Il jihadismo, ci spiega Petter Nesser, è un processo interattivo: gli attentati in Spagna lo dimostrano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 08:54:37

La radicalizzazione jihadista è un processo interattivo. Smonta così la narrativa dei “lupi solitari” Petter Nesser, esperto di jihadismo in Europa, ricercatore presso il Norwegian Defence Research Establishment e autore di Islamist Terrorism in Europe. Sarebbe infatti lo stesso Stato islamico ad alimentare la propaganda sull’azione di lupi solitari in Europa, perché ciò che vorrebbe è riuscire ad attivare centinaia di individui privi di connessioni tra loro e con i vertici, quindi più difficili da intercettare per i servizi di sicurezza nazionali. Questo garantirebbe una miriade di piccoli attacchi. Eppure, finora così non è accaduto, come prova l’indagine in corso sui recenti attentati in Spagna, che hanno ucciso 14 persone. Con il passare del tempo emergono non soltanto connessioni tra la cellula di Ripoll e operativi di Isis, ma anche legami con individui già coinvolti nell’attentato di Madrid del 2004. Ed è proprio questa interazione tra diversi livelli e i contatti con generazioni più antiche di jihadisti il punto sul quale, secondo Nesser, è necessario focalizzare oggi il lavoro delle intelligence.

Una cellula di oltre dieci individui, diversi furgoni noleggiati, un leader più anziano con legami ad azioni terroristiche del passato e a una rete internazionale. C’è un’evoluzione rispetto al passato nella preparazione degli attentati di agosto in Spagna?
“Gli attacchi a Barcellona sono abbastanza tipici rispetto alla minaccia terroristica in Europa. In generale, in termini di modus operandi, vediamo come i modelli siano costantemente in cambiamento: emergono nuove tattiche, ma questo non significa che le vecchie scompaiano. Parliamo di piccoli cambiamenti che servono ai terroristi a evitare l’azione dei servizi di sicurezza. I terroristi agiscono in maniera molto pragmatica, perché sanno che le intelligence sono in allerta: l’utilizzo di veicoli e coltelli è per loro molto meno complesso. Bombe ed esplosivi restano le armi di preferenza per i jihadisti in Europa, ma negli ultimi tempi sono altri strumenti a prevalere, più semplici, proprio perché la creazione di ordigni esplosivi richiede un accesso ad agenti chimici di difficile reperimento, soprattutto per chi è monitorato dalle autorità”.

Qual è la storia della radicalizzazione in Spagna?
“La Spagna ha una storia di jihadismo che risale agli anni '90, soprattutto di cellule legate al finanziamento di azioni terroristiche. Il primo gruppo a essersi radicato sul territorio negli anni '90 è stato il Gruppo Islamico Armato, il GIA algerino. Alcune cellule erano integrate nel network di al-Qaeda. In Spagna ha operato la cellula che sta dietro al finanziamento degli attentati dell’11 settembre a New York, con legami proprio in Catalogna. Le reti spagnole sono state dominate dalla presenza di individui marocchini e algerini e, come nel resto dei Paesi europei, hanno sempre avuto legami transnazionali: in Europa e nelle zone di conflitto. Nel 2004, in seguito all’attentato di Madrid, queste cellule sono state represse dai servizi di sicurezza e molti membri arrestati, ma da allora molte sono risorte e gruppi di nuova generazione sono in parte basati sulle vecchie reti. C’è un legame certo tra le cellule di oggi e quelle degli anni '90. Nel caso di Barcellona, l’imam di Ripoll, Abdelbaki Es Satty, sarebbe legato a un facilitatore del network all’origine dell’attentato di Madrid del 2004”.

Non esiterebbero quindi i cosiddetti lupi solitari?
“Quella dei legami con gruppi già esistenti è un modello ricorrente. Esempi importanti per spiegare queste dinamiche sono i legami tra Djamel Beghal – cittadino francese di origini algerine fin dagli anni '90 attivo nel GIA e poi in reti jihadiste con connessioni a teatri di guerra, ndr – la cellula dell’attentato del 2015 a Charlie Hebdo e il cosiddetto piano di Wattignies (sventato nel 2017 dalle autorità, ndr). E ancora: al piano di Wattignies era connesso anche Lionel Dumont, della cosiddetta gang di Roubaix (attiva negli anni '90 e con legami con al-Qaeda, ndr). Sono questi ‘entrepreneur’ - imprenditori o impresari - ad avere i contatti con personalità nelle zone di conflitto, dando la possibilità alle nuove generazioni di creare legami con il gruppo nelle zone di guerra in Medio Oriente. Funzionano anche da garanti tra il movimento e la nuova cellula. Sono i punti di contatto: questa dinamica è cruciale per capire la minaccia cui siamo di fronte oggi”.

Il fatto che le nuove generazioni di jihadisti abbiano legami con antiche reti terroristiche non facilita il lavoro di intelligence?
“Certo, anche per questo i servizi segreti dovrebbero avere un approccio storico alle investigazioni sul terrorismo. Ci sono infatti pochissimi casi reali di lupi solitari. Ci si focalizza molto sugli aspetti sociali della radicalizzazione, sulla mancanza di integrazione, sulla presenza più o meno importante di comunità musulmane in Paesi europei. Eppure, gli attacchi, come prova quello di agosto in Finlandia, accadono anche in nazioni con piccole comunità islamiche (50mila i musulmani in Finlandia, ndr), in luoghi dove c’è una cattiva integrazione ma anche in Paesi dove il livello di integrazione è alto. Quello che conta è che ci siano reti in contatto con le zone di conflitto. In Finlandia, per esempio, i mass media hanno parlato di attività di sostegno ad Ansar el-Islam negli anni passati. Successivamente il Paese ha conosciuto un aumento in numero di jihadisti e il rafforzarsi di attività radicali, mentre le partenze di foreign fighter hanno raggiunto la cifra di 80 (su una popolazione di 50mila musulmani, si tratta assieme all’Irlanda in proporzione del numero più alto in Europa, ndr). Molti spiegano questi fenomeni attraverso aspetti sociali, che hanno sicuramente un loro ruolo, ma le reti jihadiste possono nascere in qualsiasi luogo, anche il più inaspettato. Si sviluppano dove esiste una massa critica di ‘entrepreneur’, capaci di creare una rete, ideologizzati e più connessi con le zone di conflitto. È in questo contesto che nascono gli attentati”.

Questa può essere una delle ragioni che finora hanno reso l’Italia immune da attacchi?
“Potrebbe essere, anche se in realtà in Italia fin dai primi anni 2000 ci sono stati sia piani sventati sia attacchi. L’Italia non è stata risparmiata. La minaccia è però più bassa rispetto ad altri Paesi vicini. La Svezia è un caso similmente difficile da capire: una nazione con una importante popolazione di immigrati e vaste aree periferiche”.

In un rapporto di giugno dell’intelligence della Finlandia, colpita ad agosto da un attacco all’arma bianca, è scritto che i foreign fighter partiti dal Paese hanno raggiungo alti livelli nella gerarchia dell’Isis. Che peso può avere questo sulla minaccia in Europa?
“L’ultima volta che la Svezia ha elevato il livello di allerta è stato quando individui svedesi crescevano di grado all’interno del predecessore dello Stato islamico, al-Qaeda in Iraq (Aqi). Una delle spiegazioni dell’intensità della minaccia in Francia è data proprio dalla presenza di jihadisti francesi nei ranghi del ‘dipartimento per gli attacchi internazionali’ di Isis. Si tratta di un fattore di peso: se foreign fighter di un determinato Paese scalano la gerarchia della leadership in zone di conflitto, allora si verificano più attacchi nelle loro aree di provenienza. Il caso della radicalizzazione jihadista, molto più rispetto ad altri tipi di estremismo, è un processo interattivo. I jihadisti devono per esempio discutere con qualcuno che ritengono una autorità religiosa circa la liceità dell’attacco, come è accaduto nel caso dell’attentatore di Manchester. I mass media hanno riportato conversazioni con un individuo all’interno delle gerarchie di Isis. Questa interattività è una caratteristica di gruppi jihadisti che non necessariamente hanno altri movimenti radicali. Molti casi in Europa dipinti come azioni di lupi solitari si sono rivelati altrimenti con il proseguire delle indagini. Il più eclatante è quello di Mohammed Merah, in Francia (l’uomo nel 2012 ha compiuto diversi attentati nella regione di Tolosa, uccidendo sette persone, ndr), ancora oggi considerato un lupo solitario, In realtà, era connesso con una rete in Francia, aveva viaggiato in Europa e Medio Oriente e aveva legami con gruppi jihadisti”. 

Quando l’Europa è attaccata, le autorità cercando subito di capire se ci sia stato un ordine diretto da parte di leadership esterne, come era il caso in passato con al-Qaeda. Quali sono le differenze tra i modus operandi di al-Qaeda e Isis oggi?
“Inizio a pensare Isis come una versione molto più grande di al-Qaeda. Quando al-Qaeda giustiziava un prigioniero, Isis ne giustizia dieci o cento, e ha sicuramente vinto la gara per quantità di foreign fighter mobilitati, una delle maggiori minacce per l’Europa. Per quanto riguarda il legame diretto con la leadership: ci sono stati pochi esempi anche in passato di jihadisti che hanno incontrato i vertici, e se lo hanno fatto è accaduto molto prima degli attacchi. Anche al-Qaeda ha un sistema di impartire ordini ai livelli più bassi attraverso una gerarchia. Sia al-Qaeda sia Isis sono gruppi molto gerarchici, in cui è presente una estesa burocrazia: esiste un sistema di registrazione per esempio di tutti i foreign fighter, con informazioni sulla loro provenienza. Entrambi delegano le responsabilità. Uno dei principali elementi di cui essere coscienti è che a un certo punto devono però comunicare, interagire. Rimane difficile intercettare le loro comunicazioni, perché utilizzano canali criptati, ma la comunicazione esiste. Sono loro stessi a creare questa propaganda sui lupi solitari, perché è quello che vorrebbero”.

Non era già un precetto di al-Qaeda, quello di evitare comunicazioni intercettabili? Uno stratega del gruppo, Abu Musab al-Suri, parlava di cellule al lavoro in un’unica direzione ma senza contatti tra di loro.
“Isis vorrebbe raggiungere più lupi solitari possibile. Se riuscisse ad attivare centinaia di lupi solitari, difficili da intercettare, potrebbe avere piccoli attacchi quasi quotidianamente, ma questo per ora non sta accadendo: perché restano interazioni e discussioni tra cellule e 'imprenditori'”. 

Questa interazione rappresenta una possibilità per i servizi segreti, un punto debole da sfruttare?
“Dal punto di vista degli Stati, fintanto che ci sono comunicazioni tra le reti è possibile fermare gli attacchi e ridurre le minacce. Il problema è che negli ultimi anni i servizi di sicurezza europei sono rimasti indietro per via dell’alto numero di individui reclutati con l’ascesa di Isis, che è senza precedenti rispetto al passato. Questo ha per forza un’influenza sul livello della minaccia. Storicamente, una percentuale di coloro che viaggiano in zone di conflitto torna ed è poi coinvolta in piani di terrorismo a livello internazionale”.