Già tra i primi esegeti e gli imam della famiglia del Profeta si scorgono le primizie di un’interpretazione del Corano che va al di là del significato immediato del testo

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:08:16

Già tra i primi esegeti e gli imam della famiglia del Profeta si scorgono le primizie di un’interpretazione del Corano che va al di là del significato immediato del testo. Ma è soprattutto la nascita di una via di conoscenza specifica, il sufismo, a dar vita a una lunga tradizione di interpretazione spirituale ed esoterica: una sorgente inesauribile alimentata tanto dal testo quanto dalla tradizione sufi, che ha sempre cercato nella Rivelazione l’origine della sua ispirazione.

 

Per il discorso che fa su se stesso, il Corano introduce il suo lettore alle vie dell’esegesi. Pur dichiarandosi un discorso chiaro ed esplicito (bayān), esso affida al Profeta la missione di esplicitarne il senso agli uomini (Cor. 16,44.64), e ricorda alla Gente del Libro che l’Alleanza implica il dovere di far conoscere il Libro e di non celarne alcunché (3,187). Come tutti i testi sacri, il Corano ricorre a simboli e parabole, usando uno stesso termine, āya (plurale āyāt) per designare i versetti del Libro, i segni della creazione e le prove miracolose della profezia. Creazione, Rivelazione e storie profetiche costituiscono dunque uno stesso libro di cui l’uomo deve meditare gli insegnamenti. Questa lettura meditativa o ermeneutica accompagna l’uomo sulla via da questo mondo all’altro e dai segni esteriori al loro significato interiore, di cui soltanto Dio detiene il senso ultimo. È dunque lo stesso Corano a tracciare un percorso esegetico di cui inaugura la terminologia. Il Profeta e alcuni suoi compagni ne definiscono in parte i punti di riferimento. Le prime generazioni di musulmani si preoccupano soprattutto di spiegare la lingua del Corano e collegare al testo le tradizioni riguardanti la storia sacra, quella del Profeta e dei profeti precedenti, che possono favorire la comprensione di un testo spesso allusivo. Tuttavia, tra i primi esegeti e gli imam della Famiglia del Profeta si scorgono già le primizie di un’interpretazione spirituale. Ma è soprattutto la nascita di una via di conoscenza specifica, il sufismo, a dar vita a una lunga tradizione di interpretazione spirituale ed esoterica del Corano la cui storia resta da scrivere.

 

L’esoterismo delle lettere

Nel commento coranico delle origini occupa un posto importante Hasan al-Basrī. Lui e il suo contemporaneo Abū l-‘Āliya identificano la “retta via” menzionata nella Fātiha con “l’Inviato di Dio e i suoi Successori”, ciò che equivale ad assimilare la Via a colui che guida verso di essa. Questa interpretazione non è priva di risonanze evangeliche e annuncia il ruolo sempre più accentuato del Profeta come fonte di ogni guida. Al-Basrī inaugura assieme ad altre figure dell’epoca dei Successori, che figure cioè che vengono dopo i Compagni del Profeta, quel tempo della spiritualità musulmana segnata dallo zuhd fī l-dunyā, o rinuncia al mondo, e da una vita decisamente ascetica, di cui si trova il prolungamento nel sufismo. I commenti attribuiti ad Hasan ne sono il riflesso: a proposto del versetto 2,41 («Non barattate i Miei Segni [i versetti del Libro] per vile prezzo»), egli scrive: «Il vile prezzo è questo mondo e tutto ciò che esso contiene»; o ancora, a proposito di 8,67 («Voi volete i beni del mondo, ma Dio vuole per voi quelli dell’Altro»): «Se l’unico peccato che temiamo per le nostre anime è l’amore di questo mondo, dovremmo già temere per le nostre anime».

Questo tipo di esegesi si fonda sull’immediata applicazione a se stessi del Corano vissuto “come esortazione” che contrappone questo mondo all’altro. Nei commenti di quest’epoca si trova anche un’esegesi più esoterica riguardante in particolare le “Lettere isolate”. A proposito delle lettere ALM che aprono la sura della Vacca, Tabarī riporta un detto attribuito a Ibn ‘Abbās, che le interpreta come «il Nome supremo di Dio» o la sigla «Io, Dio, sono il più sapiente» (Ana ALlāh a‘laM)». Tabarī cita inoltre il detto, più completo, di al-Rabī‘ Ibn Anas: «Sono alcune delle ventinove lettere dell’alfabeto presenti in tutte le lingue. Non vi è lettera tra queste che non sia la “chiave” di uno dei Nomi di Dio, che non significhi grazie e prove divine e che non indichi la durata di un popolo». Vi è qui una chiara allusione a quella che nell’Islam diventerà la “scienza delle Lettere” (‘ilm al-hurūf) e che acquisirà un duplice orientamento, metafisico e spirituale o cosmico e divinatorio. A questo proposito Tabarī (m. 150/767) riporta una tradizione, che troviamo già in Muqātil, secondo la quale alcuni dotti ebrei di Medina, sentendo queste lettere, avrebbero tentato di dedurre dal calcolo del loro valore numerico (hisāb al-jumal) la durata della comunità di Muhammad, ma alla fine vi avrebbero rinunciato a causa della ripetizione troppo complessa delle lettere. Confermavano così, loro malgrado, il principio secondo il quale «l’interpretazione di quei passi non la conosce che Dio» (3,7).

Nel solco di Louis Massignon e del suo Essai sur les origines du lexique technique de la mystique musulmane, Paul Nwyia si è assegnato il compito, con il suo Exégèse coranique et langage mystique, di mostrare come, attraverso un’interiorizzazione progressiva, una parte del linguaggio coranico si sia poco a poco caricata dell’esperienza spirituale della comunità musulmana fino al III-IV/IX-X secolo, momento in cui si costituisce il sufismo come metodo e corpo dottrinario. Nel commento di Muqātil Ibn Sulaymān, accanto a un approccio filologico e storico che dettaglia le circostanze della rivelazione, si trova già un’apertura al senso simbolico e alla dimensione metafisica della profezia, per esempio nella sua interpretazione del versetto della Luce (24,35): «Il cristallo della lampada» simbolizza la natura luminosa di Muhammad, mentre «l’Olivo né orientale né occidentale» il cui olio alimenta la lampada, rappresenta la figura di Abramo a cui il Profeta fa risalire la propria origine.

 

I primi commenti sufi

Attraverso lo studio della letteratura degli ashbāh wa l-nazā’ir, consacrata alla polisemia della terminologia coranica, Nwyia rileva, da Muqātil a Tirmidhī (m. verso il 300/890) un ruolo sempre più consistente dell’esperienza spirituale nella comprensione del testo coranico. Questo approccio ermeneutico, segnato tanto dall’attesa di Dio quanto dalla diffidenza nei confronti delle astuzie dell’anima, si traduce in un certo numero di commenti parziali, il primo dei quali è attribuito all’imam Ja‘far al-Sādiq (m. 148/765) e nel quale si trovano già le principali nozioni del sufismo e una lettura interiore e simbolica. Le dodici sorgenti sgorganti dalla roccia che Mosè riceve l’ordine di battere con la sua verga (7,160) rappresentano le diverse modalità di conoscenza di Dio, dall’attestazione dell’unità divina ai più alti gradi di realizzazione in Dio. Allo stesso modo il versetto «Sia benedetto Colui che ha posto in cielo delle costellazioni (burūj)» (25,61) dà luogo a un accostamento linguistico e simbolico praticato da numerosi esegeti: il cielo (samā’), dalla stessa radice di samā, elevarsi, è assimilato al cuore, destinato a elevarsi fino all’oggetto della sua conoscenza. Le dodici costellazioni o segni dello zodiaco, che rappresentano l’ordinamento del mondo, corrispondono a ciò attraverso cui il cuore realizza la propria elevazione: la fede, la conoscenza, l’intelletto, la certezza, l’amore… Nwyia propende per l’autenticità di questo commento, che ha ricostituito a partire dalle Haqā’iq al-tafsīr di Abū ‘Abd al-Rahmān al-Sulamī di Nishapur (m. 412/1021). Quest’opera è una sintesi dei commenti precedenti di Ja‘far, Sahl al-Tustarī (m. a Basra nel 283/896) e Ibn ‘Atā’, così come di commenti di versetti attribuiti a diversi maestri o ad anonimi, e infine di numerosi insegnamenti spirituali su virtù e nozioni coraniche, ricollocati in questo modo in un contesto esegetico.

Il tafsīr di Sahl [al-Tustarī], edito ormai da lungo tempo, è stato studiato in maniera esaustiva da Gerard Böwering, che definisce il suo metodo un incontro tra il Corano e l’universo spirituale di Tustarī. Vi si ritrova una nozione di grande importanza per il sufismo successivo: la “Luce di Muhammad”, dalla quale sono scaturite tutte le luci profetiche. Più che un’esegesi in senso stretto, il commento di Sahl indica i punti fermi della Via e della conoscenza ispirata dal testo coranico. «Non date a Dio degli eguali» (2,22), cioè degli opposti (addād). E il più grande opposto è l’anima che comanda al male. Questa interpretazione, così come i discorsi raccolti da Sulamī, segue un procedimento interiorizzante strettamente legato a una pratica della via spirituale, come sottolinea al-Sarrāj di Tūs (m. 378/988) a proposito dei commenti sufi del Corano, dello Hadīth e delle parole dei maestri. Questo metodo o “scienza dell’allusione” (‘ilm al-ishāra) consiste nel comprendere il senso di un versetto o di un’espressione cogliendovi un’allusione al proprio stato spirituale. Tali sensi indotti (mustanbatāt, dal verbo istanbata, che si trova in Cor. 4,83 e che significa etimologicamente far zampillare l’acqua dal pozzo) sono definiti come «i sensi indotti dagli uomini della conoscenza, uomini della realizzazione, in virtù della loro conformità esteriore e interiore al Libro di Dio, della loro imitazione esteriore e interiore dell’Inviato di Dio e della loro messa in pratica con la totalità del loro essere, esteriormente e interiormente». L’insistenza sul riferimento al Corano, alla Sunna e all’equilibrio tra l’esteriore e l’interiore s’inserisce in un’apologia del sufismo rivolta sia contro gli essoteristi, che disdegnano il senso interiore, sia contro gli esoteristi (bātiniyya), che trascurerebbero il senso esteriore. Lo stesso intento apologetico si trova nell’introduzione di Sulamī alle Haqā’iq quando cita la risposta di ‘Alī Ibn Abī Tālib a colui che gli domanda se abbia ricevuto dal Profeta un’altra rivelazione oltre il Corano: «No, per Colui che ha creato il seme e dato l’esistenza all’anima, soltanto una comprensione del suo Libro come quella che Dio accorda ad alcuni dei suoi servi». Sull’autorità di Ja‘far al-Sādiq, i gradi dell’interpretazione sono quelli dell’elezione: «L’adorazione è per l’uomo comune, l’allusione per l’élite, i sensi sottili (latā’if) per i santi e le realtà divine per i profeti», e quelli della percezione della parola: audizione, intelligenza, contemplazione e accettazione totale. I piani interpretativi si sovrappongono secondo la predisposizione e lo stato del lettore. «Questo è il Libro (o la Scrittura)…» (2,2): il libro del destino in cui è registrato il divenire di tutte le cose, l’amore e la conoscenza inscritti da Dio nel cuore dei suoi santi e che fanno loro accettare il suo decreto, o ancora ciò che Dio ha prescritto a se stesso dall’eternità: «la mia misericordia ha preceduto la mia collera». A prevalere qui è l’idea di prescrizione più che di libro, contrariamente all’esegesi classica ma conformemente a uno dei sensi di kitāb (scrittura, libro, NdR) e al significato generale della sura della Vacca. Se il commento detto “allusivo” (ishārī) fu più volte criticato dagli esoteristi è perché esso isola spesso un termine o un aspetto di un passo per trovarvi un’indicazione riguardante il lettore più che il testo stesso. Così, nel passaggio sugli angeli che, dopo aver protestato contro la luogotenenza dell’uomo sulla terra e aver opposto la sua tendenza alla corruzione alla loro lode e glorificazione di Dio, devono riconoscere la scienza di Adamo e prosternarsi davanti a lui (2,30-32), molti maestri vedono un’allusione alla pretesa dell’anima che alla fine deve riconoscere la sua ignoranza.

 

Il Libro simbolo del Tutto

Autore di uno dei primi tafsīr sufi, Sahl al-Tustarī compone anche un’epistola sulle Lettere in cui si interroga sulla comune origine del Libro e del mondo. Dal Verbo e dalla Luce emanano i principi delle cose così come le Lettere primordiali che, su un piano inferiore, sono in rapporto con gli elementi costitutivi del mondo fisico. La relazione tra Dio e il mondo è dunque analoga alla produzione del libro per il tramite del Verbo. La dottrina metafisica e cosmologica di Sahl non fu sicuramente ininfluente sul suo discepolo al-Hallāj.

La sua opera è proseguita e perfezionata da Ibn al-‘Arabī (m. 638/1240), originario di Murcia ma formatosi a Siviglia. Prima di lasciare l’Occidente per l’Oriente, Ibn ‘Arabī aveva composto un vasto commento, che da allora è scomparso. Per sua stessa testimonianza sappiamo che il commento si fermava alla storia di Mosè e di al-Khadir nella sura della Caverna (18), comprendeva 66 volumi e accordava un posto importante alla scienza delle Lettere. Ibn ‘Arabī ha composto alcuni trattati minori di natura esegetica ed ermeneutica, ma sono soprattutto due sue opere, le Futūhāt al-Makkiyya e Fusūs al-hikam, a rientrare parzialmente nell’esegesi spirituale per il gran numero di versetti che vi sono commentati. La loro stessa struttura è in stretto rapporto con l’ordine del Corano, come ha dimostrato Michel Chodkiewicz. L’ermeneutica di Ibn ‘Arabī segue diverse vie, principalmente l’i‘tibār o l’ishāra, allusione a uno stato interiore, e si caratterizza soprattutto per una grande attenzione alla lettera del testo da cui scaturisce il senso spirituale. Per lui, come per i suoi predecessori «non vi è parola nell’universo che non possa essere interpretata» perché tutti i piani di esistenza sono in rapporto gli uni con gli altri. La sua dottrina metafisica e iniziatica lo conduce a formulare chiaramente il rapporto di quasi identità tra il Corano, Parola di Dio, e l’Uomo perfetto o universale, somma di tutte le perfezioni, intermediario e velo allo stesso tempo tra Dio e il regno della manifestazione. Egli esprime così, ma per vie differenti, l’idea presente nello sciismo originale del Qayyim al-Qur’ān, colui che, dopo il Profeta, deve assumere pienamente il senso e la funzione della Rivelazione.    

L’opera di Ibn ‘Arabi ha avuto numerosi continuatori, dai suoi discepoli diretti, come Sadr al-Dīn al-Qunāwī (m. 673/1274) ad alcuni esegeti contemporanei. Questa lunga catena mostra che l’interpretazione spirituale del Corano è una sorgente inesauribile, alimentata tanto dal testo stesso che dalla tradizione sufi, la quale a sua volta ha sempre cercato nella Rivelazione l’origine della sua ispirazione.

 

*Questo articolo è una rielaborazione sintetica della voce “Esegesi mistica”, pubblicata in M.A. Amir-Moezzi e I. Zilio-Grandi (a cura di), Dizionario del Corano, Mondadori, Milano 2007.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 

Bibliografia

Gerhard Böwering, The Mystical Vision of Existence in Classical Islam. The Qur’ānic Hermeneutics of the Sūfi Sahl at-Tustarī (d. 283/896), Walter De Gruyter, Berlin-New York 1980.

Gerhard Böwering, The Qur’ān Commentary of Sulamī, in Wael B. Hallaq, Donald Presgrave Little (a cura di), Islamic Studies presented to Charles J. Adams, Brill, Leiden 1991, pp. 41-56.

Michel Chodkiewicz, Un océan sans rivage. Ibn ‘Arabî, le Livre et la Loi, Seuil, Paris 1992.

Claude Gilliot, Exégèse, langage et théologie en islam. L’exégèse coranique de Tabari, Vrin, Paris 1990, pp. 112-126.

Pierre Lory, La science des lettres en islam, Dervy, Paris 2004.

Louis Massignon, Essai sur les origines du lexique technique de la mystique musulmane, Les éditions du Cerf, Paris 1999 (prima edizione 1922).

Paul Nwyia, Exégèse coranique et langage mystique. Nouvel essai sur le lexique technique des mystiques musulmans, Dar el-Machreq, Beyrouth 1970.

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Denis Gril, Il misticismo oltre la lettera, «Oasis», anno XII, n. 23, giugno 2016, pp. 41-46.

 

Riferimento al formato digitale:

Denis Gril, Il misticismo oltre la lettera, «Oasis» [online], pubblicato il 21 giugno 2016, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/il-misticismo-oltre-la-lettera.

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