Dalla discriminazione alla partecipazione.

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:11:22

La vicenda egiziana documenta come, in un mondo arabo-islamico in travaglio, il coinvolgimento dei cristiani nella vita politica e sociale è possibile solo se si costruisce uno Stato di diritto dotato di istituzioni non determinate dal vincolo confessionale.

In questi ultimi anni molti libri[1], articoli di giornale e reportage hanno documentato le violenze e le persecuzioni di cui sono vittime i copti. Generalmente si sottolinea come la loro situazione si sia aggravata drammaticamente a partire dagli anni ’70 e, più ancora, in seguito alla rivoluzione del 2011. È di fatto incontestabile che i cristiani d’Egitto abbiano fatto i conti con un incremento della violenza da quando l’ascesa al potere di Sadat ha coinciso con una crescita dell’attivismo islamista, e che soprattutto negli ultimi tre anni si sia raggiunto un punto critico. Tuttavia alcune analisi esagerano la portata di queste violenze, dando credito a fatti fondati soltanto su voci, mentre altre non sono abbastanza attente a distinguere le aggressioni motivate da discriminazione religiosa o da ostilità specifica verso i cristiani, da quelle che, soprattutto in Alto Egitto, fanno parte della tradizione del tha’r, cioè la vendetta compensativa generata da un conflitto di vicinato, dall’onore di una ragazza violato (sia il fatto reale o meno), da un grave insulto, da un debito non restituito…

Non operando questa distinzione, molti osservatori danno l’impressione che la questione religiosa sia determinante in tutte le violenze intercomunitarie, mentre spesso ne è solo un ingrediente, un ingrediente innegabile, ma pur sempre un ingrediente tra gli altri. Infine si lascia spesso intendere che le violenze anti-copte siano aumentate esponenzialmente dal 1970 a causa della politica accomodante dei regimi di Sadat e Mubarak nei confronti degli islamisti. Si collocherebbe in questa traiettoria il sensibile aggravamento delle relazioni intercomunitarie dovuto alla deriva del movimento rivoluzionario del 2011 e al tentativo di OPA sul Paese da parte dei Fratelli musulmani. L’implosione di un apparato di sicurezza onnipresente sotto Mubarak ha consentito ai gruppi islamisti di organizzarsi per imporre la propria legge in molte zone rurali o in numerosi quartieri poveri di grandi città. Sin dal marzo 2011 un attacco da parte dei salafiti alle bidonville degli straccivendoli di al-Moqattam aveva lasciato nel lutto una decina di famiglie. Nei mesi successivi sono state segnalati numerosi soprusi contro i copti, culminati nell’attacco alla cattedrale di S. Marco, sede del patriarcato del Cairo, da parte di teppisti favoriti dall’apatia sospetta della polizia, in occasione del funerale di cinque giovani cristiani uccisi in una rissa nella periferia popolare di al-Khusûs.

 

Le aggressioni del dopo Morsi

Si sa che dopo la destituzione del presidente Morsi, avvenuta il 3 luglio 2013 per mano dell’esercito in risposta alla sollecitazione dell’impressionante movimento popolare tamarrud, i copti, accusati dagli islamisti di essere tra i principali promotori di questo movimento – quando questo in realtà aveva riunito tutte le frange della popolazione, musulmani e cristiani insieme – sono diventati bersaglio del loro rancore. Un rancore che è stato esacerbato dal sanguinoso e inutile annientamento da parte dell’esercito (più di 600 morti) degli irriducibili pro-Morsi, il 14 agosto in piazza Rabi‘a al-‘Adawiyya. In seguito a questo evento si è assistito a un’ondata di aggressioni contro i cristiani praticamente in tutto il Paese: quasi ottanta chiese attaccate, una trentina completamente incendiate, numerosi negozi copti saccheggiati, e addirittura linciaggi e omicidi. La maggior parte dei copti si sono detti scioccati dall’indignazione selettiva dei media e dei governi occidentali davanti alla brutalità certamente eccessiva dell’esercito. Ai loro occhi i colpevoli di quell’escalation violenta erano infatti i Fratelli che, forzando i limiti entro i quali avrebbero dovuto contenere l’esercizio di un potere ottenuto attraverso le urne, avevano voluto accaparrarsi tutto il Paese. Peraltro, all’indomani della destituzione di Morsi, i dirigenti della Fratellanza, esortando alla “resistenza fino al martirio”, erano entrati in una logica di violenza senza concessioni, assumendosi la grave responsabilità del gran numero di morti che la loro scelta avrebbe causato. Di qui l’ampio sostegno che i copti hanno accordato all’esercito e alla candidatura del maresciallo al-Sisi alla presidenza di una repubblica la cui Costituzione rifiuta i riferimenti troppo vincolanti alla legislazione islamica che Morsi e i suoi sostenitori avevano introdotto a forza nella precedente legge fondamentale.

Mi sembra che questa lettura degli eventi tralasci tuttavia due parametri importanti, che vorrei illustrare in questo contributo e di cui ho l’impressione non si tenga sufficientemente conto. Innanzitutto occorre relativizzare l’affermazione secondo cui le violenze interreligiose in Egitto avrebbero conosciuto una sensibile recrudescenza nell’ultima quarantina d’anni. A questo proposito non è inutile uno sguardo sulla lunghissima durata.

 

Le radici antiche della discriminazione

L’Egitto è probabilmente il Paese in cui sono apparse, molti secoli addietro, le prime forme di una violenza indotta dalla discriminazione religiosa. Il fenomeno si è manifestato con il faraone riformatore Akhenaton nel XIV secolo a.C., qualunque sia la natura della sua “rivoluzione” religiosa, definita spesso in maniera troppo avventata come il primo “monoteismo”. Questa rivoluzione religiosa si è tradotta in una persecuzione furiosa di alcuni culti tradizionali a favore della devozione al Globo Aton, promossa dal monarca. Sempre in Egitto è comparso il primo antigiudaismo, quando verso il 410 a.C. il tempio della comunità ebraica che da oltre un secolo viveva sull’isola di Elefantina, fu distrutto con un vero e proprio pogrom fomentato dai sacerdoti del dio egiziano locale Khnoum e messo in atto da alcuni funzionari persiani. Nel III secolo a.C. il cronografo Manetone di Sebennytos propone una sorta di contro-narrazione dell’Esodo diffondendo favole calunniose sugli ebrei, in particolare quella secondo cui gli ebrei sarebbero stati dei lebbrosi ribelli cacciati dall’Egitto. Nei secoli successivi, le turbolenze interreligiose conosciute dall’Egitto antico si succedono con una continuità desolante: persecuzioni dei cristiani da parte delle autorità romane (esse hanno talmente segnato la coscienza dei cristiani egiziani che questi utilizzano tuttora l’era copta, detta “dei martiri”, iniziata nel 284, anno in cui salì al trono l’imperatore Diocleziano, iniziatore dell’ultima persecuzione); persecuzione dei pagani per opera dei cristiani dopo che gli editti di Teodosio (391/392) ebbero avallato quella che fu, ai miei occhi, la più grande catastrofe storica nel Cristianesimo, cioè la sua trasformazione in religione di Stato obbligatoria (lo scandaloso omicidio verso il 415 ad Alessandria della filosofa neoplatonica Ipazia ne è un’illustrazione dolorosa); sopraffazioni antisemite per mano degli stessi cristiani guidati da “san” Cirillo d’Alessandria nel 411 o 412… E poi, a partire dalla conquista araba, le violenze sporadiche del potere e soprattutto delle folle musulmane contro i copti. Se, nel complesso, la convivenza tra l’Islam dominante e il Cristianesimo divenuto progressivamente minoritario (fatto che, a mio avviso, non si verificò prima dell’ultimo terzo del X secolo) è stata abbastanza soddisfacente, è indubbio che vi siano stati anche periodi di tensione in cui le discriminazioni vissute dai cristiani si sono acuite e a volte cristallizzate in brutalità.

 

La dura età mamelucca

L’epoca più dura fu sicuramente l’inizio dell’era mamelucca nel XIV secolo: sociologicamente è comprensibile, perché è quello il momento in cui i cristiani divennero veramente minoritari, scendendo sotto la soglia del 30% o addirittura del 20%, e perciò più facilmente esposti alla vendetta popolare soprattutto quando la prosperità sociale o economica di alcuni di loro veniva considerata un affronto intollerabile alla dignità dei musulmani più disagiati. Il 1320 fu un anno veramente disastroso per i copti: ovunque nel Paese una folla fanatica cominciò ad attaccare i cristiani, in un movimento coordinato a tal punto da far pensare a una pianificazione. Decine di chiese e monasteri furono distrutti in più di tre settimane di moti, al Cairo, ad Alessandria, a Damietta e a Qûs. Il sultano al-Nâsir Muhammad Ibn al-Qala’ûn, piuttosto ben disposto verso i cristiani e determinato a intervenire per mettere fine ai disordini, si vide costretto, di fronte all’ampiezza del movimento popolare, a moderare l’intervento delle forze dell’ordine, anche se alla fine riuscì a riportare la calma e salvare la comunità cristiana da una fine fatale e in seguito favorì la ricostruzione dei santuari distrutti. Per la verità, comunque, i copti furono il bersaglio per tutto il XIV secolo di gravi fiammate di violenza nelle quali alcuni vedono l’influenza delle idee di Ibn Taymiyya (1263-1328), uno dei maître à penser del pensiero islamista della nostra epoca.

Le violenze di grave intensità furono comunque piuttosto rare al di fuori di questo secolo difficile. Generalmente le tensioni assumevano una forma molto più moderata. Prendiamo ad esempio un evento accaduto nel 1734 e riferito da Febe Armanios nella sua eccellente opera sui cristiani d’Egitto in epoca ottomana[2]. A causa di nuove tasse imposte ai cristiani, un migliaio di copti manifestò in piazza Rumayla al Cairo. La carestia che imperversava all’epoca impediva ai più di sottostare alle richieste del fisco. Fu il più importante movimento cristiano di protesta mai registrato in Egitto in epoca ottomana e i soldati intervennero brutalmente per reprimerlo.

L’incidente non è privo di corrispondenze con la repressione della manifestazione dei giovani copti del quartiere di Maspero il 9 ottobre 2011. I fatti si sono svolti in maniera simile ma, mentre nel 1734 vi furono solo due vittime, nel 2011 il bilancio è stato molto più pesante: 27 copti uccisi, per la maggior parte schiacciati dai carri dell’esercito, e circa 320 feriti gravi. Il costo relativamente basso in vite umane delle violenze perpetrate in passato contro i copti non è spesso rilevato in maniera adeguata dagli “storici”, inclini a drammatizzare il  destino dei cristiani d’Egitto sotto il dominio dalla Mezzaluna. Febe Armanios ricostruisce con precisione il martirologio dei cristiani che nel XVI secolo furono trucidati o giustiziati, alcuni dei quali per ragioni peraltro comprensibili (nel caso, per esempio, di ingiurie pubbliche contro la persona di Muhammad). In totale non supera una buona decina di nomi. Nel complesso, avrei preferito essere un copto al Cairo verso il 1572 piuttosto che un ugonotto a Parigi alla stessa epoca. L’Egitto non ha conosciuto una notte di San Bartolomeo e le violenze interreligiose in questo Paese non hanno mai mietuto le centinaia di migliaia di vittime prodotte dalle guerre di religione nell’Europa occidentale del XVI secolo, sia tra i protestanti che tra i cattolici. Questa notazione non può tuttavia far dimenticare che, da quando i musulmani sono diventati maggioranza dominante, in Egitto si è affermata una tradizione di violenze sporadiche contro i cristiani, alternate a periodi di buona convivenza.

Le violenze anti-cristiane sono una costante anche nella storia dell’Egitto contemporaneo, compreso nel loro non essere mai parossistiche. È vero che hanno conosciuto una parabola ascendente negli anni ’20, con la comparsa dei Fratelli musulmani e di gruppi simili come gli Shabab di Muhammad o la Young Men’s Muslim Association e la loro azione deleteria nella società egiziana. Barbara Carter, in un libro molto ben documentato[3], passa in rassegna tutti gli incidenti gravi e appunta in particolare gli scontri intercomunitari del 1946, 1947 e soprattutto del 1952. Già all’epoca la stampa denunciava la passività colpevole della polizia e l’indulgenza del Palazzo, che sembrava voler risparmiare i Fratelli e sollevarli da qualsiasi responsabilità in queste violenze.

 

 

Lo Stato protettore

Il secondo parametro da non perdere mai di vista quando si evoca la situazione interreligiosa dell’Egitto attuale è il ruolo più che equivoco svolto dallo Stato nel deterioramento relativo della situazione dei copti. Ciò che a partire dagli anni ’70 appare infatti nuovo (benché se ne trovino i prodromi in precedenza) è il modo in cui lo Stato egiziano strumentalizza la violenza intercomunitaria per giustificare da un lato l’apparato coercitivo che intende mantenere, e dall’altro per mandare segnali ambigui alla galassia islamista. Lo Stato, esibendo con decisione la propria identità islamica e imponendo di fatto alla comunità copta un profilo di sotto-cittadinanza accettata e profondamente interiorizzata, è stato il primo agente della discordia interconfessionale o intercomunitaria durante il periodo Sadat-Mubarak. È quando ha dimostrato Laure Guirguis in un’opera recente e di grande valore[4]. L’autrice mostra abilmente che le discriminazioni e le brutalità di cui sono spesso vittime i cristiani d’Egitto sono frutto di una definizione traballante di cittadinanza, in forza della quale l’ex regime aveva definito i criteri d’appartenenza alla “nazione” fondandoli in parte sulla religione. Dovendo fare i conti con l’influenza crescente dei Fratelli musulmani – che dunque hanno a loro volta una parte importante di responsabilità in questo sviluppo – lo Stato egiziano sotto Sadat e Mubarak, ma già negli ultimi anni della monarchia e poi sotto Nasser seppur in maniera meno marcata e meno sistematica, non ha mai smesso di accentuare questa situazione, collegando strettamente le pratiche autoritarie e securitarie di una cricca dominante e predatrice a una retorica che fondava la legittimità sulla segmentazione comunitaria della società. Per giustificare il presunto ruolo di istanza di sintesi moderatrice e pacificatrice, lo Stato era in realtà il primo attore della discordia interconfessionale. Detto in parole povere: “Alimento le divisioni tra le comunità per meglio dimostrare che solo io sono in grado di garantire la concordia con la forza”!

È lo Stato che ha mantenuto i copti nella posizione di minoranza subordinata, alla quale si chiedeva di giurare fedeltà totale al potere riconoscendovi il solo “protettore” efficace della pace intercomunitaria. Lo status medievale di dhimmi non esiste più legalmente, ma è sostituito da una forma di sudditanza e di minoritarizzazione più insidiosa. Il “pluralismo limitato”, e in realtà molto strumentalizzato, della vita politica egiziana a partire dagli anni di Sadat ha accentuato la presa di mira dei copti, in particolare nella mente dei Fratelli musulmani e secondo la travagliata evoluzione dei rapporti di questi ultimi con il regime. In origine, la rivoluzione del 2011 era motivata da una contestazione reale dell’ordine comunitario e da un vero ideale di cittadinanza egalitaria e non confessionale. Ma la logica strettamente matematica di elezioni finalmente libere ha consegnato il potere a una maggioranza islamista schiacciante alla quale è apparso subito chiaro che il “progetto di cittadinanza” si conciliava facilmente con eccezioni ed esclusioni comunitarie prestandosi addirittura ad acutizzarle.

 

Uscire dalla logica comunitarista

Avendo appoggiato la presa del potere da parte del maresciallo al-Sisi e il parziale ritorno dei vecchi apparati statali, i copti rischiano forse di ricadere nell’inibizione politica e sociale di una minoranza “protetta” da uno Stato che di fatto alimenta la loro segregazione? O la cultura del dibattito e l’aspirazione alla cittadinanza iniziate con gli eventi del 2011 hanno impresso alla loro dinamica identitaria uno slancio che consentirà loro di trovare la forza per uscire da questa ambiguità, di cui sono peraltro vittime anche altre comunità cristiane del Vicino Oriente, a partire dai cristiani di Siria? In un mondo arabo musulmano in cui la ricomposizione degli “islam” o del post-islamismo è piena di incertezze, l’uscita dal ghetto comunitario, il coinvolgimento in massa dei copti nella vita sociale e politica egiziana, e la non sottomissione della Chiesa alle politiche del governo rimangono legate alla costruzione di uno Stato di diritto dotato d’istituzioni non determinate dal vincolo confessionale. È questa la posta in gioco nei cambiamenti in corso tra le minoranze non musulmane del mondo arabo dove l’Islam, disorientato dal suo stesso dominio egemonico, sembra incapace di uscire dalla logica comunitaria per garantire a tutti un’uguaglianza civica conforme alle esigenze della modernità.

Il discorso che il presidente al-Sisi ha rivolto al nuovo papa copto Tawadros II e all’imam di al-Azhar Ahmed al-Tayyeb in occasione del giuramento dell’8 giugno scorso va nella giusta direzione. Il presidente ha infatti riconosciuto l’importante ruolo che la Chiesa svolge dal 2011 nella salvaguardia dell’unità nazionale e ha dichiarato che, insieme ad al-Azhar, essa può offrire un contributo prezioso per liberare il discorso religioso dalle manipolazioni degli ultimi anni. È possibile che, impegnandosi a tenere veramente conto dei traguardi irreversibili della rivoluzione del 2011 e delle aspirazioni di un gran numero di egiziani a una vera cittadinanza moderna, i militari ormai al potere riescano a favorire un nuovo clima socio-politico in controtendenza rispetto alla lunga tradizione di strumentalizzazione dei rapporti interreligiosi da parte dello Stato, oggettivamente complice della traduzione di questi in termini violenti? Senza eccessi di speranza ingenua e con un ottimismo molto prudente, è quanto si può augurare ai cristiani e ai musulmani d’Egitto. Come ha scritto padre Jean-Jacques Pérennès dell’Istituto Domenicano di Studi Orientali del Cairo in un’analisi pubblicata su La Croix il 23 agosto 2013,

tra qualche anno, l’episodio drammatico [di luglio-agosto 2013] sarà considerato la prima tappa dell’invenzione da parte di un popolo a maggioranza musulmana di un futuro post-islamista. Se questo trovasse conferma, sarebbe per l’Egitto e tutta la regione una bellissima notizia che meriterebbe molto più di qualche giudizio affrettato.

Ciò non toglie che le ferite aperte dalla repressione brutale degli islamisti per mano dell’esercito non si rimargineranno tanto presto, sia nella comunità copta, profondamente segnata dalle atrocità che questa violenza ha generato per reazione, sia negli ambienti islamisti schiacciati, umiliati e inevitabilmente spinti verso la radicalizzazione più estrema. E non è da minimizzare neppure la perplessità suscitata dal ruolo preponderante svolto dall’esercito nel cambiamento. Raramente la costruzione della pace sociale è stata la vocazione dei generali, così com’è vero che a cominciare dalla presa del potere da parte di al-Sisi si sono visti rifiorire i metodi di coercizione poliziesca cari al vecchio regime, una repressione implacabile che colpisce qualunque velleità di opposizione, sia da parte islamista che liberale. I copti, a voler troppo legare il proprio inserimento nella cittadinanza e il loro futuro a un regime dalle motivazioni e dalle strategie incerte, rischiano di smarrirsi in un’impasse storica.

 

Bibliografia:

Christian Cannuyer, Les coptes : renouveau spirituel et repli communautaire, in Vincent Battesti, François Ireton, L’Égypte au présent. Inventaire d’une société avant révolution, Sindbad/Actes Sud, Paris 2011, 901-916.

Christine Chaillot, Les Coptes d’Égypte, 1970-2011. Discriminations et persécutions, L’Harmattan, Paris 20132.

Laure Guirguis, Les coptes d’Égypte. Violences communautaires et transformations politiques (2005-2012), Karthala, Paris 2012.

Magdi Guirguis, Nelly Van Doorn-Harder, The Emergence of the Modern Coptic Papacy. The Egyptian Church and Its Leadership from the Ottoman Period to the Present, American University, Cairo 2011.

Mark N. Swanson, The Coptic Papacy in Islamic Egypt 641-1517, American University, Cairo 2010.

Antoine Fleyfel, Géopolitique des chrétiens d’Orient, L’Harmattan, Paris 2013, 151-180.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

[1] Uno dei più rappresentativi è quello della teologa svizzera ortodossa Christine Chaillot, Les Coptes d’Égypte 1970-2011, discriminations et persécutions, prefazione di Antoine Sfeir, Éd. de l’Œuvre, Paris 2011. Il libro ha riscosso un buon successo ed è stato ristampato rapidamente (nel 2013) da L’Harmattan.

[2] Coptic Christianity in Ottoman Egypt, Oxford University Press, Oxford 2011, 18.

[3] Barbara Carter, The Copts in Egyptian Politics 1918-1952, American University in Cairo Press, Cairo 1986.

[4] Les coptes d’Égypte. Violence communautaires et transformations politiques (2005-2012), Karthala, Paris 2012.

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Christian Cannuyer, I copti e l’uscita dal ghetto comunitarista, «Oasis», anno X, n. 20, dicembre 2014, pp. 51-55.

 

Riferimento al formato digitale:

Christian Cannuyer, I copti e l’uscita dal ghetto comunitarista, «Oasis» [online], pubblicato il 28 gennaio 2015, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/i-copti-e-luscita-dal-ghetto-comunitarista.

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