Un progetto pilota propone la creazione di corridoi umanitari e l’identificazione di chi vuole fuggire prima che si imbarchi

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:09:34

Focus immigrazione - Dialoghi di Vita Buona Più di 750mila immigrati hanno raggiunto le coste europee nel 2015 secondo i dati dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni (IOM) e nel tentativo di attraversare il Mediterraneo sono morte oltre 3.000 persone dall’inizio dell’anno. Nel mezzo di una delle più vaste crisi umanitarie degli ultimi cinquant’anni in Europa, le istituzioni a Bruxelles tentano di trovare senza successo una risposta unificata. Davanti al protrarsi della crisi e delle tragedie in mare, sono nate anche proposte al di fuori delle sedi istituzionali europee e nazionali, come quella dei canali umanitari: corridoi controllati e sicuri che permettano a chi ne ha diritto di essere protetto e di raggiungere l’Europa senza rischiare la vita. Si tratta di un progetto pilota la cui applicazione geografica rimane per ora limitata, ma rappresenta un tentativo di associazioni e realtà non istituzionali di riflessione e azione sulla crisi che sta bloccando le capacità decisionali dell’Europa. L’obiettivo del progetto, in questa prima fase, è di aprire i corridoi umanitari a mille persone: un numero molto ridotto, quasi un nulla rispetto al milione e 200 mila profughi in Libano, alle centinaia di migliaia in Marocco e agli altrettanti in Etiopia (non esistono cifre ufficiali). Ma il senso dell’iniziativa è dimostrativo: testimoniare attraverso un’azione pratica sul campo la fattibilità di un modello, offrire una proposta. Creare un’alternativa Promosso dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia – già attiva a Lampedusa con Mediterranean Hope, Osservatorio sulle migrazioni – e dalla Comunità di S. Egidio, il progetto “Canali umanitari per soggetti in regime di protezione umanitaria” è stato presentato al pubblico nella primavera scorsa e, dopo un’intensa trattativa con il governo italiano, si è giunti oggi alla sua concretizzazione. Si tratta di una “buona pratica”, un esempio virtuoso di come, senza alcuna modifica della legislazione nazionale, internazionale o europea, si possano tentare di regolare in parte i flussi migratori evitando di lasciare al caso, allo spirito d’avventura o, ancora peggio, alle mani di sfruttatori di ogni sorta, la gestione della traversata e dell’approdo sulle coste europee. Il metodo si propone di identificare quanti vogliono fuggire prima che si imbarchino, creando un’alternativa percorribile al viaggio in mare. Marocco e Libano come punti di partenza Nel concreto, l’organizzazione inizierebbe nei paesi dove i rifugiati si concentrano e da dove cercano di scappare. È qui che – cominciando da Marocco e Libano – i promotori del progetto hanno lavorato per creare “reti” umanitarie di aiuto ai profughi. Ed è già in programma la realizzazione nel 2016 di un analogo esperimento in Etiopia. La scelta di questi tre Stati è motivata da due fattori: la relativa stabilità dei regimi politici al potere e la prossimità con quelle aree da cui partono migliaia di persone, in quanto caratterizzate da situazioni di fragilità estrema (Nigeria, Libia), di guerra (Siria) o di privazioni dei diritti umani più elementari (Eritrea). Saranno queste “reti umanitarie” assieme al personale messo in campo dalle Federazione delle chiese evangeliche e dalla Comunità di S. Egidio ad assistere i migranti nelle procedure di richiesta di un visto per “ragioni umanitarie” presso le sedi consolari italiane: una volta che i migranti avranno ottenuto questo specifico visto saranno accompagnati in Italia, sempre a spese dei promotori del progetto, che sosterranno anche la fase dell’accoglienza e dell’inserimento nella società italiana (alloggio, lingua, formazione lavoro quando necessaria, istruzione). È un’iniziativa a costo zero per lo Stato italiano, e di guadagno morale in termini di vite umane salvate, oltre che di gestione dignitosa e ordinata di un fenomeno altrimenti allo sbando. L’impianto tecnico-giuridico è stato messo a punto assieme ai ministeri degli Esteri e dell’Interno. Innanzitutto, alla base del progetto vi è un articolo relativo al controllo delle frontiere europee, quasi mai preso in considerazione: l’art. 25 del Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio n° 810 del 2009 per l’istituzione di un codice comunitario dei visti, che prevede il rilascio di un “visto con validità territoriale limitata” (ma estensibile ad altri paesi) “per motivi umanitari o di interesse nazionale o in virtù di obblighi internazionali”. Per ovviare alla genericità della norma è stato svolto un lavoro di interpretazione giuridica dei testi al fine di individuare i criteri necessari alla concessione di questo lasciapassare. I dossier, che sono preparati per ciascun richiedente, raccogliendo numerose informazioni e certificazioni sul suo stato di salute fisica e psicologica, tentano di ricostruirne la storia personale. Rispetto alle strette maglie (e ai tempi lunghissimi) delle procedure per la richiesta di asilo, questo visto permetterebbe a un più ampio ventaglio di soggetti (donne malate, vittime di tratta, ma anche anziani, minori non accompagnati, etc.) di ottenere uno status di protezione internazionale. Di ritorno dal Libano, Paolo Naso, della Federazione delle Chiese evangeliche, racconta: “In uno dei campi per profughi siriani dove stiamo aprendo una rete umanitaria ho conosciuto un centinaio di persone, tra cui moltissimi bambini, che da quattro anni vivono in condizioni disumane e senz’alcuna prospettiva. Stavano per affidarsi agli scafisti, quando sono stati bloccati dalla foto di un loro parente morto nella traversata. Quando poi hanno capito che avremmo potuto costituire un corridoio umanitario verso l’Europa hanno rivisto i loro piani, pensando che forse valeva la pena provare a credere nella possibilità di un’altra vita, degna di questo nome. Ora l’Italia e noi stessi abbiamo un debito morale nei confronti di queste persone”.