La Russia teme il ritorno dei combattenti russi partiti per il jihad in Medio Oriente

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:09:39

Il presidente Vladimir Putin quando ha ordinato un intervento armato in Siria ha pensato anche a quello che accade tra i suoi confini e lungo le sue frontiere. Il recente disastro aereo in Sinai – Mosca dopo settimane di dubbi ha ammesso il 17 novembre che il volo è saltato in aria a causa di una bomba a bordo dell’aeroplano – aumenta le preoccupazioni di un coinvolgimento attivo di gruppi estremisti anche al di fuori di Siria e Iraq. I tragici fatti di Parigi, con gli attentati del 13 novembre, hanno rafforzato questa convinzione e anche l’operazione militare russa in Siria, che da alcuni giorni va avanti in parallelo ai bombardamenti francesi contro postazione dello Stato islamico. Aldo Ferrari, professore di Storia della Russia, dell’Armenia e del Caucaso all’Università Ca’ Foscari di Venezia, ha spiegato a Oasis che, anche in presenza di “un’intensificazione dei raid aerei in Siria da parte del Cremlino, non cambieranno gli obiettivi fondamentali”: il primo interesse di Mosca rimarrà quello di mantenere in piedi il governo siriano. L’ingresso russo nel conflitto in Siria a settembre rappresenta una svolta storica. È la prima volta dopo il crollo dell’Unione Sovietica che Mosca agisce militarmente al di fuori dei propri confini. Tuttavia, dice Ferrari, l’esperienza siriana può fare eccezione, perché dettata da una particolare necessità. “La posizione ufficiale di Mosca è stata dichiarata apertamente”. La Russia ha con il presidente siriano Bashar al-Assad, al momento in una situazione critica, un rapporto lungo decenni. L’intervento va perciò in sostegno dell’unico alleato che le permette di avere una base affacciata sul Mediterraneo. L’alleanza con gli sciiti Con l’intervento militare in Siria, la Russia si è posta in un conflitto che va al di là del semplice confronto tra Assad e le opposizioni, ma si inserisce nell’antico scontro tra sunniti e sciiti. Sostenendo il presidente siriano, Putin ha preso ufficialmente le difese degli alawiti – la minoranza cui appartiene l’élite siriana al governo - e si è indirettamente alleato con gli altri gruppi, sciiti, che combattono al suo fianco. Così facendo ha sollevato malcontento anche tra i propri confini, suscitando il disaccordo dei sunniti, cui appartiene anche la maggior parte dei musulmani russi. Mosca dunque agisce in Siria anche per difendersi al suo interno o lungo le proprie frontiere. L’esercito russo conduce da decenni una guerra al terrorismo islamico dentro e fuori dal suo territorio nazionale, in particolare nel cosiddetto “vicino estero”, i paesi post-sovietici sui quali esercita ancora una certa influenza. Dall’inizio della guerra in Siria, molti militanti sono partiti dalla Russia e da altri paesi della Comunità degli Stati Indipendenti (Csi), per combattere nelle fila dell’opposizione siriana. A fronte di questo, la preoccupazione maggiore del presidente Putin è che un’eventuale caduta di Assad possa provocare un ritorno in patria di combattenti vittoriosi e soddisfatti, che potrebbero estendere il conflitto all’interno del paese, soprattutto nella regione del Caucaso settentrionale dove si concentra la più numerosa comunità islamica con la presenza di gruppi radicali. In queste aree l’esercito russo porta avanti vere e proprie campagne di repressione militare dei gruppi islamisti estremisti, più intensamente in Cecenia e nelle regioni limitrofe. “Tali motivazioni possono essere discutibili”, afferma Ferrari, “ma non sono certo assurde”. Strateghi formati alla guerriglia In Russia, il 15 per cento della popolazione è di religione musulmana e risiede soprattutto nelle regioni del Caucaso settentrionale e del Tatarstan. “La zona tradizionalmente più problematica dal punto di vista del radicalismo islamico”, spiega Ferrari, “è il Caucaso e in modo particolare la regione cecena. Qui, il fenomeno si è diffuso dagli anni Novanta anche a causa delle due guerre tra Cecenia e Federazione russa. Secondo molti analisti, i ceceni che oggi ingrossano le fila dei gruppi jihadisti in Medio Oriente sarebbero tra i combattenti più preparati, strateghi formati da anni di guerriglia nel Caucaso contro l’esercito russo. Negli ultimi quindici anni, i movimenti islamisti sono diventati più strutturati, con finanziamenti provenienti probabilmente dall’Arabia Saudita, e si sono posti l’obiettivo di fondare un Emirato musulmano nel Caucaso settentrionale. La vicinanza ideologica ai paesi del Golfo è evidente anche dal fatto che gli islamisti russi sono comunemente chiamati wahhabiti e i loro leader, tutti uccisi dall’esercito russo, hanno il titolo di emiri del Caucaso settentrionale”. Le regioni della Cecenia, della Circassia e del Dagestan sono oggi i maggiori focolai di reclutamento di combattenti per la Siria e l’Iraq ma il fenomeno non è nuovo per il Caucaso. Infatti, i wahhabiti russi hanno già partecipato in passato ad attività islamiste su diversi fronti. Il numero di combattenti russi in Siria, a seconda delle stime più o meno ufficiali, si aggira tra le 2.000 e 6.000 unità. “Quando si ha a che fare con queste cifre”, sottolinea Ferrari, “occorre tenere conto che sono strumentalizzate non soltanto dai mass media, ma dallo stesso Cremlino, che ha interesse a giustificare il proprio intervento armato in Medio Oriente. Le formazioni provenienti dal Caucaso sono in genere gruppi compatti che si uniscono alle fila dei diversi schieramenti fondamentalisti in opposizione al regime siriano. Non risulta finora nessun jihadista caucasico nell’opposizione laica”. A differenza dell’Europa, dove i tragici fatti di Parigi hanno portato la massimo l’allerta sui possibili ritorni, in Russia il fenomeno sembrerebbe ancora marginale. L’intervento di Mosca in Siria sembra tra le altre cose voler limitare questa possibilità.

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