Il Pontefice ha scelto di visitare Paesi spesso dimenticati che raccontano le complessità e le criticità di un continente

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:09:31

Il primo viaggio apostolico di Papa Francesco in Africa subsahariana ha rappresentato un evento di grande rilevanza spirituale per milioni di cristiani ma anche un momento di dialogo interculturale e interreligioso di fondamentale portata in un’area caratterizzata da dinamiche di conflitto spesso incentrate sulla religione. Tra il 25 e il 30 novembre 2015, la missione pastorale del Santo Padre nel continente africano ha toccato tre Paesi dell’Africa centrale ed orientale: Kenya, Uganda e Repubblica Centrafricana. La scelta è ricaduta su tre realtà in cui i cristiani costituiscono in media circa l’80 per cento della popolazione (nello specifico, in Kenya i cattolici sono circa il 25 per cento della popolazione, in Uganda il 40 per cento, in Repubblica Centrafricana quasi il 30 per cento). Si tratta di Paesi che manifestano, in forme anche diverse, le complessità e criticità che caratterizzano il continente africano, e l’area subsahariana in particolare. Questa regione presenta il più alto tasso di crescita demografica al mondo: le Nazioni Unite stimano che dagli attuali 1,1 miliardi di persone, gli africani potrebbero raggiungere nel 2100 la quota di due miliardi. Qui, più del 50 per cento della popolazione ha meno di 25 anni, un potenziale enorme in termini di prospettive di crescita. L’Africa subsahariana ospita infatti alcuni dei Paesi che stanno crescendo di più in termini economici, con tassi superiori a quelli di Cina, India e altre potenze emergenti e che ne fanno una delle aree più interessanti per gli attuali e futuri investimenti economici e sviluppi commerciali, in vari settori produttivi, non soltanto in quelli legati alle materie prime. Allo stesso tempo, tuttavia, quest’area presenta i tassi di povertà più alti al mondo, sia in termini assoluti (dei 20 paesi più poveri al mondo in termini di Pil, 18 sono subsahariani) sia di popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà. Nella gran parte dei Paesi subsahariani l’accesso ai servizi di base, sanità, istruzione, acqua potabile ed elettricità, non è ancora garantito al 40-50 per cento della popolazione. E chi accede ai servizi lo fa in forme non sempre stabili o sostenibili, almeno secondo i parametri dei Paesi più sviluppati. L’Africa subsahariana mette quindi in evidenza l’esistenza di grandi contraddizioni, dove la sperequazione tra i pochi ricchi e i tanti poveri si fa sempre più ampia, non soltanto tra Paesi ma anche al loro interno. Il Kenya ne è un esempio emblematico: lo sviluppo vissuto dalla capitale Nairobi con gli alberghi di lusso, le zone residenziali, i centri commerciali e la city finanziaria, la fa sembrare una “nuova Dubai”, ma le periferie, come quella di Kigera, in cui vivono centinaia di migliaia di persone in situazioni di povertà estrema, disoccupazione ed emarginazione, testimoniano che crescita economica e sviluppo non vanno di pari passo. Il Kenya è anche uno dei Paesi in cui le tensioni politiche e sociali sono spesso caratterizzate dal richiamo al tribalismo e alle divisioni linguistiche e culturali. Ciò avviene quasi sempre in occasione delle elezioni, dove la competizione politica vede l’utilizzo dell’elemento etnico come fattore di contrapposizione e scontro. Da questo punto di vista Papa Francesco, nel corso della sua prima tappa in Kenya, ha richiamato più volte i fedeli, e i giovani in particolare, a individuare i veri valori umani e sociali, il cui rispetto e la cui fedeltà possono permettere la pacifica convivenza e lo sviluppo equo e sostenibile. I valori umani sono stati uno dei temi principali anche della seconda tappa del viaggio del Pontefice, che ha toccato l’Uganda. Partendo dal ricordo dei martiri cristiani in epoca precoloniale, Papa Francesco ha voluto sottolineare come carità e perdono debbano essere posti alla base della vita quotidiana e che soltanto valori quali fedeltà, l’onestà e l’integrità possono aiutare a creare le basi per “cooperare con gli altri per il bene comune e a costruire una società più giusta, che promuova la dignità umana, senza escludere nessuno, che difenda la vita, dono di Dio, e protegga le meraviglie della natura, il creato, la nostra casa comune". Indubbiamente, la volontà del Santo Padre di visitare la Repubblica Centrafricana è stato uno degli emblemi principali del viaggio apostolico. Nonostante i notevoli rischi alla sicurezza, sua personale e delle migliaia di fedeli accorsi alla sua presenza, e i numerosi inviti a desistere (compresi quelli provenienti dalla Francia, Paese che in Repubblica Centrafricana è presente dal 2013 con un contingente militare di circa 900 unità a seguito delle violenze armate tra membri di fazioni politiche contrapposte, divisi tra cristiani e musulmani), Papa Francesco ha voluto dare un segnale chiaro e inequivocabile di rispetto dell’altro e di fratellanza tra chi crede in Dio. La visita alla moschea della capitale Bangui e l’incontro con le autorità spirituali islamiche (enfatizzato dall’invito rivolto all’Imam da Papa Francesco di salire sulla “Papamobile”) è stata un’occasione per testimoniare il valore universale della preghiera. Papa Francesco, nel corso dei vari incontri pubblici con le comunità keniote, ugandesi e centrafricane ha rivolto una serie di appelli al dialogo, alla pace ed all’incontro, evidenziando in più di un’occasione che lo scontro tra membri delle diverse comunità religiose e tra cristiani e musulmani in particolare, ha un’origine politica, in cui la religione è utilizzata come strumento per fomentare le tensioni e spingere verso l’odio e la violenza. Con semplicità ma con una forza e incisività straordinarie Papa Francesco ha ricordato che non c’è pace senza giustizia e non c’è giustizia senza inclusione. Ciò accomuna tutti i popoli, di qualsiasi etnia, lingua o confessione religiosa, e che “Dio è pace, salam”. *Aldo Pigoli è docente di Storia dell’Africa contemporanea all’Università Cattolica di Milano