Lo Stato islamico è stato cacciato, ma resta la paura della comunità: “È presto per tornare a casa”

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 08:54:09

Erbil (Iraq) - Nasser Suleiman ha 38 anni, i capelli brizzolati e le mani rovinate da anni di lavoro come meccanico. È nella sua officina tra i capannoni dell’area industriale di Erbil, nel Kurdistan iracheno. L’area è un agglomerato disordinato di capannoni distribuiti in un fazzoletto di deserto attraversato da una accidentata strada a quattro corsie. Sino a tre anni fa, l’officina di Nasser era a Qaraqosh, la cittadina dell’Iraq con la più numerosa popolazione cristiana.

 

Nell’agosto del 2014, il meccanico è scappato con decine di migliaia di persone verso il Kurdistan iracheno in seguito all’avanzata dello Stato Islamico. “Ho preso allora una casa qui con i miei genitori, mia moglie e i miei tre figli – racconta. Un anno dopo, nel 2015, ho tentato di raggiungere l’Europa: sono arrivato sulle coste turche con la mia famiglia ma ho visto il mare e ho avuto paura. Si è imbarcato solo mio fratello. Lui, dopo un lungo viaggio, è arrivato in Germania”.

Qaraqosh è stata liberata nel 2016

Qaraqosh è stata liberata a ottobre 2016. Eppure, dieci mesi dopo, sono ancora poche le famiglie cristiane ad avervi fatto ritorno. I miliziani dello Stato islamico durante la loro occupazione sono passati casa per casa e appiccato il fuoco alla maggior parte delle abitazioni. Al momento la cittadina, 30 chilometri da Mosul, è ancora un insieme di edifici in rovina.

 

Gli sfollati tornano durante il giorno a recuperare quel poco che è rimasto loro. Il 6 agosto, decine di persone sono rientrate per qualche ora per celebrare l’anniversario della grande fuga dallo Stato islamico. Hanno assistito alla messa celebrata tra i resti della chiesa di Santa Maria al-Tahira, la più grande di Qaraqosh, senza tetto e semi-distrutta dai combattimenti.

 

“Non me la sono sentita di andare alla messa. Sono già tornato qualche volta a vedere la mia officina ma è completamente distrutta - spiega Nasser. Ho paura delle persone arrivate dall’estero per combattere con lo Stato islamico. I musulmani accanto ai quali vivevo nella mia città li conosco uno per uno, ma non conosco chi è arrivato nei tre anni in cui sono stato assente. Non so neppure se li cattureranno tutti, o se invece si nasconderanno e resteranno per attaccarci. Temo anche che Isis abbia fatto il lavaggio del cervello agli arabi sunniti, che alcuni siano rimasti deviati e che continueranno ad attaccare noi cristiani”.

 

Nasser ha preso una casa in affitto. Diverse chiese locali dal 2014 hanno impiegato ingenti fondi per aiutare le famiglie a pagare le spese domestiche. Altre famiglie, invece, vivono da tre anni in container o nelle tende dei campi profughi nell’area di Erbil. È il caso di Ankawa, l’insediamento costruito nel quartiere cristiano della città curda: un agglomerato di container bianchi arroventati dal torrido agosto iracheno. Qui vivono 5.000 persone e, dopo la liberazione di Qaraqosh, soltanto due famiglie hanno deciso di tornare a casa.

 

Ibtisam Nuj Buls ha 38 anni. È nata a Qaraqosh e si è trasferita a Baghdad dopo il matrimonio. È tornata nella sua cittadina natale nel 2010, dopo l’attentato nella capitale contro la cattedrale di Sayidat al-Nejat: un commando terroristico fece irruzione durante una messa uccidendo 52 persone.

 

“Siamo molto spaventati e non ci sentiamo sicuri, per questo non torniamo a casa - racconta dal suo piccolo container di tre stanze in cui vive con il marito e tre figli. Nessuno ci potrebbe salvare se finissimo sotto attacco. Non dormirei sonni tranquilli dalla paura: qui invece mi sento al sicuro. La nostra casa a Qaraqosh ha i muri bruciati ed è completamente vuota, tutte le nostre cose sono state portate via. Non ho il coraggio di rientrare”.

 

Ibtisam è oggi impiegata come maestra nella scuola materna costruita all’interno del campo. “Mio marito lavora alla giornata, ogni mattina va in centro a Erbil e aspetta che qualcuno cerchi operai per impieghi saltuari nel quartiere. È una vita difficile, ma almeno so che qui non mi accadrà nulla”.

Siamo molto spaventati e non ci sentiamo sicuri, per questo non torniamo a casa - racconta dal suo piccolo container di tre stanze in cui vive con il marito e tre figli. Nessuno ci potrebbe salvare se finissimo sotto attacco

Dalla caduta di Saddam Hussein nel 2003, gli attacchi alla comunità cristiana sono aumentati. Allora, secondo una delle stime, i cristiani in Iraq erano 1,4 milioni. Secondo i dati di ADF International nel 2016 erano scesi a 275.000. Negli ultimi mesi la situazione si è aggravata: cellule dormienti dello Stato islamico hanno lanciato attacchi contro i cristiani nelle aree di Mosul e Kirkuk ma anche nella capitale Baghdad. La complessa galassia etnica e interconfessionale irachena ha subito un ulteriore colpo dopo anni di politiche esclusiviste del precedente premier sciita Nouri al-Maliki, che aveva già fatto perdere la fiducia della comunità verso il governo centrale.

 

Nella strada accanto a quella dove è sistemato il container di Ibtisam vive Sadaya, assieme al marito e a due figli. È ancora scossa da quanto accaduto al figlio dei vicini, ferito alcuni giorni fa da una mina a Qaraqosh mentre i suoi genitori raccoglievano le macerie nella loro casa natale.

 

“Sino all’arrivo dello Stato Islamico vivevamo tranquilli, non avevo paura, ma ora tutto è cambiato – dice. Ricordo ancora il giorno in cui siamo scappati. Era il 6 agosto del 2014, poco dopo l’ingresso di Isis in città: abbiamo preso quello che potevamo e ci siamo diretti verso Erbil. C’era la coda ai posti di blocco, siamo rimasti in fila più di 20 ore poi, grazie a Dio, i varchi si sono aperti e i soldati ci hanno lasciati passare”.

 La crisi economica

A sollevare preoccupazione in questo periodo di transizione è anche la crisi economica che l’Iraq affronta e affronterà per anni. “Non voglio tornare perché prima di tutto non è un posto sicuro. In secondo luogo, mi sono laureata in inglese e se torno probabilmente non troverò un lavoro - spiega Mirna Azzoo, 22 anni, che sino a tre anni fa frequentava l’università a Mosul. Ho iniziato qui la mia carriera con una Ong. A Qaraqosh è tutto distrutto, ora non ci sono opportunità lavorative. Ho molti sogni per il futuro: se torno rischio di non realizzarli”.

 

A marzo, prima della liberazione di Qaraqosh, il vicario della chiesa anglicana di Baghdad ha detto in un’intervista che il tempo per i cristiani in Iraq è finito. Una posizione opposta a quella del patriarca della Chiesa caldea, Louis Sako. Il capo della chiesa caldea irachena ha sempre sostenuto in questi anni che l’esodo dei cristiani dalle loro terre ancestrali è destinato a danneggiare l’Iraq. Il patriarca Sako oggi è prudente: “Come possono i cristiani tornare quando le loro case sono distrutte e non ci sono servizi? Ma la questione più importante resta la sicurezza. Serve tempo per il ritorno dei cristiani”, ha detto in una recente visita a Mosul.

Come possono i cristiani tornare quando le loro case sono distrutte e non ci sono servizi? Ma la questione più importante resta la sicurezza. Serve tempo per il ritorno dei cristiani

A prevalere oggi tra il clero locale è infatti la cautela: “Non so cosa ne sarà di noi, ma al momento resteremo a Erbil”, dice padre Najeeb Michaeel, domenicano iracheno che nel 2014 è fuggito dal monastero di Qaraqosh. Ora vive in un appartamento nella città curda nelle cui stanze custodisce in maniera ordinata e metodica migliaia di testi religiosi. Si tratta di un patrimonio inestimabile per la cristianità mondiale, messo in salvo dai monasteri di Qaraqosh, alcuni giorni prima che lo Stato islamico conquistasse la città.

 

“Il monastero è completamente bruciato e non ce la sentiamo di rientrare. La piana di Ninive è la culla del Cristianesimo, ma al momento siamo sospesi in una specie di limbo. Non so se le cose torneranno più come prima”.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

 

 

 

 

 

 

 

 

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