Il celebre autore egiziano è morto al Cairo a 70 anni. Dalla critica alla dittatura ai timori per la stabilità della regione, la sua opera ha attraversato decenni di politica araba

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:10:00

Gamal al-Ghitani era un monumento della letteratura araba, e qualche settimana fa, in una folle fantasia, ho immaginato che gli dessero il Nobel, che qualcuno gli sussurrasse la notizia, e si risvegliasse dal coma in cui era sprofondato da mesi con il suo meraviglioso sorriso. E’ stato discepolo e amico di Naghib Mahfuz, che il Nobel lo ottenne, unico scrittore arabo fino a oggi, per avere dato dignità a un genere, il romanzo, che non appartiene alla tradizione letteraria araba. Se Mahfuz è ricordato come il padre del romanzo arabo, Ghitani è andato oltre: potremmo dire che lo ha universalizzato. Si legge Mahfuz per capire il Cairo - un mondo; si legge Ghitani per capire il Cairo - il mondo. L'ARTE DI TESSERE INTRECCI Nato nel 1945 (aveva festeggiato il 9 maggio scorso i 70 anni) in un villaggio dell’alto Egitto, ha cominciato la sua carriera come disegnatore di tappeti. E l’arte del primo mestiere si ritrova nel suo tessere intrecci a partire da antichi motivi, attingendo alle fonti storiche, alle Cronache di Maqrîzî e ibn Iyâs, al vocabolario epurato dei grandi mistici: lingua ricca, stratificata, per raccontare (anche quando l’ambientazione era storica) il presente. Ghitani ha scritto racconti, è stato giornalista, inviato di guerra, direttore di uno dei più importanti supplementi letterari arabi, Akhbâr al-adab, che darà spazio a più generazioni di giovani scrittori e farà conoscere autori del mondo intero. L’universalità era un suo tratto costante, anche nella religiosità, vissuta senza dogmatismi, con la libertà degli spiriti liberi. Il romanzo che più di tutti lo ha reso celebre, il suo capolavoro, Zayni Barakat, racconta, attraverso la crisi e il crollo di un impero del passato (il sultanato mamelucco), la disillusione nasseriana, ma anche e soprattutto gli eterni meccanismi di sopraffazione che accompagnano la lotta per il potere. “Mi sono ispirato a eventi che hanno avuto luogo nell’Egitto del Cinquecento, ma è quanto può accadere ovunque, ieri, oggi, domani, nei Paesi arabi come in Cile, nella Spagna di Francisco Franco o nella Germania nazista”, spiegava egli stesso. Lo Zayni, metafora del populismo e della demagogia, della strumentalizzazione del religioso a fini politici, ha per sfondo il Cairo; le scene di tortura, di violenze, i soprusi, ma anche gli infiniti sotterfugi di chi in questo mondo deve sopravvivere, spinto da un ideale, o semplicemente tirando a campare: il santo, l’opportunista, il gaudente, il ruffiano, hanno per sfondo il sontuoso scenario di un Cairo del XVI secolo che molto ricorda quello di oggi. I rimandi erano tanto evidenti che il libro non poté uscire subito in Egitto: fu pubblicato in Libano nel 1974. Ghitani stesso, come molti autori della sua generazione, subì dunque censura e prigione. Eppure, negli ultimi anni, ha sostenuto il generale Abdel Fattah al-Sisi: e un governo che molto verosimilmente avrebbe criticato, in altre circostanze. Ma le condizioni estreme della regione hanno mutato, anche per lui, i parametri. Ghitani si è sempre opposto all’islamismo radicale, ha guardato con diffidenza alle interferenze esterne nel suo paese, che in queste settimane è alla prova del voto parlamentare, iniziato il 17 e che andrà avanti fino a dicembre. Al-Sisi è stato per lui (come per molti altri intellettuali egiziani) il garante di una stabilità interna che sentiva vacillare nel disastro generale. Illusoria, certo. L’ho visto per Pasqua, al Cairo. In lui c’era stanchezza, amarezza, sentiva la fine vicina. A quell’uomo generoso, dolce e sensibile, sopravvive un’opera che lo supera: nel tempo e idealmente. Perché Zayni Barakat è il vero manifesto politico di Ghitani. Come suggeriscono le parole di un altro scrittore, Nabil Naoum, Gamal al-Ghitani lascia questo mondo per trovarne un altro: ‘âlam bi-lâ bassâsîn, senza le spie, i poliziotti e gli sgherri di cui ci ha meglio di chiunque detto l’orrore: libero, finalmente.