Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:10:40

Un voto che dopo 12 anni rivoluziona il panorama turco. Basta un soffio, una manciata di voti in un’assolata giornata di tarda primavera e il sogno del sultanato, il delirio di una Turchia egemone nel mondo islamico, pronta a riconquistare idealmente – o magari anche di fatto – Gerusalemme sotto le insegne di un rinato impero neoottomano svanisce nella polvere, spodestato da un doppio knock out alle urne, dove in un sol colpo il frastornato Recep Tayyp Erdogan perde la maggioranza assoluta in Parlamento e soprattutto la possibilità di manomettere la Costituzione proclamandosi presidente a vita. Cadono con fragore le ambizioni di un leader che per dodici anni aveva sedotto l’Anatolia con una crescita economica impetuosa, un benessere diffuso, un orgoglio nazionale rinato facendole contemporaneamente pagare il pedaggio dell’uscita dal laicismo coatto dell’età di Atatürk con il ritorno a un islamismo che si proclamava moderato ma che di fatto finiva sempre più per assomigliare – con le sue sentenze, i suoi divieti, le sue fughe all’indietro, il suo cruccio permanente di fronte alla modernità – alle più buie satrapie mediorientali. Asserragliato nel Büyük Saray, l’immane Gran Serraglio dalle oltre mille stanze che si è fatto costruire alle porte di Ankara a immagine della sua smisurata ambizione, Erdogan riconteggia ora il pallottoliere politico che lo obbliga a precarie alleanze con gli ultranazionalisti dell’Mhp e comunque a formare governi di coalizione imbarcando magari anche i kemalisti del Chp, cercando di scorgervi per quale fatale errore, per quali imponderabili tagliole del destino la sua formula magica, quella dell’islam politico che governa con il consenso decisivo dei ceti meno abbienti, si sia arenata di fronte a una muraglia di voti dell’etnia curda, approdata con il Partito democratico dei Popoli e il volto pulito del giovane leader Selahattin Demirtas al 13% (ben oltre la crudele soglia di sbarramento del 10%) e con 82 deputati in Parlamento. Non sappiamo se Erdogan abbia davvero compreso chi e cosa gli ha sottratto voti e consenso. Non certo il complotto internazionale di cui agitava lo spettro – come capita sovente ai satrapi in difficoltà da Macbeth a Saddam Hussein – puntando il dito d’accusa sull’acerrimo rivale Fethullah Gülen in esilio negli Stati Uniti, e forse nemmeno il rallentamento dell’economia. No, altri spettri, altri fantasmi, altre Foreste di Birnam assediavano il Macbeth di Ankara: quelli di Gezi Park e di Piazza Taksim, dei giovani malmenati, bastonati, tratti in arresto per un twitter o un sms, dei giornalisti messi ai ceppi perché scomodi al regime, dei magistrati sollevati dai loro incarichi perché avevano curiosato nei cento scandali finanziari e nelle ruberie del cerchio magico del leader supremo, dei poliziotti incarcerati o spediti nelle lande di confine perché troppo poco severi nel reprimere la piazza. Tutte cose che hanno lasciato segni profondi nella coscienza del Paese. Peraltro al successo del partito filocurdo non può non aver concorso l’imbarazzante atteggiamento dell’esercito turco nei confronti dei peshmerga curdi durante i tragici giorni dell’assedio a Kobane da parte delle milizie dello Stato islamico: un immobilismo complice e interessato, visto che mentre di giorno Erdogan si schierava contro il Daesh, il nuovo califfato dell’Is, nottetempo il governo di Ankara foraggiava con armi e fondi – come ha svelato alla vigilia del voto il quotidiano Cumhuriyet – proprio quei jihadisti che ufficialmente avrebbe dovuto combattere. La stessa cosa che del resto aveva fatto con Hamas, con i Fratelli Musulmani egiziani, con le milizie che controllano Tripoli in nome di un’egemonia turca sulle nazioni sunnite, in chiara sintonia con il Qatar e con la non ostilità dell’Arabia Saudita. Il sultanato di Erdogan si reggeva su simili colonne, sicuro di un consenso plebiscitario che nessuno avrebbe potuto mai scalfire. Un impianto in realtà fragile: fino a quando è arrivato un giovane come il quarantaduenne Demirtas, copia conforme degli Tsipras, degli Iglesias, dei Rivera, campione curdo di quei nuovi 'Giovani Turchi' che un po’ dovunque e con alterni accenti mettono in crisi i vecchi sistemi e le antiche certezze. E a volte cambiano radicalmente il destino di un Paese. Avvenire