Non soltanto Isis. I tre fronti decisivi del governo Abadi

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:09:08

Nel suo discorso televisivo alla nazione alla fine di dicembre, il primo ministro Haider al-Abadi ha dichiarato: “Se il 2015 è stato l’anno della liberazione (di Ramadi, ndr), il 2016 sarà un anno di grandi vittorie, che porranno fine alla presenza di Da’esh in Iraq e Mesopotamia… Stiamo per liberare Mosul e questo sarà il colpo mortale a Da’esh”, acronimo arabo di Stato Islamico in Iraq e Siria. In realtà, la lotta contro Isis è soltanto uno dei fronti aperti per Abadi, primo ministro sciita, e non è nemmeno il più pericoloso. Il premier iracheno è debole, sotto attacco. I suoi nemici non sono soltanto i jihadisti con le bandiere nere, ma i suoi stessi ministri in doppiopetto fumo di Londra, capi dei partiti sciiti, la maggioranza religiosa al potere in Iraq. Considerata la gravità della minaccia jihadista nel paese e l’assenza di una condivisa alternativa, i movimenti politici sciiti non aprono una crisi di governo, ma non lasciano neppure Abadi governare. Le milizie sciite sostenute dall'Iran L’attuale governo iracheno si trova impegnato su tre fronti: quello militare, quello economico e quello politico. Sul fronte militare, il prossimo obiettivo è Mosul. Per le forze armate irachene si tratta di un’impresa ardua: devono avanzare oltre 200 chilometri in territorio nemico e assaltare un grande centro urbano, che lo Stato Islamico difenderà con accanimento, considerato il suo valore politico – è la seconda città del paese – ed economico – fornisce tasse e petrolio. Inoltre, il governo è fortemente limitato dal ruolo dell’Hashed al Sha‘bi, ovvero le milizie sciite appoggiate dall’Iran. Sono un’arma potente nella comune lotta contro lo Stato Islamico, ma il cui impiego delegittima il governo stesso. Le milizie dell’Hashed al Sha‘bi stanno progressivamente prendendo il controllo di diverse aree dell’Iraq, e nel contempo stanno cercando di imporsi come soggetti politici. Una soluzione a questo rafforzarsi di milizie fuori dai ranghi dell’esercito sarebbe quella di far confluire le diverse unità non ufficiali in un’unica Guardia nazionale a reclutamento locale, ma ciò significherebbe riconoscere un ruolo anche alle milizie sunnite: numerosi politici sciiti sono fortemente contrari. A dicembre, Abadi avrebbe approvato il reclutamento di 40.000 unità sunnite. Un secondo fronte è quello economico. Il prezzo del petrolio ai minimi storici non aiuta un paese che trae dall’esportazione il 90 per cento delle sue entrate. Inoltre, corruzione e inefficienze delle istituzioni sono diventati ormai un nodo da sciogliere per il futuro della nazione in guerra, e le proteste popolari sono diffuse e radicate. L’Iraq necessita investimenti, partendo da settori fondamentali come acqua potabile ed energia elettrica. Città come Ramadi sono da ricostruire ex novo, mentre il resto del Paese risente ancora delle conseguenze di trent’anni di guerre ed embargo. Il terzo fronte, forse il più insidioso, è quello politico. Qui i problemi sono essenzialmente tre; il processo di riconciliazione e inclusione della componente sunnita. Secondariamente le riforme politiche, economiche e di lotta alla corruzione e, infine, la politica estera. Riguardo la riconciliazione nazionale, il premier è impegnato a trovare una sorta di soluzione politica che riammetta i sunniti all’interno delle istituzioni dello Stato iracheno, strappandoli così all’aria gravitazionale e al potere coercitivo di Da’esh. Nel suo programma politico, Abadi a suo tempo annunciò un progetto di riconciliazione nazionale, i cui pilastri erano due leggi: quella sulla de-baathificazione e quella sulla Guardia nazionale. La prima riammetterebbe i sunniti all’interno delle istituzioni dello Stato e della vita politica, escludendo soltanto i casi più eclatanti di collusione con il regime deposto. Il testo di legge approvato a dicembre non è però stato votato proprio dai partiti sunniti – che speravano in una legge a loro favorevole – e questo è un sintomo che la questione non è certo in via di risoluzione. Per quanto riguarda la Guardia nazionale, la legge è bloccata dall’opposizione dei partiti sciiti, che vogliono mantenere il predomino sul terreno con le loro milizie. L’unica consolazione per i sunniti è stata l’approvazione di un’amnistia per le centinaia di detenuti incarcerati dall’ex primo ministro Nouri al-Maliki, per motivi settari. Un sistema di controllo feudale Anche le riforme economiche, politiche e contro la corruzione che Abadi ha cercato di varare sono rimaste bloccate. La questione di fondo è che i partiti iracheni hanno instaurato un sistema di controllo “feudale” di ministeri e istituzioni, che sfruttano come strumenti di potere e fonte di reddito. Ad esempio, per garantirsi consenso elettorale, i ministeri hanno assunto decine di migliaia di lavoratori, oltre ogni effettiva necessità. Naturalmente, tagliarne il budget o ridurne il personale significa porsi in rotta di collisione con i rispettivi partiti-padrone. Dunque, l’opposizione alle riforme da parte del sistema partitico è forte, e più volte il Parlamento ha fatto mancare la maggioranza o ha rinviato l’approvazione di specifiche leggi. Alla fronda parlamentare si affianca anche una crescente opposizione dei cittadini, considerata l’estrema impopolarità di proposte di riforma come la riduzione dei salari e delle pensioni del settore pubblico. Tra i primi a volere la caduta del governo Abadi c’è il suo stesso partito Da‘wa, all’interno del quale da tempo circolano i nomi come suoi possibili sostituti del predecessore Nouri al-Maliki, di Ali al-Adib, una delle figure di vertice del Da‘wa, filoiraniano e in passato candidato alla posizione di primo ministro, o addirittura di Hadi al-Amiri, comandante delle milizie Badr, nate negli anni ‘80 in Iran, formate da fuoriusciti ed ex prigionieri iracheni. Preoccupa il fatto che a novembre Abadi abbia incontrato a Najaf i vertici religiosi, ma questa volta l’ayatollah Ali Sistani – la figura religiosa sciita più importante d'Iraq, che in passato lo ha apertamente appoggiato – non ha voluto incontrarlo. Un ultimo terreno di scontro è quello della politica estera. Oggi Stati Uniti e Iran si trovano ad avere un nemico comune, lo Stato Islamico; però la realtà è che i rapporti tra i due governi sul terreno militare e politico iracheno rimangono tesissimi, e ciò influisce negativamente anche sulle forze politiche irachene. Basti pensare alla forte spinta di Washington per una inclusione politica dei sunniti, osteggiata dalle milizie sciite apertamente appoggiate da Teheran.