Difficile fare un film su un futuro che non sappiamo nemmeno immaginare

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:07:06

È bello che l’Italia sia in corsa per l’Oscar grazie a un film come Fuocoammare. Per molte ragioni. La prima e la più importante è riassunta in una battuta del medico protagonista del documentario, Pietro Bartolo: «È un dovere di ogni uomo che sia un uomo aiutare queste persone». Punto. Non c’è niente da aggiungere: qualunque sia la ragione per cui arrivano gli immigrati, il luogo da cui partono, la lingua, la religione, la pelle che abitano, vanno aiutati. È un’evidenza che si impone davanti ai corpi denutriti e disidratati di uomini e donne, di fronte ai bambini che passano come fagotti di mano in mano.

Seconda ragione: è la prima volta che l’Italia partecipa alla competizione con un documentario. E dopo decenni di filmetti insulsi sulla fatica di crescere non è male un’immersione nella realtà.

Terza ragione, il regista Gianfranco Rosi, già vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino, sa raccontare quello che conosce: così, i volti scuri e dolenti di questi uomini e donne che vengono dal mare si alternano, quasi si sovrappongono, alle facce segnate e belle di altri uomini e donne come loro, gli abitanti di Lampedusa: il bambino con l’occhio pigro, il marinaio stanco di una vita sospesa tra cielo e mare, il vecchio che rammenda le reti, la nonna che cucina. Infine, c’è un ultimo dettaglio che rende convincente il film: il suo titolo, Fuocammare. Rimanda ai razzi che le navi militari accendono di notte, richiama un allarme, una minaccia, un grido. Detto questo, bisogna dire che un film è poco, pochissimo per affrontare un argomento così urgente.

Siamo appena all’A-B-C, anche senza scomodare i soloni degli anni Settanta convinti che un film fosse sempre e comunque un gesto politico, sicuri che bastasse l’arte a cambiare la realtà. Un film non cambia, semmai apre a una riflessione, a una domanda, chiede un passo avanti. In questo caso, almeno, ricorda a tutti una cosa che pare scontata ma non lo è: l’accoglienza è ciò che il mondo invidia all’Europa, ha radici in una fede nata altrove, 2000 anni fa, e tra i Paesi europei l’Italia ancora conserva, anche se con poca coscienza, un suo piccolo primato nel pensiero umanistico che ha fatto l’Occidente. Però è poco.

Dove sono i film che raccontano il prima e il dopo, che ci fanno capire? «Va promossa un’azione politica ed economica perché le migrazioni abbiano fine», aveva detto il regista russo Aleksandr Sokurov a Venezia. L’hanno guardato male. Per non parlare di Clint Eastwood, tacciato di razzismo per aver deprecato la censura di ogni riferimento all’Islam nei discorsi ufficiali sull’immigrazione. Che cosa accade quando uno decide di partire? E che cosa succederà quando gli otto milioni di siriani che hanno perso casa e tutto decideranno di venire da noi a cercare un’altra vita? Con che cuore si scappa per non essere rimandati indietro o ci si stende su un cartone in una città straniera? Come ci si rapporta all’altro?

La politica sembra avere esaurito le risposte, semplici o complesse che siano. C’è un’immagine inquietante al proposito, fermata dalle telecamere che a Ventimiglia riprendevano la manifestazione a favore dei migranti bloccati al confine italiano dalla polizia francese: il ragazzo in jeans e giubbotto rosso in seconda fila, qualche giorno dopo a Nizza, al volante di un camion, falcerà 84 persone sulla Promenade des Anglais. Difficile fare film su un futuro che la politica europea non sa nemmeno immaginare, accontentandosi di scorciatoie a base di muri e filo spinato.

Eppure, la crisi del nostro continente, come ha recentemente ribadito il Cardinal Schönborn, Arcivescovo di Vienna, non nasce con i migranti: «Abbiamo sperperato la nostra eredità cristiana» dice. E questo – un cristianesimo vacillante, una cultura dell’egoismo – è il benvenuto che trovano gli immigrati quando arrivano da noi. Ma è anche quello che vivono ogni giorno i nostri figli. Non è un caso, allora, che – soprattutto in Francia – il tema dell’immigrazione diventi uno specchio nel quale guardarsi. E anche se le registe – tunisina, libanese e francese, tre donne che parlano di donne – sembrano a volte confondere la libertà con la trasgressione e accontentarsi di soluzioni convenzionali, è ugualmente drammatica la domanda di senso che emerge da questo confronto.

Il primo titolo è Corps étranger, produzione franco-tunisina della regista Raja Amari. Racconta di una ragazza, Samia, che arriva a Lione dopo un viaggio della speranza che l’ha condotta boccheggiante sulle spiagge europee, in fuga dal fratello integralista che ha denunciato durante la rivoluzione dei gelsomini. Straniera è la presenza di Samia, nella vita dell’amico che la ospita e della donna francese che le dà un lavoro; ma straniero è anche il mondo che la accoglie e la respinge, cercando di intrappolarla in una rete di tensione e frustrazioni sessuali.

Anche il secondo film, Peur de rien, diretto da Danielle Arbid e pluripremiato al festival di Toronto, racconta un’educazione sentimentale, quella di Lina che dal Libano arriva nella Parigi degli anni ‘90. Una vita difficile alle spalle, una fuga, un percorso irto di difficoltà e tentazioni al suo arrivo in Occidente: il visto di soggiorno, i lavori più umili, l’ambiente degli studenti e della lotta politica, la scoperta del sesso, gli uomini che la circondano e le donne che la giudicano. Su tutto, sembra prevalere la paura di avere paura: ma nel fermo immagine che chiude la storia c’è il sorriso di una conquista, la certezza di una nuova autonomia. È pericoloso rispecchiarsi nell’altro e trovare il fondo buio di se stessi. Si rischia, soprattutto, uno sguardo miope. Perché, se il problema non sono i numeri del fenomeno migratorio in Europa ma la capacità dell’Occidente di mettere a confronto con gli altri un’identità forte e certa, alla prova dei fatti il deserto umano e spirituale che abitiamo si svela.

Il terzo film parla di questo, ed è il più interessante. Firmato da Marie-Castille Mention-Schaar dopo l’attacco a Charlie Hebdo, Le ciel attendra racconta di due madri e due figlie adolescenti. In comune, hanno l’incontro via web con gli integralisti dell’Isis e la ricerca di un senso da dare alla propria vita. Mélanie, 16 anni e un mondo apparentemente confortevole: la scuola, le compagne, il violoncello. In realtà, la solitudine vissuta in una famiglia divisa e un ragazzo che le parla d’amore e ideali via social. Sonia ha 17 anni, madre francese e padre tunisino. Ai genitori “laici”, rimprovera l’incapacità di guardare lontano, la mancanza di una fede, un paradiso da attendere. Mention-Schaar si documenta e rende conto soprattutto dei dettagli – le mail scambiate di nascosto, il niqab ordinato per posta, la fuga di una delle due ragazze – senza affrontare lo smarrimento di quel vuoto che avanza nei nostri giorni, nella nostra vita. Per farlo non basta un regista, ci vuole un uomo che sia un uomo, e che ricordi che abbiamo un destino.

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità dell'autore e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Emma Neri, L’accoglienza è ciò che il mondo invidia all’Europa, «Oasis», anno XII, n. 24, novembre 2016, pp. 140-142.

 

Riferimento al formato digitale:

Emma Neri, L’accoglienza è ciò che il mondo invidia all’Europa, «Oasis» [online], pubblicato il 22 novembre 2016, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/laccoglienza-e-cio-che-il-mondo-invidia-alleuropa.

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