Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:10:20

Oltre dieci anni di negoziati accompagnati da accanite polemiche e da quasi quotidiani dibattiti a livello politico e tra esperti. Ultimamente, una serie di scadenze che non erano tali, proroghe, negoziati ad oltranza. Finalmente, un accordo. Un accordo la cui importanza è dimostrata nello stesso tempo sia dalla difficoltà di raggiungerlo che dalla determinazione di entrambe le parti di conseguirlo nonostante critiche, accuse, ostilità e dubbi. Per quanto riguarda le difficoltà, non ci si dovrebbe lasciare trarre in inganno dalle pur autentiche complessità del dossier nucleare, per superare le quali è stata necessaria tutta l’abilità di negoziatori di grande professionalità. Se si fosse applicato il Tnp, il Trattato di non-proliferazione, una soluzione sarebbe stata trovata oltre dieci anni fa, ai tempi del governo riformista di Khatami, allora pronto ad accettare sostanzialmente gli stessi compromessi che sono alla base dell’intesa di Vienna. In sintesi, un do ut des fra riconoscimento del diritto iraniano all’energia nucleare e l’accettazione di limiti e ispezioni. Ma l’Iran era considerato «speciale» per tutta una serie di motivi: il lungo isolamento internazionale; la reciproca ostilità con gli Stati Uniti, retaggio di una storia difficile da superare; il sospetto delle sue ambizioni egemoniche da parte dei Paesi arabi del Golfo; le accuse israeliane di antisemitismo e intenzioni genocide, alimentate dalla retorica islamo-populista di Ahmadinejad. Se alla fine un accordo è stato raggiunto è perché sia americani che europei sono arrivati alla conclusione che - al di là della storia, delle rivalità geopolitiche, della retorica rivoluzionaria - l’Iran è in realtà un Paese razionale, come ha detto Obama commentando l’accordo, e che quindi con l’Iran si possono raggiungere intese, accettare compromessi basati su considerazioni di interesse nazionale piuttosto che di ideologia, instaurare rapporti fatti di una miscela di collaborazione e contrapposizione, di contenimento e riconoscimento di legittimi interessi nazionali. Il vero scontro sull’opportunità o meno di arrivare a un accordo sul nucleare, uno scontro che rimane aperto e che ancora potrebbe produrre sorprese (soprattutto nel Congresso americano - dove, come ha detto Obama, per evitare una bocciatura potrebbe essere necessario l’uso del veto presidenziale), non è mai stato, nonostante le apparenze, davvero centrato sul numero di centrifughe o sulle scorte di uranio arricchito, ma sulla natura del regime iraniano, sul suo ruolo regionale, sulle sue ambizioni geopolitiche. E’ al riguardo rivelatore che negli ultimi giorni il negoziato abbia minacciato di arenarsi su un tema che non ha niente a che vedere con il nucleare, l’embargo alla vendita di armi all’Iran - che l’accordo di Vienna mantiene comunque per i prossimi cinque anni - e che i nemici dell’intesa, invece di prospettare improbabili «primi colpi» nucleari iraniani contro Israele, abbiano messo l’accento sul pericolo che la fine delle sanzioni possa mettere a disposizione del regime iraniano enormi risorse finanziarie aggiuntive da adibire a una politica eversiva ed espansiva a livello regionale. Ma è proprio dal contesto regionale che è dipesa la disponibilità al compromesso (inevitabile quando non si tratta di una pura e semplice resa) da parte del Presidente Obama, e non solo. Si fa davvero molta fatica, oggi, ad accogliere la tesi di Netanyahu sull’Iran come nemico principale e minaccia alla stabilità regionale se non mondiale nel momento in cui lo Stato Islamico rivela non solo una tremenda sostenibilità militare, ma anche ambizioni espansive dal punto di vista sia ideologico che territoriale. Ambizioni che il regime iraniano ha da tempo abbandonato, dopo i primi anni di illusioni rivoluzionarie, per una realistica constatazione dell’impossibilità di estendere a livello regionale il khomeinismo per un Paese irrimediabilmente minoritario, in quanto persiano e non arabo, sciita e non sunnita. L’Iran rimane anche dopo l’accordo sul nucleare un interlocutore/avversario problematico ma tutt’altro che irrazionale o fanatico. Se mai cinico, abile nella strategia e nella tattica, ma nel perseguimento del proprio interesse nazionale e non di un disegno smisurato ed apocalittico (il Califfato) come quello dello Stato Islamico. Uno Stato Islamico la cui minaccia crediamo abbia non poco pesato nel convincere i 5+1 della necessità di raggiungere, attraverso la rimozione dell’ostacolo costituito dalla questione nucleare, un tipo di rapporto meno conflittuale con l’Iran, nella convinzione che Teheran possa costituire, come già peraltro sta già facendo in Iraq, un indispensabile baluardo contro l’avanzata dello Stato Islamico e la minaccia di un crollo dello Stato iracheno. A Vienna si è pensato certamente all’Iraq, e anche alla Siria, dato che soltanto un deciso intervento iraniano potrebbe fare pendere la bilancia verso quella soluzione diplomatica che Assad, incapace di prevalere ma difficile da sconfiggere militarmente, potrebbe accettare soltanto dietro pressione del suo alleato principale, l’Iran. Un Iran che non è da escludere che sia pronto ad accettare un compromesso piuttosto che correre il rischio che la Siria finisca per cadere sotto il controllo del jihadismo più radicale, contemporaneamente anti-occidentale e anti-iraniano. E’ una scommessa forte e non priva di azzardo, ma non molto diversa da quella che fu a suo tempo alla base della distensione con l’Urss e della normalizzazione con la Cina, avversari ben più minacciosi, militarmente e ideologicamente, di quanto non sia mai stato l’Iran. Una scommessa il cui esito promette (o minaccia, come ritiene chi la teme) di ristrutturare l’intero quadro geopolitico del Medio Oriente e - va aggiunto - anche di determinare profonde trasformazioni interne nel regime iraniano. E’ chiaro che Obama, accettando di iniziare un difficile processo di normalizzazione con l’Iran, abbandona - e sauditi ed israeliani difficilmente lo perdoneranno per questo - il disegno, tanto ipotetico quanto rischioso, di un cambiamento di regime, ma faremmo bene a notare che non solo i cittadini iraniani, ma anche la stragrande maggioranza della diaspora iraniana, senza escludere i più coraggiosi dissidenti, la cui credibilità politica e morale è dimostrata dalla repressione patita, salutano questo accordo come la promettente premessa di un cambiamento nel regime capace di aprire la strada all’emergere di un Paese più prospero e più forte anche internazionalmente, non più isolato e boicottato. La speranza è che in queste condizioni diventi più facile riprendere anche se gradualmente un disegno di cambiamento in senso democratico. Proprio per questo motivo non mancano, nelle correnti più radicali del regime, timori sulle possibili ripercussioni interne dell’accordo concluso a Vienna. Subito chi è contrario all’accordo lo ha definito «un regalo agli ayatollah» basato su pericolose concessioni. A Teheran, invece, è grande festa popolare, non di regime. Roberto Toscano La Stampa