Gli Stati Uniti, vantando una superiorità tecnica ed economica, hanno tentato di governare il mondo. Ma l’epoca unipolare è ormai tramontata

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:11:23

Filosofia dell’impero. L’azione militare è divenuta poliziesca e in nome del diritto internazionale punta a stabilire un nuovo ordine mondiale. Protagonisti gli Stati Uniti che, vantando una superiorità tecnica ed economica, hanno tentato di governare il mondo. Ma l’epoca unipolare è ormai tramontata.

Se la guerra spesso è solo la prosecuzione della politica con altri mezzi, comprendere la guerra è, necessariamente, comprendere la politica. Parlare della guerra dopo la caduta del muro di Berlino significa perciò raccontare, riflettere e pensare la storia di quest’epoca.

Prima della caduta del muro si aveva a che fare con una bipolarizzazione mondiale, due ideologie universaliste e due imperi contrapposti, impossibilitati a farsi guerra diretta grazie all’equilibrio del terrore. L’Europa era tagliata in due. Gli imperi coloniali europei erano scomparsi lasciando posto a un Terzo Mondo diviso tra filosovietici, filoamericani e non allineati. Oltre la guerra in Corea e quella in Vietnam infuriavano numerosi conflitti periferici.

La caduta dell’impero sovietico ha messo fine a questi confronti indiretti. Il mondo è diventato monopolare. L’impero americano è il primo nella Storia a potersi definire, senza esagerare, universale. Dalla caduta del suo rivale, ha preso l’iniziativa di un “nuovo ordine mondiale”[1] che consisteva nel rendere effettivamente universale questo impero. Per una generazione il mondo intero ha conosciuto una certa conformazione alle norme economiche, politiche e culturali degli Stati Uniti d’America. La politica e le guerre di quest’epoca sono innanzitutto politiche e guerre americane, e poi, per reazione, politiche e guerre antiamericane.

In un primo tempo (1989-2001) la normalizzazione sembrò irresistibile. Vi fu l’impressionante manifestazione di forza della prima guerra del Golfo (1990-1991) e le guerre di disintegrazione della Jugoslavia (Bosnia 1992-1995 e Kosovo 1999). In un secondo tempo (2001-?), dopo gli attentati a New York dell’11 settembre, l’impegno militare diventa più pesante e permanente (Afghanistan, 2002-?; Iraq, 2003-2012, 2014-?; Libia, 2011-?; Siria, 2011-?), nonostante resistenze sempre più forti ostacolino la politica imperiale.

Venticinque anni dopo la caduta del muro l’impero liberale ha perso l’iniziativa. Riappare progressivamente un concerto di nazioni, mettendo una potenza indebolita davanti alla difficile scelta tra l’abdicazione silenziosa di fronte a una multipolarità ritenuta inevitabile, una restaurazione di forza e/o una capacità di fare rete che consenta un nuovo secolo americano.

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Gli Stati Uniti del Mondo

La questione della guerra si chiarifica se si considera l’obiettivo a cui mira lo Stato che, nel periodo considerato, assume l’iniziativa. L’Idea è stata indicata da Hegel[2]: realizzare la Libertà non attraverso uno stato civile fondato sull’identificazione dell’Individuo con il Popolo, la Nazione o lo Stato, ma attraverso la preservazione individualistica dello stato di natura (di Locke), uno stato di natura dolce che non abbia la forma hobbesiana. Questa Idea (se non è mescolata con la cultura classica e il Cristianesimo) è il comunismo al contrario. Per il comunismo tutto è pubblico, per essa tutto è privato. La proprietà, la politica, la cultura, la morale, la religione conoscono solo gli individui, le loro libertà, i loro diritti e i loro contratti. Dalla privatizzazione del bene deriva una privatizzazione universale. Questa Idea accresce il suo potenziale di universalizzazione grazie a: a) le tecniche che mettono in relazione e in comunicazione tutte le parti del mondo; b) la reazione al totalitarismo; c) la seduzione del sogno di uno stato di natura che potrebbe non essere hobbesiano e che potrebbe sopprimere il male (prosperità, pace, libertà, lumi…, grazie al free-market, ai human rights e alla liberal democracy).

Al termine dell’espansione di questa Idea: gli Stati Uniti del Mondo. In una prima fase: regimi abbastanza oligarchici in ogni Stato e una solidarietà mondiale tra queste oligarchie per controllare la transizione. Ma la crescita generale della prosperità consentirebbe di ridurre le frustrazioni, l’aggressività e la guerra. Il militarismo cederebbe al “dolce commercio”, la democratizzazione sarebbe generale e la pace diventerebbe universale, regolate da un’unica ideologia liberale e secolare, garante della tolleranza.

 

La riduzione della guerra

Secondo questa Idea nella sua forma pura il posto della guerra è molto ridotto. Innanzitutto essa non è più un diritto ordinario degli Stati a partire dal Trattato che istituisce l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Che cos’è diventata l’azione di una forza armata? O è un crimine d’aggressione, o legittima difesa da tale aggressione, o ancora l’azione di forza decisa dal capitolo 7 della Carta per imporre una risoluzione del Consiglio di sicurezza. Idealmente, la legittima difesa è solo una reazione provvisoria, destinata a essere sostituita dall’azione collettiva di ristabilimento della pace[3].

L’azione collettiva di difesa può acquisire una forma offensiva diventando “diritto d’ingerenza” o “responsabilità di proteggere”, quando i diritti individuali sono violati da un governo all’interno della sua giurisdizione. Questi governi perciò non sono più legittimi. La parte ingiusta che ricorre alla guerra (di aggressione) perde il suo carattere pubblico e si riduce a un’associazione di malfattori con la quale, teoricamente, neppure si pone la questione di trattare, ma solo di trarli in giudizio e punirli. In questo senso, la guerra non esiste più per il diritto perché presuppone un ordine politico formato da una pluralità di entità politiche indipendenti. I poteri politici nel new world order, (teoricamente) non sono più che amministrazioni regionali subordinate a una sorta di Stato universale nascente. In questa comunità politica mondiale, il potere sovrano unico dovrà essere suddiviso in maniera democratica.

Logicamente ne deriva una concezione “poliziesca” dell’azione militare. Non si tratta più d’imporre la propria volontà a un avversario politico, ma d’imporre l’obbedienza alla legge internazionale e punire un ribelle o un delinquente. Anche i semplici combattenti della “parte sbagliata”, che dovrebbero sapere qual è la parte giusta, non hanno più diritto all’immunità morale del combattente. Anche loro, come i loro leader, dovranno forse comparire davanti ai tribunali[4]. La privatizzazione universale conduce anche alla fine degli eserciti di leva e quindi alla professionalizzazione e alla privatizzazione della funzione militare con il ricorso ai mercenari delle Private Military Companies[5].

 

Abuso della guerra giusta

Nell’ambiente militare americano e nella NATO, il riferimento aristotelico e l’attaccamento a una norma etica seria sono rimasti piuttosto vivaci[6], così come le teorie della guerra giusta, logicamente connesse alla teoria dei diritti dell’Uomo, ma utilizzate per l’apologia dell’imperialismo statunitense. Questo costringe a relativizzare la teoria classica della guerra giusta, fondata sull’idea di un bene comune del genere umano.

Questo bene comune universale non può giustificare un’interpretazione imperialista perché richiede, per vari motivi[7], l’esistenza di diverse entità politiche indipendenti. È perciò contradditorio pretendere che la gestione del bene comune universale richieda un potere politico universale (un impero e il suo imperialismo). Tuttavia l’idea del bene comune universale impone che ciascuna autorità politica indipendente tenga conto della “funzione di pace”, o “funzione di impero[8]” (l’amministrazione del bene comune). Peraltro questo stesso bene comune non esclude forme più ampie di organizzazione (alleanze, unioni stabili di Stati e nazioni), a condizione che la sussidiarietà sia salvaguardata e la pluralità politica preservata.

C’è un parallelismo sorprendente tra il pensiero di Vitoria e l’impero di Carlo V, e tra lo sviluppo delle teorie dei diritti dell’uomo e della guerra giusta e l’impero americano. Qualora se ne abusi, le teorie dei diritti dell’uomo e della guerra giusta forniscono un pretesto a qualunque aggressione. Un giudizio equo deve perciò distinguere nella Storia tra: a) ciò che deriva da un esercizio ragionevole della funzione d’impero di una potenza più importante che, in virtù dell’urgenza o delle circostanze, è investita di responsabilità universali, in presenza per esempio di violazioni dei diritti umani obiettivamente intollerabili; b) ciò che è solo una manovra abusiva che consente di opprimere le sovranità indipendenti con il pretesto del bene comune. Il potere assoluto che “corrompe assolutamente”, come diceva Lord Acton[9], non è altro che il potere imperiale. La pluralità nazionale è la forma fondamentale della separazione dei poteri nel genere umano, separazione senza la quale non potrebbe esistere nessuna libertà politica.

 

Teoria pacifista, pratica bellicosa

Teoricamente pacifista e decisa nel lungo termine a mettere fine alla guerra, L’ambiziosa politica del new world order ha portato in realtà alla costituzione di un apparato militare apparentemente ineguagliabile grazie a spese militari senza precedenti.

Questo sovra-armamento comporta allo stesso tempo un aumento quantitativo smisurato, già notevole durante la Guerra fredda, e un mutamento qualitativo della tecnologia degli armamenti con l’applicazione del sapere informatico e della robotica. Ciò influisce su tutti i settori dell’attività militare: il comando, le comunicazioni, la sorveglianza, l’intelligence, la precisione degli attacchi... La rivoluzione continua con le nanotecnologie, la robotica, la digitalizzazione del campo di battaglia, la miniaturizzazione dei robot, influendo sulla cultura militare, aumentando la distanza tra l’aggressore e il suo nemico e a volte riducendo a zero il rischio per uno degli avversari. Questo fatto, unito alla concezione “gendarmesca” e giudiziaria a cui si è fatta allusione, trasforma il guerriero in carnefice. Questi procede a una serie di esecuzioni capitali sommarie decise in segreto dall’esecutivo, senza il controllo parlamentare o giudiziario. La kill list è stabilita dai servizi di intelligence, che dispongono di informazioni “estorte” con mezzi che includono spesso la tortura[10]. Gli omicidi mirati comportano “danni collaterali” e fanno vivere le popolazioni nella paura. L’insistenza sull’etica e sul diritto, e la teoria di una giuridizzazione dell’azione di forza diventano derisorie.

Questa Rivoluzione degli affari militari (iniziata negli anni ’80), risultava paradossalmente coerente con la concezione minimalista della guerra. Le forze statunitensi nel 1999 in Kosovo non ebbero perdite. La rivoluzione tecnologica doveva consentire una guerra senza morte, dunque senza eroismo e senza sacrificio, simile a un’operazione di polizia ben organizzata. Si puntava anche a mettere fine agli armamenti nucleari indipendenti e si stabiliva un dottrina offensiva del loro impiego tattico da parte dell’Impero liberale, giustificata da una teoria della guerra giusta preventiva.

 

Utilità del nemico

Vista questa superiorità schiacciante, nei vent’anni successivi alla caduta del Muro nessuno a parte Saddam Hussein ha osato uno scontro classico con la potenza imperiale. Era l’epoca delle guerre asimmetriche, remake delle guerre coloniali e di decolonizzazione, con il ricorso al terrorismo e alla lotta antiterrorista[11]. La stessa espressione “contro-insurrezione” esprime una concezione imperiale secondo cui i nemici sono dei ribelli (insurgents) al new world order. Il terrorismo è stato soprattutto islamista. Ciò che accomuna le guerre condotte dagli USA o dalla NATO (Iraq 1, 2 e 3, Bosnia, Kosovo, Afghanistan, Libia, Siria) è il fatto di svolgersi tutte su terre di tradizione musulmana. È sorprendente la sproporzione tra le enormi risorse messe in campo per combattere il terrorismo e il carattere quasi fantomatico di quest’ultimo in Occidente, anche se mediaticamente onnipresente. Questo paradosso può essere spiegato con l’efficienza dei servizi, capaci di scongiurare la maggior parte dei tentativi terroristici. Sed contra, ci si può domandare perché, se l’Occidente è così forte, queste guerre si trascinano così a lungo.

Si possono proporre altre spiegazioni. Innanzitutto mantenere nel caos un avversario può essere un obiettivo politico.  In secondo luogo, l’islamismo ansiogeno, in parte fabbricato, ha due funzioni, secondo che rifiuti o accetti di fare un calcolo razionale e di entrare nel gioco dell’impero: 1) Se rifiuta, la NATO gli dichiara guerra, una guerra che agli occhi dell’opinione pubblica giustifica un riarmo di massa, la cui finalità non è la lotta contro il terrorismo ma il potere mondiale. 2) Se accetta, funge da cane da guardia e da alleato di comodo contro i potenziali rivali dell’impero, ciò che consente di indebolire e intimidire l’Europa, la Russia, l’India e la Cina. È così che Richelieu sfruttava e allo stesso tempo combatteva i Protestanti. Le guerre “antiterroriste” servono perciò l’impero con il sovra-armamento, l’installazione di basi nel mondo (oltre 700), la sopravvivenza del dollaro e il controllo dell’energia. L’anarchia in loco può essere un danno collaterale oppure un obbiettivo secondario.

 

L’arma della “normalizzazione”

Nonostante questa iperattività militare l’Idea dell’impero resta fondamentalmente pacifica. La leva principale della normalizzazione dev’essere la crescita della prosperità attraverso il free-market, che conduce alla democratizzazione. La guerra è solo un colpo di bisturi per facilitare il parto della società futura, che giungerà per effetto del determinismo storico (innanzitutto economico). I conflitti nella zona musulmana non devono perciò far dimenticare che petrolio e alleanze a distanza (alliances de revers) sono solo dei per raggiungere uno scopo, la normalizzazione del mondo secondo l’Idea dell’impero.

Con normalizzazione non bisogna intendere la conquista, o l’occupazione, perché l’impero si vuole liberale, ma la messa in conformità dell’economia, della politica e della cultura del resto del mondo con le norme del liberalismo.

Per “conquistare” gli altri, l’impero confida nell’effetto modernizzatore delle mentalità, favorito dalla diffusione delle scienze, delle tecniche e dell’economia liberale. Dall’allineamento economico e dalla diffusione delle informazioni deve risultare prima il desiderio, e poi la realtà, di una normalizzazione culturale liberale e infine una democratizzazione politica (liberale e mediatica). I regimi anormali salteranno tutti sotto la pressione di questo bisogno di democratizzazione. Questa politica è considerata irresistibile, tanto come si ritiene irresistibile l’attrattiva dell’American way of life, della libertà individuale, della democrazia politica…

Quando la guerra non può più, a causa della dissuasione, essere là dove normalmente sarebbe, tende a invadere quegli spazi in cui normalmente non penetra. È per questo che i cinesi hanno coniato il concetto di “guerra illimitata”[12], che postula un rovesciamento della formula di Clausewitz: «La politica non è che la guerra continuata con altri mezzi». La politica di normalizzazione attraverso il dolce commercio non è altro che la guerra (di conquista) perseguita con mezzi diversi rispetto a quelli militari. Significa fare “la guerra senza la guerra”, anche se è finalizzata al raggiungimento, un giorno, della pace universale.

Peraltro i regimi che tardano troppo a lasciarsi normalizzare possono anche essere rovesciati con delle tecniche intelligenti. La guerra politica sostituisce la guerra con la sovversione: acquisire un partito dell’avversario, vincervi le elezioni fornendo denaro, media, competenze, corpi speciali. La “guerra illimitata” riesce soprattutto contro gli Stati piccoli ma fallisce altrove a causa della dissuasione nucleare, del controllo decrescente delle opinioni pubbliche dovuto a Internet, e a causa dell’erosione dell’immagine del liberalismo (la disoccupazione e la disuguaglianza vengono ormai imputate al free-market e alla sua cultura post-moderna).

 

I fallimenti dell’impero

Se l’azione condotta manca di finezza, conduce a  fallimenti che compromettono il progetto di “new world order”. Il primo fallimento dell’impero è la sopravvivenza del regime cinese che, nonostante i suoi evidenti difetti, appare ai cinesi come il garante dell’indipendenza della loro nazione. Inoltre la modernizzazione delle mentalità per mezzo dell’economia e della tecnica non conduce al liberalismo ma innanzitutto al nazionalismo, esacerbato anche in Giappone, India, Vietnam e Corea, che in Asia genera una corsa agli armamenti navali e tensioni tra nazionalità. L’impero può giocare con queste tensioni, ma l’ascesa dei nazionalismi segna il fallimento della normalizzazione individualista.

Il secondo fallimento dell’impero è stata la rielezione di Vladimir Putin. Il terzo è la gestione della Primavera araba. Essa è stata interpretata come la possibilità di modernizzare il controllo sul mondo musulmano sostituendo ai dittatori i Fratelli musulmani. Sulla carta una manovra in grande stile, nei fatti un fiasco dovuto all’intrattabilità e all’incompetenza dell’organizzazione, oltre che alla reticenza di alcuni alleati.

In queste condizioni non si può non constatare uno strano parallelismo tra la situazione europea del 1914 e la situazione planetaria del 2014. Ora come allora un impero arranca. Nuove potenze emergono. Si manifesta un rinnovamento culturale, mentre l’ideologia dominante sprofonda nell’abiezione. Nuovi blocchi si formano. In questo nuovo contesto, la guerra così come l’abbiamo conosciuta nel 1989 cederà necessariamente il posto a conflitti interstatali in una forma non classica, ma ancora largamente imprevedibile.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

[1] George Bush (padre), Discorso al Congresso dell’11 settembre 1991.

[2] Friedrich Hegel, Lineamenti della Filosofia del Diritto, § 258, nota.

[3] David Rodin, War and Self-Defence, Clarendon Press, Oxford 2002, 103-121.

[4] Jeff Mc Mahan, Killing in War, Oxford University Press, Oxford 2011.

[5] Georges-Henri Bricet des Vallons, Irak, terre mercenaire: Les armées privées remplacent les troupes américaines, Favre, Lausanne 2010.

[6] Martin Cook, The Moral Warrior. Ethics and Service in the US Military, SUNY, Albany 2010.

[7] Henri Hude, Préparer l’avenir. Nouvelle philosophie du décideur, Economica, Paris 2012, 58-66.

[8] Henri Hude, Démocratie durable. Penser la guerre pour faire l’Europe, Éditions Monceau, Paris, Essai n. 4, 144-149.

[9] John Dalberg-Acton, Lettera al Vescovo Mandell Creighton, 5 aprile 1887, in Historical Essays and Studies, a cura di J. N. Figgis e R. V. Laurence, Macmillan, London 1907.

[10] Michael L. Gross, Moral Dilemmas of Modern War : Torture, Assassination, and Blackmail in an Age of Asymmetric Conflict, Cambridge University Press, Cambridge 2009.

[11] Roger Trinquier, La guerre moderne, Economica, Paris 20082;David Galula, Contre-Insurrection, théorie et pratique, Economica, Paris 2008; Vincent Desportes, La guerre probable, Economica, Paris 2007.

[12] Qiao Liang, Wang Xsiangsui, La guerre hors limites, Rivages Poche, Paris 2006.

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Henri Hude, Fare la guerra dopo l’89, «Oasis», anno X, n. 20, dicembre 2014, pp. 65-69.

 

Riferimento al formato digitale:

Henri Hude, Fare la guerra dopo l’89, «Oasis» [online], pubblicato il 28 gennaio 2015, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/fare-la-guerra-dopo-l89.

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