Nel quadro militare e diplomatico, Assad è in posizione subalterna, costretto a una politica equivoca. Ankara e Mosca protagoniste nei negoziati ad Astana

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 08:56:42

Non si sa se sia leggenda o verità, ma pare che il nonno di Bashar al-Assad si chiamasse Sulayman al-Wahsh, ovvero Sulayman “la bestia”. Fu probabilmente suo figlio Hafez, una volta diventato primo ministro, a modificarlo in al-Assad, ovvero “il leone”, scegliendone uno più consono per un politico e capo militare. Oggi, con la riconquista di Aleppo grazie agli alleati iraniani e alle milizie sciite libanesi di Hezbollah, e con i russi che guidano negoziati, Bashar al-Assad sembrerebbe essere nella posizione di forza del leone. Senonché da un’attenta lettura dell’attuale quadro diplomatico e militare, emerge una realtà ben diversa: la debolezza del regime costringe il rais in posizione subalterna e a una equivoca politica opportunista. Alla recente conferenza di Astana, in Kazakistan, Russia e Turchia hanno cercato di consolidare la tregua dichiarata a fine dicembre; anche se l’Onu si prepara a proseguire le trattative con un secondo round di negoziati a Ginevra l’8 febbraio, in realtà il cessate il fuoco rimane fragile e la situazione, al di là delle dichiarazioni congiunte, ambigua. Innanzitutto si stanno profilando divergenze tra russi e turchi, da un lato, e iraniani e governo siriano dall’altro; secondariamente, al tavolo delle trattative sono seduti soltanto i movimenti ribelli di matrice “rivoluzionaria”, come la Coalizione Nazionale Siriana (CNS), o islamico moderata, come Jaysh al-Islam. A essere assenti, e quindi esclusi dalla tregua, sono però non solo i movimenti jihadisti estremisti come lo Stato Islamico e Jabhat Fatah al-Shams (JFS), ex Jabhat al-Nusra, ma anche il partito curdo dell’Unione Democratica (PYD). Centrale è la posizione russa; ufficialmente Mosca è stata più volte chiara nel sancire che sovranità e integrità territoriale della Siria non sono in discussione, e che la priorità non è il cambio di regime ma la lotta al terrorismo. In realtà, con il suo intervento armato in Siria, Mosca ha fatto un notevole investimento politico, e ora negoziando nei termini e nei tempi da lei scelti, vorrebbe incassarne i dividendi. La strategia russa è infatti stata quella di indebolire i ribelli moderati, ovvero proprio quelli che, con maggiori appoggi americani ed europei, avrebbero potuto costituire una valida alternativa al regime, lasciando che fosse l’Occidente stesso a contrastare gli irriconciliabili movimenti jihadisti. E dunque, non è un caso che le trattative di Astana abbiano avuto luogo proprio quando si erano realizzate due condizioni: il riavvicinamento tra Mosca e Ankara, e la riconquista di Aleppo da parte del regime. Infatti la Turchia, con una capriola diplomatica dettata da esigenze di realpolitik, ha abbandonato il confronto con Mosca e l’idea di un regime change a Damasco, e ora è concentrata sulla questione curda, in particolare a contrastare l’asse PYD-PKK, il Partito dei Lavoratori curdo, sulla lista nera delle organizzazioni terroristiche in Turchia. In dote ai russi Ankara ha portato la sua forte influenza su numerosi gruppi ribelli; infatti, prima ha fatto pressioni su questi in modo da permettere che il regime riconquistasse Aleppo, poi li ha spinti al negoziato. In cambio, la Turchia ha ottenuto un ruolo da protagonista tra coloro che stanno effettivamente decidendo il futuro della Siria; ad esempio, lo scorso agosto il presidente Recep Tayyip Erdoğan ha avuto mano libera da Damasco e Mosca per intervenire in Siria e creare una zona cuscinetto con l’operazione “Scudo sull’Eufrate”. Inoltre, la Turchia ha ottenuto che il PYD non fosse presente ad Astana. La seconda condizione propizia per Mosca è stata la caduta di Aleppo che, rapidamente seguita dall’apertura dei negoziati, ha posto i gruppi ribelli davanti a una scelta: sedersi, anche se da sconfitti, al tavolo delle trattative, o rischiare di essere considerati – anche dall’Onu – come spoiler del processo di pace e quindi da eliminare assieme ai jihadisti. Dunque, con la tregua di Astana, Mosca cerca un accordo militare con le forze ribelli che ha sconfitto militarmente o domato politicamente tramite la Turchia, per poi consolidare il tutto con un accordo politico sancito a Ginevra. Così, assicurata la sopravvivenza del regime, non rimarrebbe che proseguire – assieme alla comunità internazionale – la guerra contro il terrorismo, ovvero contro l’ISIS e l’opposizione armata islamista. Il maggior ostacolo al piano russo è paradossalmente rappresentato dal regime siriano stesso. Innanzitutto, sia durante il cessate il fuoco sancito dall’Onu nel febbraio 2016 sia in quello negoziato tra l’ex segretario di Stato americano John Kerry e il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov nel settembre successivo, le forze governative siriane ne hanno approfittato per concentrare truppe e ottenere vantaggi tattici violando la tregua. A dire il vero, Mosca è stata accusata di non avere il controllo del suo alleato siriano, o di sfruttare maliziosamente le tregue per consolidare le posizioni e ottenere vantaggi tattici. In ogni caso, oggi, con l’opposizione moderata indebolita e quella jihadista divisa, Assad è fortemente tentato a proseguire nell’offensiva, prima che un effettivo accordo “congeli” la situazione sul terreno. E a stimolarlo in questa direzione concorre la posizione iraniana. Teheran formalmente è coinvolta nel negoziato guidato da Mosca, ma in realtà ci sono forti divergenze; la maggior preoccupazione iraniana è che la Russia riesca a strapparle di mano il rapporto privilegiato e l’influenza sul regime siriano. Inoltre, se per l’Iran l’alleanza con il regime di Damasco ha una irrinunciabile valenza strategica, per la Russia il teatro siriano è solo una delle partite aperte con Washington e, complici le opportunità che possono aprirsi con la presidenza di Donald Trump, sarebbe quindi più disponibile a concessioni; in primis potrebbe esserci proprio la rimozione di Bashar al-Assad. Dunque non è un caso che Teheran si sia opposta alla presenza americana, peraltro simbolica, alla conferenza di Astana. Di conseguenza, mentre Mosca cerca di capitalizzare il suo investimento politico concludendo un accordo di pace, l’Iran sta assicurando la sua influenza in Siria con il controllo delle numerose milizie che sono attive nel Paese: di fatto sono le baionette persiane a mantenere Assad alla presidenza. Stretto tra l’orso russo e i lupi delle milizie sponsorizzate dall’Iran, più che il leone Bashar è costretto a fare la volpe opportunista.