Intervista con mons. Paolo Martinelli, che ha da poco iniziato il suo ministero come nuovo Vicario apostolico dell’Arabia meridionale

Ultimo aggiornamento: 04/08/2022 12:30:34

Frate minore cappuccino, milanese di origine, mons. Paolo Martinelli è il nuovo Vicario apostolico dell’Arabia del Sud. Succede a mons. Paul Hinder, che ha guidato per quasi vent’anni il vicariato comprendente Emirati, Oman e Yemen. A poche settimane dal suo insediamento ad Abu Dhabi, mons. Martinelli fa il punto sulla sua missione con Oasis.

 

Intervista a cura di Chiara Pellegrino

 

All’inizio di questo mese ha avuto luogo il suo insediamento nella Cattedrale di San Giuseppe di Abu Dhabi. Com’è stato l’impatto con una realtà per lei nuova?

In realtà, il Medio Oriente lo conoscevo già un po’. Sono stato molte volte in Terra Santa e poi ho avuto modo di conoscere la Turchia quando ero preside dell’Istituto Francescano di Spiritualità della Pontificia Università Antonianum. Ogni anno organizzavamo dei convegni in Turchia su San Paolo e San Giovanni. Nella penisola arabica inveced non ero mai stato. L’impatto è stato molto forte perché io avevo in mente un’immagine del Medio Oriente diversa, legata per l’appunto alla Turchia, alla Terra Santa e anche all’Egitto, dove sono stato qualche volta. Ciò che più mi ha impressionato è stato vedere come nell’arco di pochissimi decenni gli Emirati abbiamo sviluppato uno stile di vita così evoluto e articolato. Nelle mie prime settimane di permanenza ho visitato Abu Dhabi, dove starò stabilmente, e Dubai. Dubai, rispetto ad Abu Dhabi, mi è parsa ancora più complessa come realtà, passare in mezzo a quelle strade enormi, costeggiate da grattacieli su entrambi i lati, è impressionante. Abu Dhabi mi è sembrata più immediatamente accogliente, con spazi molto ampi e belli. Il primo impatto quindi è stato positivo. Gli Emirati sono un crocevia di nazioni, culture e religioni diverse; questo carattere interculturale s’impone sia nella società sia nella vita della Chiesa locale. Un posto certamente affascinante.

 

Nei Paesi del Golfo la comunità cristiana è composta per lo più da lavoratori immigrati. Come si può far crescere il senso di appartenenza alla Chiesa di queste comunità così precarie e variegate? 

Durante questo primo periodo ho partecipato a due celebrazioni importanti. La prima è la festa dei santi Pietro e Paolo: siccome anche il mio predecessore si chiama Paul, il 29 giugno abbiamo celebrato insieme il nostro onomastico. Poi c’è stata la celebrazione per l’inizio del mio ministero. In quelle due occasioni ho avuto il primo impatto con la realtà ecclesiale locale e sono stato molto colpito dalla grande partecipazione di popolo. Anche visitando le parrocchie di Abu Dhabi e Dubai ho notato la stessa cosa. Basta vedere l’alta affluenza di fedeli alle celebrazioni eucaristiche quotidiane. Alla cattedrale di San Giuseppe, ad Abu Dhabi, per esempio, tutti i giorni recitiamo le lodi alle 6,10 del mattino e celebriamo la messa alle 6,30. La cattedrale è sempre affollata, soprattutto di giovani. Il loro coinvolgimento non è solo formale, è presente una forte dimensione di corresponsabilità. Ho visto le persone impegnate in una modalità davvero edificante: c’è la catechesi, per esempio, il volontariato, un coro composto da giovani che provengono da nazioni diverse... C’è l’idea di dare gratuitamente tempo, spazio ed energia alla vita della Chiesa locale.

Io vengo da un Paese in cui la frequenza dei fedeli è ormai molto rarefatta e dove il senso di appartenenza alla Chiesa è un po’ sfilacciato. Ad Abu Dhabi la prima impressione è quella di una Chiesa molto consapevole di essere un popolo multiforme. I fedeli provengono dalle Filippine, dall’India, dal Libano… e si portano dietro storie, tradizioni spirituali e riti diversi. Questa è una Chiesa di migranti e, nel suo piccolo, ci dice qualcosa che è vero di tutta la Chiesa, ovvero che è un popolo di pellegrini, anche se in Occidente forse ce ne accorgiamo meno.

 

Questa dimensione di corresponsabilità l’aveva trovata anche in Turchia e in Terra Santa?

Il problema di questi luoghi è che, soprattutto in Turchia, i cristiani sono molto pochi. In Turchia erano una realtà dedicatissima ma molto piccola, che a fatica riusciva a trovarsi perché le condizioni erano molto più difficili rispetto agli Emirati. Nel vicariato dell’Arabia del Sud, invece, come peraltro anche nell’Arabia del Nord i cristiani sono molti. Soltanto nel Sud dobbiamo assicurare la vita cristiana a oltre un milione di fedeli e nel Nord sono addirittura più numerosi.

 

Il suo Vicariato comprende anche lo Yemen, un Paese che dal 2015 è dilaniato dalla guerra e dove la presenza cristiana è ormai residuale. Come pensa di affrontare questa realtà?

Quando mi è arrivata la nomina, il primo Paese a cui ho pensato è stato proprio lo Yemen. Prego per tutti coloro che la provvidenza mi ha affidato, ma in particolare per lo Yemen. Il primo pensiero è stato per le suore missionarie della Carità di Maria Teresa di Calcutta, che hanno scelto di restare nel Paese nonostante la guerra per rimanere fedeli alla loro missione. Ogni giorno offrono una testimonianza di gratuità assoluta. Nei giorni scorsi ho parlato al telefono con loro e con il sacerdote che è lì in questo momento. Danno la vita per il Vangelo e proprio per questo noi dobbiamo continuare ad avere molta attenzione per quel Paese. Da questo punto di visto sono grato a papa Francesco che spesso cita lo Yemen, un Paese che altrimenti rischierebbe di essere dimenticato. Quando mi alzo la mattina e penso a quelle due comunità di suore mi sento richiamato alla mia missione. La realtà cristiana yemenita è molto piccola ma estremamente significativa.

 

Si conosce il numero dei cristiani rimasti in Yemen?

Sono nell’ordine di qualche centinaio, anche se i numeri precisi non li conosciamo. C’è il gruppo più coinvolto che mantiene il rapporto con le suore o con il sacerdote e poi ci sono quelli che, anche un po’ per la tribolazione del tempo presente, si fanno sentire meno frequentemente. Sappiamo però che molti cristiani sono andati via.

 

Lei viene da un percorso accademico, poi ha avuto l’esperienza pastorale in una diocesi di grande tradizione come quella di Milano. Apparentemente il nuovo incarico negli Emirati è un grande cambiamento. E così o c’è un filo che lega tutte queste esperienze?

Esiste un filo conduttore tra queste esperienze, a due livelli. Il primo livello è il mio percorso di vita personale. L’essere disponibili a 360 gradi fa parte della vita religiosa a cui mi sono sentito chiamare dal Signore. Io sono di origine milanese, dopo la mia ordinazione sacerdotale ho avuto un primo incarico come cappellano di un ospedale per quattro anni, poi mi hanno mandato a Roma, dove ho insegnato Teologia alla Pontificia Università Gregoriana e all’Antonianum. A Roma avrei dovuto fermarmi soltanto due anni, alla fine sono rimasto venticinque anni. A quel punto sono stato inviato a Milano come vescovo ausiliare. Sono tutte cose che sono capitate un po’ di sorpresa. Ma quando diciamo un sì all’inizio, poi siamo nelle mani di un altro. Da questo punto di vista sento una profonda unità con la nuova missione che mi è stata affidata, nel senso che la mia vita è data fin dall’inizio. Si fa secondo quello che il Signore e le circostanze chiedono.

Chiesa di Saint Paul, quartiere Musaffah, Abu Dhabi.JPGChiesa di Saint Paul nel quartiere della Musaffah

Il secondo livello riguarda i contenuti. A Roma ho vissuto per venticinque anni nel nostro collegio internazionale. Al suo interno vivevano 150 frati provenienti da tutto il mondo. Quella per me è stata un’esperienza di incontro. A questo si aggiunge l’insegnamento nelle università pontificie, da sempre crocevia di culture diverse. I miei studenti provenivano da tutto il mondo. Sono sempre stato molto colpito dal volto pluriforme di una realtà, che è unica, e dal carattere interculturale della fede. La Chiesa stessa si manifesta come interazione feconda tra le differenze.

A Milano sono stato nominato Vicario della vita consacrata e Vicario della scuola. Queste due esperienze sono state fondamentali per me, soprattutto la prima. Mi sono accorto che la vita religiosa a Milano sta crescendo in proporzione di quanto gli istituti di vita religiosa sanno essere interculturali. Se è vero che le vocazioni stanno diminuendo molto in Europa, è altrettanto vero che tutte le realtà di vita consacrata hanno generato comunità interculturali in altri continenti. La vita di comunità consacrata è una sorta di laboratorio di una “Chiesa dalle genti” – per riprendere un’espressione che abbiamo coniato a Milano – dove in piccolo si vede che cosa vuol dire mescolarsi con intelligenza cercando di imparare gli uni dagli altri. L’idea della “Chiesa dalle genti” mi ha appassionato molto e adesso mi ritrovo ad andare in una realtà che è assolutamente una “Chiesa dalle genti”, fin dalla sua origine. In questo senso esiste un filo che lega tutte le esperienze della mia vita.

 

Si aspettava questa nomina o l’ha colta di sorpresa?

La possibilità di essere mandato da un’altra parte l’avevo messa in conto perché, si sa, i vescovi ausiliari a Milano non di rado vengono spostati altrove dopo un po’ di anni. Ero a Milano da otto anni e sapevo che un cambiamento era possibile. Il fatto però che il contenuto di questa chiamata riguardasse una realtà così differente lì per lì mi ha sorpreso, non me lo aspettavo. Dall’altro canto, però, l’ordine dei cappuccini è presente in quella terra da oltre un secolo. Quando mi hanno detto che il Papa mi aveva nominato Vicario apostolico dell’Arabia meridionale ho capito subito di che cosa si trattava. Fin da subito ho sentivo quella realtà come molto familiare, anche perché in passato avevo già conosciuto dei frati che erano stati lì, tra cui il predecessore di Paul Hinder, Mons. Bernardo Gremoli, di Firenze.

 

Negli ultimi anni sono stati fatti molti passi avanti nel dialogo interreligioso, in particolare dopo la firma, proprio ad Abu Dhabi, del Documento sulla fratellanza umana. Quali sono secondo lei i prossimi passi da compiere nel dialogo con i musulmani?

Nel messaggio che ho scritto per la Chiesa e la società locale ho insistito molto sull’importanza di questo documento dalla prospettiva e dai contenuti molto forti. Il fatto che sia stato firmato proprio ad Abu Dhabi mi fa capire che, come Chiesa particolare che vive in quella realtà, dobbiamo custodirne la memoria e approfondirne le implicazioni culturali, sociali e religiose. Il dialogo interreligioso può essere portato avanti a molti livelli. Da un lato, occorre alimentare una buona e rispettosa conoscenza reciproca, perché non si può essere davvero in rapporto se non ci si conosce abbastanza. Nella prospettiva del documento, le religioni devono contribuire in modo originale al bene di tutti, alla vita buona di tutti, alla pace e alla giustizia; credo che questo aspetto meriti di essere approfondito. La cosa più sbagliata è cercare di andare tutti d’accordo sulla dottrina. Certo, conoscerla e rispettarla è fondamentale, ma il rapporto crescerà solo man mano che ci accorgiamo, come persone appartenenti a religioni diverse, di poter contribuire alla vita buona di tutti. Il testo chiede questo, non cerca di trovare degli accordi dottrinali.

 

La teologia deve dunque fare un passo indietro?

La teologia deve rileggersi in una prospettiva più positiva. L’elemento fondamentale è che noi siamo diversi insieme, siamo differenti nella stessa società. Noi dobbiamo custodire la bellezza di essere persone differenti che vivono insieme. In questo senso l’esperienza religiosa offre un contributo decisivo alla società. Questo è il punto fondamentale. Il dialogo a livello teologico deve essere posto in relazione a questo aspetto della vita ed alimentare la conoscenza reciproca delle diverse fedi.  

 

Mons. Paul Hinder è rimasto ad Abu Dhabi come amministratore apostolico del Vicariato dell’Arabia del Nord fino a quando ci sarà la nuova nomina. Per qualche tempo, ci sarà quindi una convivenza tra i due vescovi Paolo. Possiamo immaginare che per lei sia un grande aiuto vista anche la ricchezza e la fecondità dell’esperienza pastorale del suo confratello negli Emirati. 

Sì, per me la sua presenza lì è davvero una grazia. Lui ha un’esperienza enorme, è lì da più di 18 anni ed è molto amato dalla gente. Pian piano mi sta introducendo in modo intelligente alla nuova realtà.  

 

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