizia e Beneficenza e di altre associazioni, pubblicò un manifesto di condanna del Piano. Per molti mesi le due parti coinvolte nel conflitto fecero ricorso a tutti i mezzi di comunicazione disponibili: comunicati, interviste, opuscoli, eventi, sermoni…

Il Primo Ministro ricorse all’autorità del Re per mettere fine al conflitto. Il 5 marzo del 2000 il Re Muhammad VI incontrò alcune donne rappresentanti dei partiti politici e delle organizzazioni per i diritti dell’uomo e annunciò la creazione di una commissione reale incaricata di preparare la riforma del CSP, i cui 16 membri (tra cui 3 donne) vennero nominati dal re il 27 aprile dello stesso anno. Il lavoro della commissione durò diversi mesi. Il 10 ottobre del 2003, alcuni mesi dopo gli attentati terroristici di Casablanca, il Re presentava al Parlamento il nuovo Codice della famiglia, votato all’unanimità dal Parlamento nel gennaio del 2004.

Da questa panoramica tratteniamo un cambiamento significativo: la pluralizzazione degli attori che intervengono in un ambito giuridico tradizionalmente monopolio degli ulema. In altri termini, il campo giuridico è diventato complesso e diversificato. Non comprende più solo gli ulema, ma anche specialisti di diritto e politica. Nella maggior parte degli ambiti secolarizzati delle politiche pubbliche (finanze, insegnamento, salute, etc.) erano già gli attori politici a dominare il processo, secondo una logica secolare spesso implicita. Ora però il monopolio degli ulema sul diritto veniva messo in discussione anche a proposito delle questioni religiose.

 

Il monopolio degli ulema

Il rapporto della Commissione degli ulema[1] consacra una decina di pagine all’esposizione dei principi islamici e nota che il 1975, anno internazionale della donna, ha avviato il processo d’internazionalizzazione della questione della donna. Il testo ricorda anche altri fatti, come il congresso del Cairo nel 1984 e quello di Pechino nel 1995. Questo movimento internazionale, la cui utilità è riconosciuta dalla Commissione, si è intensificato nei decenni successivi fino a diventare uno strumento di pressione politica. Esso tuttavia difende un punto di vista secolare (‘almânî) che, in un contesto di scontro di civiltà, si contrappone al risveglio islamico. Il primo passo, molto ricorrente nell’argomentazione del chierico, consiste nel dimostrare che il conflitto locale altro non è che la manifestazione di un conflitto globale, che oppone sulla scena internazionale la civiltà musulmana e i suoi nemici secolaristi. Questo modo abbastanza frequente d’invocare la teoria del complotto mette l’Islam al centro del conflitto rendendolo il bersaglio di nemici interni ed esterni.

Al Piano si rimprovera inoltre di aver voluto attuare le raccomandazioni dei congressi internazionali a scapito della sharî‘a islamica che garantisce i diritti della donna. Il Piano ha voluto fare della donna musulmana una copia della donna occidentale. La società occidentale, descritta molto negativamente, è considerata una società in cui i valori della religione, del pudore e della virtù sono venuti meno, lasciando il posto alla soddisfazione degli istinti, alla dissolutezza e alla libertà assoluta, ciò che prelude alla fine della civiltà occidentale. Anche in questo caso l’argomentazione è abbastanza classica.

Qui la Commissione adduce due argomenti non necessariamente incompatibili. Il primo, ampiamente sviluppato dai pionieri del riformismo (Jamal al-Dîn al-Afghânî e Muhammad ‘Abduh), distingue tra il vero Islam presentato come condizione necessaria per lo sviluppo e il progresso e la cattiva interpretazione dell’Islam che è la causa del ritardo dei musulmani. Ciononostante, l’appello dei salafiti a ritornare all’Islam degli antenati non va necessariamente di pari passo con la denigrazione totale dell’Occidente e della sua civiltà. Tuttavia i redattori del Rapporto avevano bisogno di una svalutazione estrema dell’Occidente per delegittimare i loro avversari: la Commissione intende dunque dimostrare che il referente occidentale secolare del Piano è pericoloso per la personalità marocchina e islamica. Tutto ciò che proviene dall’Occidente è perciò demonizzato, si colloca nella lotta tra le civiltà e mira a distruggere l’Islam.

L’idea di un Islam assediato dall’Occidente depravato è spesso associata all’idea che il vero Islam sia ignorato e inapplicato. Il ritardo della donna e della società in generale è dovuto alla non applicazione dell’Islam. Il deficit religioso come causa dei mali della società è un leitmotiv degli ulema. La famiglia soffrirebbe di un deficit di consapevolezza che non può essere riformato con la revisione delle leggi, ma solo restituendo valore all’educazione islamica, in famiglia e nelle scuole. Se l’Islam venisse applicato, l’uomo musulmano si comporterebbe bene con la moglie e la donna musulmana sarebbe buona e obbediente. L’idea è che non bisogna confondere l’Islam, giusto nei confronti della donna, con la realtà dei musulmani, che possono essere ingiusti. La soluzione perciò non consiste nella revisione dei testi ma nella buona educazione islamica dei musulmani.

La Commissione si appella essenzialmente a un’argomentazione religiosa fondata sulla sacralità della legislazione islamica. All’idea difesa dal Piano secondo cui la legislazione islamica va adeguata alle trasformazioni socio-economiche e ai principi della democrazia, la Commissione ribatte che la legislazione islamica è sacra e non può essere subordinata né alla trasformazioni socio-economiche né ai principi della democrazia. La Commissione invita a distinguere ciò che è contingente (zarfî) e che può essere modificato per migliorare le condizioni della donna, e ciò che è sacro (qudsî), che poggia cioè su fondamenti immutabili del Corano e degli hadîth. Per la Commissione le questioni regolamentate da un testo fondante quale il Corano o gli hadîth sono sottratte a qualsiasi revisione (ijtihâd).

Tuttavia è possibile comprendere la legge islamica alla luce della realizzazione delle finalità (maqâsid) della sharî‘a, in modo da semplificare la vita delle persone e tenendo conto degli equilibri necessari alla vita nella società. È questa una posizione che nasce in reazione all’accusa mossa agli ulema di essere letteralisti e sordi ai problemi della società. C’è dunque la possibilità che gli ulema e i politici pongano delle condizioni a ciò che è reso lecito dalla sharî‘a in base alla loro conoscenza del contesto sociale. Così è accettabile limitare il matrimonio poligamo se è dimostrato che le persone ne abusano. Ma questo adattamento può essere fatto solo dagli ulema, i soli autorizzati a stabilire il diritto in materia religiosa. Così per la Commissione solo gli ulema specializzati nella sharî‘a sono autorizzati a emendare le disposizioni relative al diritto di famiglia, trattandosi di una questione religiosa e cultuale (amr dînî wa ta‘abbudî) disciplinata dal Corano, dalla tradizione del Profeta e dalla sharî‘a. Se questo lavoro fosse intrapreso da altri, si collocherebbe al di fuori della retta via. Il primo a difendere questo principio – conclude la commissione – fu il Ministro degli Affari islamici.

Dopo aver esposto le basi della sua argomentazione, la Commissione respinge le proposte del Piano che ritiene contrarie alla sharî‘a. Prendiamo l’esempio della poligamia. Gli ulema dimostrano che essa è fondata su un testo coranico esplicito (Cor. 4,3). Lo stesso versetto raccomanda anche di sposare una sola donna nel caso in cui si tema di essere ingiusti. Non è una condizione per il matrimonio poligamico, ma l’indicazione che la monogamia è preferibile qualora il marito non possa garantire di essere giusto. Ma la giustizia in questione riguarda i diritti materiali. Quanto invece alla giustizia completa e all’uguaglianza tra le spose dal punto di vista del cuore, essa supera la capacità umana.

La Commissione pone la questione anche sul piano sociale, partendo da due principi: da un lato il principio della realizzazione degli interessi delle persone evitando i mali, dall’altro il principio del male minore. Questo per dire che gli ulema riconoscono gli inconvenienti della poligamia, ma mettono anche in guardia dalle conseguenze nefaste della sua proibizione. In assenza della poligamia gli uomini commetterebbero peccati, avrebbero amanti o divorzierebbero. Ne consegue che per la donna e per la società gli inconvenienti del divorzio e dell’adulterio sono più dannosi di quanto non lo sia la poligamia.

 

Il secolare al servizio di una passione religiosa

Il Movimento Unicità e Riforma, una formazione islamista, inizia la sua argomentazione sottolineando che la vecchia colonizzazione si caratterizzava per l’occupazione territoriale dei Paesi musulmani e il saccheggio delle loro ricchezze, mentre il neocolonialismo porrebbe l’accento sulla dipendenza politica ed economica e, nel contesto della globalizzazione, mirerebbe a distruggere l’ultimo bastione costituito dalla famiglia musulmana. Tra i mezzi utilizzati a questo scopo, le raccomandazioni emerse da congressi sospetti (Cairo 1984, Pechino 1995) e il finanziamento ad associazioni locali con il pretesto di garantire l’accesso delle donne allo sviluppo. Il denominatore comune dei due congressi sarebbe l’appello a stili di vita che distruggono la morale e i valori religiosi, come l’incoraggiamento dei rapporti sessuali tra i giovani al di fuori del matrimonio, il concubinato, il matrimonio omosessuale, l’agevolazione dell’aborto in nome della salute della madre etc. Il Piano perciò non sarebbe altro che un’eco di questi congressi che difendono le tare dell’Occidente.

Anche in questo caso l’argomentazione imperniata sull’idea di un Islam sotto assedio prelude alla delegittimazione di ogni discorso modernista. Il vocabolario e i temi però cambiano. Contrariamente agli ulema, l’islamista ricorre a una terminologia e a idee che oltrepassano il sapere religioso classico. Per il MUR il conflitto oppone i sostenitori della visione occidentale e irreligiosa (lâ-dînî) della società a quanti tengono al riferimento islamico. Il qualificativo lâ-dînî è spesso utilizzato per delegittimare il punto di vista secolarista e fa parte del nuovo vocabolario islamista, che gli ulema quasi non utilizzano.

Tuttavia, a differenza della Commissione degli ulema, il manifesto islamista tenta d’introdurre delle sfumature nella qualificazione del rapporto con l’Occidente, osservando che il problema non si pone quando il referente internazionale è al servizio dei valori della giustizia, dell’uguaglianza e della cooperazione tra le nazioni. Questo referente è rifiutato solo nei casi in cui esso contraddica il referente islamico e cerchi d’imporre una visione materialista della famiglia e della società, che in Occidente ha prodotto solo disgregazione sociale e la distruzione della famiglia. Il Piano è considerato una sottomissione incondizionata al referente internazionale. Il MUR denuncia anche l’imposizione di una concezione irreligiosa alla società e soprattutto la pressione esercitata per conformare la legge nazionale alle convenzioni internazionali. In Marocco questo ruolo è svolto dalle associazioni che formano la Rete di Sostegno al Piano e il Fronte per le Donne Marocchine[2].

Rispetto agli ulema, i militanti islamisti hanno più familiarità con le problematiche del tempo presente. Per il MUR, il conflitto oppone chi vuole uno sviluppo globale che investa uomini e donne insieme e chi parte da un approccio di genere e situa lo sviluppo nel quadro di una lotta tra uomo e donna. È proprio questa miscela dei punti di vista religioso e politico, e del vocabolario religioso tradizionale con la terminologia contemporanea, a distinguere l’islamista militante dall’esperto tradizionale di scienze religiose.

Sviluppando la concezione islamica della famiglia, il Movimento associa una terminologia religiosa e tradizionale (qiwâma, sadaqa) a una terminologia vicina alle scienze sociali (complementarietà funzionale, leadership organizzativa). Esso definisce la famiglia come un’istituzione fondata sulla complementarietà funzionale (takâmul wazîfî) e su una distribuzione dei ruoli che rispetta caratteristiche biologiche e innate. Il concepimento, l’allattamento e l’educazione dei bambini sono per la donna elementi di forza e di rispetto. All’uomo Dio ha assegnato il comando (qiwâma, ri’âsa) perché ogni istituzione necessita di un capo, conformemente alle regole dei raggruppamenti umani. Il comando, inteso come protezione e responsabilità, è legato agli obblighi che Dio impone ai mariti, in particolare l’obbligo di provvedere ai bisogni della famiglia[3]. Il comando non significa l’arbitrio, non è in opposizione all’accordo e non esclude la partecipazione volontaria e generosa della donna alle spese domestiche. La concezione islamica della famiglia si fonda sul rispetto della complementarietà del ruolo maschile e femminile, non sulla loro confusione.

Il Piano d’altra parte, adottando un approccio di genere, si oppone chiaramente alla concezione islamica della famiglia, fondata sull’amore anziché sulla lotta, sulla giustizia e sulla complementarietà anziché sull’uguaglianza che annulla le particolarità funzionali necessarie all’organizzazione famigliare. L’approccio di genere viene rifiutato perché mette in discussione la distinzione dei ruoli degli uomini e delle donne, pretendendo che queste differenze non siano naturali ma sociali[4].

L’argomentazione non è solo religiosa. A differenza del dotto, il cui ruolo si radica in una tradizione millenaria, l’islamista ha più libertà di movimento tra i diversi saperi contemporanei. La traiettoria del dotto infatti inizia sin dall’infanzia, mentre quella dell’islamista è tardiva e comincia dopo la conversione all’islamismo, che avviene spesso durante la socializzazione secondaria (al liceo, all’università).

Come ogni ideologo, l’intellettuale islamista è un bricoleur. La sua propensione al bricolage si spiega con la sua posizione sociale (ingegnere agronomo, medico, avvocato, insegnante, psicanalista) che gli permette d’interessarsi alla letteratura sia religiosa che non religiosa. L’islamista non ha necessariamente una padronanza del sapere religioso pari a quella che può vantare un dotto tradizionale. Il suo curriculum e il suo lavoro lo portano infatti verso altri saperi (le scienze sociali, le scienze naturali), che tuttavia anche in questo caso non padroneggia bene. È questa mancanza di padronanza, accentuata dalla diversità e dalla complessità dei problemi ai quali deve rispondere, a spingerlo al bricolage.

Nell’analizzare il prodotto del bricolage non è sufficiente riscontrare la miscela di vocabolario religioso e secolare; occorre individuare la logica dominante che detta la scelta degli ingredienti indispensabili all’ideologo. Nel caso dell’islamista, è la logica religiosa a dettare la scelta di argomenti non religiosi, e non il contrario. Il vocabolario secolare è al servizio di una passione religiosa.

 

Il religioso a servizio di una passione laica

I sostenitori del Piano sono presentati dai loro avversari come difensori di un punto di vista secolare, irreligioso, addirittura eretico. Tenuto conto della centralità dell’Islam nel contesto sociale e politico marocchino, è più facile denigrare le ideologie secolari occidentali che criticare il referente islamico. I sostenitori di idee moderniste e secolari si trovano così nella condizione di dover scendere a patti con il sentimento religioso.

L’idea più ricorrente tra loro consiste nel dimostrare la compatibilità tra il Piano e una visione modernista dell’Islam. La Rete che sostiene il Piano afferma che le proposte del documento poggiano sugli insegnamenti fondamentali dell’Islam e sui dati del progresso sociale del Paese; sottolinea la necessità di rinnovare il pensiero musulmano[5] e rivendica un approccio ispirato a una tradizione che mette l’accento sulle finalità (maqâsid) della legge islamica, cioè la realizzazione dell’interesse degli esseri umani. Il suo è un approccio dinamico che tiene conto della vita delle persone, delle necessità e dei cambiamenti, insistendo su un rapporto diretto con il Corano e gli hadîth. I modernisti non criticano l’Islam, ma le interpretazioni umane avanzate in suo nome. L’ambito dei diritti della donna è un esempio in cui il fiqh (diritto) si è limitato all’imitazione, facendo abortire quel salto di liberazione portato dal Corano.

L’approccio combina argomenti religiosi e sociologici. Quest’amalgama è evidente all’inizio delle varie sezioni dell’opuscolo prodotto dalla Rete a sostegno del Piano. Ciascuna sezione si apre con una tabella sinottica e didattica che riassume le proposte del Piano, i testi del Codice dello Statuto personale del 1993 e gli argomenti religiosi e sociologici a sostegno del Piano. Per esempio, per quanto riguarda l’età matrimoniale per la ragazza viene citato innanzitutto un versetto coranico (4,6) che afferma che la pubertà non è sufficiente per stipulare contratti, compreso il contratto matrimoniale. Sia per l’uomo che per la donna è necessario aver raggiunto l’età della ragione. Sul piano sociologico il matrimonio precoce dà luogo a relazioni precarie tra i coniugi e a effetti nocivi per la salute della madre e del bambino. Si cita anche un’indagine ufficiale che dimostra come il tasso di divorzio sia due volte più elevato tra le donne che si sono sposate prima dei 15 anni rispetto a quelle sposate tra i 15 e i 19 anni (rispettivamente il 30,7% e il 14,8%). Sul piano psicologico il matrimonio precoce priva la ragazza del diritto di vivere tutte le fasi della costruzione della personalità durante l’adolescenza. Sul piano della salute il rischio di mortalità infantile è più elevato tra le giovani madri con meno di 20 anni. In compenso, fissando l’età minima del matrimonio a 18 anni s’incoraggiano le ragazze a proseguire gli studi[6].

Gli attori del movimento secolare si trovano a dover ricorrere a un discorso misto, appoggiandosi ad argomenti religiosi e secolari. Ciò che si può constatare non è l’assenza del religioso ma un suo diverso uso. Sono comunque i valori secolari a offrire griglie di lettura della tradizione islamica e a orientare a posteriori le giustificazioni religiose.

Per gli attori secolari l’uso della religione è puntuale, spesso in reazione al discorso islamista. Soprattutto essa è assunta in una logica secolare, democratica, egualitaria. In un comunicato la Rete dichiara che gli ulema non detengono il monopolio della verità e che nessun gruppo politico o religioso ha il diritto di comportarsi come un’autorità detentrice della verità. Ricorda anche che alcuni ulema, la cui competenza e reputazione non possono essere messe in dubbio, hanno sostenuto il Piano. A essere contestata non è la legittimità degli ulema a esprimersi negli ambiti di loro competenza, ma il monopolio, che essi rivendicano nel nome della religione, a legiferare in ambiti sociali complessi. L’ideatore del Piano critica la posizione degli ulema accostandola alla nozione sciita di wilâyat al-faqîh[7] [la “tutela del giurisperito”, su cui si fonda la teocrazia instaurata da Khomeini in Iran, N.d.R.].

Tradizionalmente gli ulema potevano intervenire in tutti i settori della società, compresi quelli disciplinati dalla consuetudine[8]. Questa visione onnicomprensiva si fondava sulla centralità della religione. Il fatto che la Commissione degli ulema si pronunci solo su alcuni aspetti afferenti all’ambito della sharî‘a può essere già considerato un aspetto della secolarizzazione. La posizione della Commissione sancisce infatti la separazione tra gli aspetti politici, di pertinenza dei politici, e gli aspetti religiosi, di pertinenza degli ulema e del Re in qualità di Comandante dei credenti. La posizione contraria prevedrebbe che la sharî‘a si applichi a tutto. In breve, superare la visione onnicomprensiva della religione stabilendo in quali settori può essere applicata la sharî‘a è un altro aspetto della secolarizzazione di una società. Si tratta certamente di un processo che gli ulema non pensano in termini di secolarizzazione, ma che di fatto può essere definito tale. La secolarizzazione si applica per converso anche a quel processo per cui gli specialisti del religioso condannano l’ingerenza politica nel loro ambito[9].

Anche gli islamisti, seppur lontani da qualsiasi ideologia secolarista, contribuiscono a secolarizzare la società e la politica. Le loro idee e il loro lessico sono misti, religiosi e secolari insieme. Ma, nel caso studiato, la logica dominante continua a essere religiosa ed è questa a orientare la scelta degli ingredienti laici nel loro discorso[10].

I modernisti adottano esplicitamente il riferimento secolare fondandosi su principi secolaristi più che su un’ideologia, nel senso di un sistema d’idee a sostegno di un’azione politica. Uno dei principi consiste nel separare l’autorità religiosa, circoscritta alla rivelazione e alla tradizione profetica, da quella umana. L’obiettivo è accedere direttamente ai testi sacri desacralizzando le tradizioni islamiche successive come frutto delle autorità umane. Ridurre la portata dell’autorità religiosa è un aspetto della secolarizzazione ideologica. Ciò consente una maggiore libertà di critica delle tradizioni, in particolare di quelle ritenute dogmatiche, accusate di oscurare il lato progressista dell’Islam. Anche il discorso e le posizioni dei modernisti sono dunque misti. In questo caso però è la logica laica a orientare la lettura.

Tutti i nostri protagonisti, infine, pensano il loro approccio in termini di finalità (maqâsid): gli ulema e gli islamisti per mostrare la dimensione pragmatica della sharî‘a, i modernisti invece per sostenere la loro visione progressista dell’Islam e attribuire un peso maggiore all’argomentazione di tipo sociologico.

 

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Note


[1] Ministero degli Habous e degli Affari Islamici, Rapporto della Commissione scientifica a proposito del cosiddetto piano nazionale per l’accesso della donna allo sviluppo (in arabo), Rabat, 15 maggio 1999.

[2] Harakat al-Tawhîd wa-l-Islâh, La nostra posizione a proposito del cosiddetto progetto di piano nazionale per l’accesso della donna allo sviluppo (in arabo), Manshûrât al-Furqân, Casablanca 2000, pp. 8-14.

[3] Ibi, p. 18.

[4] Ibi, p. 20.

[5] Rete per il Sostegno e la Realizzazione del Piano, Il nostro sostegno al Piano per l’accesso della donna allo sviluppo (in arabo), 2000, p. 4.

[6] Ibi, pp. 15-31.

[7] Mohamed Said Saadi, L’expérience marocaine d’intégration de la femme au développement (2002). Disponibile su www.codesria.org/IMG/pdf/SAADI.pdf.

[8] Léon Buskens, Sharia and National Law in Morocco, in Jan Michiel Otto (a cura di), Sharia incorporated. A Comparative Overview of the Legal Systems of Twelve Muslim Countries in the Past and Present, Leiden University Press, Leiden 2010, pp. 89-138.

[9] Peter L. Berger, The Sacred Canopy: Elements of a Sociological Theory of Religion, Anchor Books, New York 1990 (1967), pp. 108-153.

[10] Hassan Rachik, Dove gli islamisti distinguono politica e predicazione, «Oasis» 18 (2013), pp. 39-44.

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Hassan Rachik, Contesa sul bene della donna. E su chi lo decide., «Oasis», anno XI, n. 21, giugno 2015, pp. 52-63.

 

Riferimento al formato digitale:

Hassan Rachik, Contesa sul bene della donna. E su chi lo decide., «Oasis»[online], pubblicato il 12 giugno 2015, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/contesa-sul-bene-della-donna-e-su-chi-lo-decide.

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