Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:10:21

È e sarà sempre di più la guerra delle immagini. Il sedicente Stato Islamico infatti si è dotato in maniera più che tempestiva di una macchina propagandistica che rappresenta davvero la prosecuzione del jihad con altri mezzi. Un salto di qualità – spiegava nelle scorse settimane in una conferenza a Milano l’orientalista Gilles Kepel – che pare relegare nella preistoria del terrorismo audiovisivo il periodo in cui al-Qaeda inviava le sue videocassette alle televisioni panarabe, alle quali era formalmente demandata la decisione di mandare o non mandare in onda gli appelli di Osama Benladen. Nell’era di YouTube, invece, anche la violenza fondamentalista si adatta al principio del broadcast yourself, “diventa l’emittente di te stesso”, e lo fa con gran dispendio di risorse economiche e tecnologiche, invogliando i professionisti occidentali con ingaggi più che considerevoli. Ricevendo molti rifiuti, si mormora, ma anche diversi consensi. Come ormai diversi libri stanno documentando (ricordiamo, tra gli altri, Terrore mediatico di Monica Maggioni, edito da Laterza, e Tagliagole: Jihad Corporation di Francesco Borgonovo, Bompiani), il racconto che l’Is fa di sé si articola in filoni differenti, così da offrire attraverso la rete gli elementi di un palinsesto che poi ciascun utente ricompone per conto suo... Il più redditizio, dal punto di vista dell’intimidazione globale, resta senza dubbio il filone delle esecuzioni, sempre più efferate e morbosamente spettacolari. Ma sono molto apprezzati i reportage sulla vita quotidiana ai tempi del Califfato, con il caso limite del reporter britannico John Cantlie che, dopo essere stato catturato, si è trasformato in cronista non si capisce quanto consenziente delle glorie dell’Is. Aplomb anglosassone al servizio della bandiera nera, chi l’avrebbe detto solo qualche anno fa? Il servizio che illustra il destino dei cristiani di Raqqa e Mosul, con particolare predilezione per quanti hanno acconsentito a pagare la jizya (la tassa che li pone, almeno momentaneamente, al riparo della persecuzione), una qualche risposta in effetti la offre. Non solo per le immagini della brutale distruzione dei simboli “politeistici”, dalla Croce alla statua della Madonna, ma anche per l’inserto delle fiction storiche che, già una decina di anni fa, riscrivevano la storia del Mediterraneo a beneficio del pubblico musulmano. Ogni favola ha la sua morale: una verità semplice semplice, che in Occidente ci si ostina a ignorare e che il Califfo, al contrario, ricorda fin troppo bene. Avvenire