Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:43:40

La pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha sanzionato l’Italia per l’esposizione del crocifisso nelle scuole pubbliche è avvenuta sotto l’egida della libertà religiosa. I giudici di Strasburgo l’hanno ritenuta una palese violazione della neutralità dello Stato e una discriminazione ai danni dei non cattolici. Ci si può tuttavia spingere più in là con l’osservazione e giungere ad almeno tre conclusioni. Dopo centocinquant’anni – se non di più, a seconda delle aree del Paese – di presenza nelle aule il crocifisso dovrebbe scomparire, in nome della più antica delle libertà moderne, quella di religione: questo con buona pace della maggioranza degli italiani che, almeno stando ad alcuni sondaggi, ritiene che quel simbolo dovrebbe rimanere dov’è. Soprattutto, nella totale noncuranza di quello che la Corte stessa aveva già altrove qualificato quale “margine di apprezzamento degli Stati”. Questi, pur tenuti a garantire la protezione dei diritti elencati nella Convenzione, dovrebbero avere spazi di manovra, per adattare quelle libertà alle concrete circostanze storiche, religiose e culturali nelle quali essi versano. Tuttavia, la Corte non si occupa di quel margine, che lascia il posto ad una tutela uniforme della libertà di coscienza. Da un quadro di diritti condivisi, sembra che si passi ad una tutela omogenea: dalla Corte europea giunge un modello di riferimento delle libertà, che toglie spazio agli Stati. Assieme a quel margine, i giudici spazzano via ogni concezione della libertà che non sia quella intesa in senso meramente individualistico. Mentre giustamente prendono in considerazione la libertà di coscienza di chi non desidera essere costretto a vedere quel simbolo ogni volta che siede sul proprio banco di scuola, non si curano minimamente della maggioranza degli italiani che desidera che quel simbolo rimanga dov’è. L’unica libertà che rimane in campo è quella dei singoli. Se si congiunge questo aspetto a quello visto sopra, viene da chiedersi quale sia la fine cui sono destinate le democrazie che conservano un rapporto privilegiato con certe confessioni religiose: dalla Gran Bretagna alla Grecia, dall’Irlanda alla Danimarca. La Corte di Strasburgo sta per scoprire che l’Europa è disseminata di teocrazie? Ma, in fin dei conti, la libertà religiosa e di coscienza è davvero la prima preoccupazione della Corte? A ripercorrere alcune delle sue sentenze in materia, si può tracciare un quadro diverso. Da Strasburgo sono giunti ripetuti avalli proprio nei confronti della Turchia: quando questa ha costretto alla chiusura un partito perché, stando ad alcune dichiarazioni dei suoi esponenti, voleva favorire il ritorno al diritto islamico; quando ha sanzionato un’opera letteraria perché critica dell’Islam; quando ha vietato il velo nelle università. La Francia ha invece incassato un suo informale nulla osta prima di procedere al varo della legge sul porto dei simboli religiosi nelle scuole. Questo terzo aspetto chiude il cerchio e illustra ancor più chiaramente degli altri la preoccupazione della Corte europea. In realtà questa non tutela la libertà religiosa, ma la teme: la protegge, ma per tenerla al di fuori dello spazio pubblico. L’antidoto al conflitto consisterebbe nel depotenziare il pluralismo culturale e stemperare le identità, individuali e collettive. In una parola, impoverire il dibattito. La Chiesa cattolica teme la perdita della propria posizione privilegiata? Non è semplicemente questa la posta in gioco. Come ripetutamente avvertito da eminenti figure cattoliche come il Patriarca di Venezia, impedire l’espressione culturale della fede impoverisce la vita sociale, anziché favorirla. Lo avverte la Chiesa quanto i tanti musulmani che temono la perdita del crocifisso come una sconfitta personale. Questi ultimi vedono lontano, del resto: chi oggi si è espresso contro la croce, si era già esposto contro il velo. La Corte, nella sua argomentazione, contrappone frontalmente la presenza del simbolo nelle aule alla formazione di un pensiero critico. Un tema che il Papa ha caro, vista la sua insistenza sulla necessità di “allargare la ragione”. Ma siamo certi che spogliare le aule scolastiche faccia spazio alla ragione?