La rivoluzione libica e il suo fallimento vista da una prospettiva femminile e amazigh

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:04:03

Attivista libica di origini amazigh, Asma Khalifa ha seguito gli eventi del 2011 «con un misto di eccitazione e speranza». Subito dopo la cattura di Gheddafi, ucciso senza un processo, ha capito che nel suo Paese la rivoluzione era fallita e che non ci sarebbe stata una vera transizione dall’autocrazia a un sistema pluralistico e inclusivo. Oggi sa che ci vorrà del tempo per realizzare un cambiamento radicale e spera che i giovani sapranno farsi carico del compito di portare a compimento il processo avviato dieci anni fa.

 

Intervista a cura di Viviana Schiavo

 

Asma Khalifa, puoi raccontarci chi sei e di cosa ti occupi?

 

Sono una delle co-fondatrici del Tamazight Women’s Movement e del Khalifa Ilher Institute. Dal 2011 mi occupo di diritti delle donne e di empowerment e inclusione giovanile. Nel 2014 ho conseguito un Master in Peace and Conflict e ho iniziato a focalizzarmi sulla risoluzione dei conflitti, in particolare sul potenziamento delle capacità di negoziazione e di mediazione dei giovani libici. Il Tamazight Women’s Movement si occupa di inclusione politica delle donne a livello locale ma porta avanti anche campagne contro la violenza di genere e ricerche su problematiche femminili intersezionali.

 

Che cosa ricordi del 2011? Dove ti trovavi?

 

Nel 2011 avevo 21 anni. Come la maggior parte dei nordafricani, ho seguito le manifestazioni in Tunisia con un misto di eccitazione e di speranza, soprattutto quando sono esplose le proteste egiziane. Sul web si sono aperti molti dibattiti e ci si chiedeva se le proteste sarebbero potute scoppiare anche in Libia e in Siria. Pensavo che da noi non potesse succedere, perché Gheddafi non era Mubarak né Ben Ali, era l’emblema dell’autoritarismo. C’erano un’eccitazione e un entusiasmo generalizzati, ma anche quel tipo di speranza che terrorizza, perché pensi che sarebbe bello se fosse vero ma allo stesso tempo sai quali potrebbero essere le conseguenze. E per quanto tu possa prevederle, sai già che la realtà supererà qualunque immaginazione.

 

A gennaio del 2011 ero a Tripoli, sentivo le notizie, guardavo quello che stava succedendo e seguivo i dibattiti sulla Libia, in particolare quelli che avevano luogo su piattaforme e pagine social collegate alla diaspora, mentre solo alcune erano gestite dall’interno del Paese. C’era ancora molta paura di essere arrestati. Un timore che si sarebbe concretizzato poco tempo dopo. Tramite il web si tentava di organizzare proteste e raduni a Bengasi e a Tripoli per il 17 febbraio. Ma il 15 febbraio, l’avvocato che stava difendendo le famiglie e le vittime del massacro della prigione di Abu Salim[1] fu arrestato. A quel punto le famiglie, soprattutto le donne, madri, mogli e sorelle di coloro che avevano perso la vita nel massacro sono scese in piazza contro l’arresto. Contemporaneamente è dilagata la violenza: alcuni hanno attaccato le stazioni di polizia e sono iniziati gli spari contro i civili. Le proteste si sono diffuse come un incendio in altre zone e città.

 

Poi è arrivata la reazione di Gheddafi...

 

Sì. Per tutta risposta, Gheddafi ha dispiegato immediatamente le sue forze, i carri armati e gli elicotteri militari. Il mondo intero ha ascoltato il suo tremendo discorso, in cui diceva che avrebbe attaccato ogni casa libica, che avrebbe scovato tutti i dissidenti, ovunque si trovassero, e che avrebbe raso al suolo Bengasi. Ci abbiamo creduto tutti, perché per decenni aveva terrorizzato i libici facendo trasmettere sulla televisione nazionale fucilazioni di massa ed esecuzioni pubbliche. C’era molta paura. Ma credo anche che i libici fossero arrivati a quel punto critico in cui dici “o difendo ciò che è giusto o permetto alla dittatura di continuare”. Semplicemente non ci aspettavamo che la violenza ci conducesse a una nuova guerra. Io ero tra i molti che sono rimasti scioccati dalla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che avallava l’intervento in Libia con il pretesto di proteggere le vite umane. Nei mesi successivi si sono susseguiti una serie di eventi. Io mi sono unita alla Coalizione 17 febbraio come volontaria. Sono rimasta a Tripoli, che per molti mesi è stata sotto assedio e bombardata dalle forze della NATO. Non ero sicura di volermi unire alle proteste, più che altro volevo contribuire dal punto di vista umanitario. Sono stata un’infermiera da campo fino a settembre. 

 

Cosa hai provato quando hai appreso della morte di Gheddafi?

 

La notizia della cattura e dell’uccisione di Gheddafi è stata uno shock. Ha insinuato in me i primi dubbi sugli scopi della rivoluzione. All’epoca pensavo davvero che noi libici, per quanto diversi, avessimo il comune obiettivo di migliorare le nostre condizioni di vita e di giungere a uno Stato democratico, con più libertà… La morte di Gheddafi è stata il primo momento in cui mi sono resa conto che non era così. Ora so che molte persone sono scese in piazza per ragioni e con interessi diversi. Ero abbastanza triste, tutto questo rappresentava in qualche modo la fine della speranza in una vera rivoluzione. Ci hanno privato della possibilità di processare un dittatore, un criminale che in quarant’anni ha fatto tanti danni alla Libia. Mi è sembrato un tradimento. Non ci è stato permesso di porre la parola fine a un sistema. Penso che averlo ucciso senza passare attraverso un vero processo abbia contribuito a cronicizzare il conflitto fino a oggi. Non c’è stato un avanzamento per i libici, non c’è stato un vero passaggio da un sistema a un altro.

 

Qual è il tuo bilancio della rivoluzione, a dieci anni di distanza? Che futuro vedi per la Libia?

 

La transizione è un argomento molto difficile da affrontare, soprattutto dopo una guerra civile in cui è circolata un’incredibile quantità di armi, con i foreign fighters, con un Paese diviso: la Cirenaica ha vissuto un’esperienza diversa rispetto a noi qui a Tripoli o ad altre zone del Paese. Per esempio alcuni membri della mia famiglia, anche loro amazigh, hanno combattuto contro Gheddafi dalle montagne del Jebel Nafusa. Ora so, meglio che nel 2011, che una trasformazione sociale radicale che coinvolga interi sistemi e strutture, richiede moltissimo tempo, soprattutto perché per noi libici è il primo processo di questo genere. È un percorso lungo e doloroso che penso richiederà ancora tanti anni.

 

Credo che molti di noi, giovani che hanno preso parte ai sollevamenti del 2011, pieni di speranza, abbiano il cuore spezzato e non si siano ancora ripresi dal fatto che quella speranza sia stata distrutta. Ma allo stesso tempo tocca ancora a noi e alle generazioni future continuare a lavorare, perché il lavoro non è finito. Le proteste non si sono mai fermate in realtà, sono continuate, in Libia come in altri Paesi. E tutti i fallimenti, le difficoltà e le vittorie fanno parte del processo per realizzare il cambiamento. Per passare da un governo autocratico a qualcosa che sia più pluralistico e inclusivo e, speriamo, meno neocoloniale, se mai sarà possibile nella nostra regione.

 

Gli eventi del 2011 hanno un significato particolare per la questione femminile in Libia? Che ruolo hanno avuto e continuano ad avere le donne nel Paese?

 

Mi sorprende ancora il modo in cui le donne hanno partecipato ai sollevamenti del 2011. È vero che non hanno imbracciato le armi ma hanno fatto le staffette, correndo molti rischi. Soprattutto, hanno attivato un’incredibile risposta umanitaria, con il sostegno dell’opposizione e delle organizzazioni internazionali. Hanno rivendicato lo spazio pubblico delle strade, e chi conosce la Libia sa che è stato un gesto di grande coraggio. Ricordo che in una delle prime proteste dopo la caduta del regime di Gheddafi, all’inizio di settembre, c’è stata una manifestazione esclusivamente femminile: abbiamo attraversato le città e abbiamo bloccato tutte le strade principali. Mi è sembrato incredibile rivendicare uno spazio che solitamente è riservato agli uomini. Nel corso degli anni le donne sono diventate delle leader a livello sociale in Libia: guidano molte organizzazioni, lottano per avere una rappresentanza femminile in politica, per proporre delle riforme e lavorare sull’inclusione e sul loro empowerment economico. È stato fatto molto e il nostro ruolo, sicuramente, continuerà a crescere. Col tempo anche le future generazioni si renderanno conto che esiste uno spazio per esserci e partecipare alla costruzione della Libia: è lì e non deve essere chiesto ma solo occupato. Naturalmente è più semplice da dire che da fare in un Paese in cui gli uomini hanno il potere militare e in cui gli attivisti e i politici per i diritti umani e per i diritti delle donne sono minacciati e perseguitati. Nel corso degli anni hanno provato a metterli a tacere, sono stati assassinati, anche recentemente, e questa è una realtà molto triste.

 

Qual è stato, invece, il ruolo degli amazigh nella rivoluzione del 2011 e qual è la loro situazione attuale in Libia?

 

Credo che gli amazigh siano stati uno di quei gruppi che non hanno avuto difficoltà a prendere le armi nel 2011. Nei suoi quarant’anni di dittatura, Gheddafi non si è limitato a creare un sistema di cui hanno beneficiato soltanto lui, i membri della sua famiglia e i suoi amici e in cui la corruzione era la norma, ma ha anche cancellato la nostra identità. Ha tentato sistematicamente di rimuoverci dalla storia, dalla vita sociale e politica. La nostra lingua è stata proibita, non potevamo chiamare i nostri figli con i nomi Tamazight… Siamo stati perseguitati per il fatto di avere dei libri scritti in alfabeto Tifinagh. Ha perseguitato gli attivisti della cultura amazigh, anche all’estero. Quindi, non è stata una sorpresa che gli amazigh abbiano preso le armi contro Gheddafi. Lo hanno fatto nel Jebel Nafusa e a Zwara, insieme all’opposizione. Purtroppo la loro partecipazione e l’importante ruolo che hanno svolto in Tripolitania non ha portato a una maggiore inclusione politica e a una maggiore salvaguardia culturale. La lotta continua. Uno dei motivi per cui sono scoppiate le proteste, non solo in Libia ma anche in altre zone, è stato il desiderio di smantellare queste strutture panarabiste, che sono escludenti e fasciste perché negano la nostra identità e la diversità della regione. Queste rivoluzioni non possono essere definite “primavere arabe”. Sono molto di più. Vanno ben oltre quella narrazione che continua a reiterare il linguaggio utilizzato dai regimi autoritari, parlando di mondo arabo o di Paesi arabi etc. Negano l’esistenza di altre identità e di altre religioni.

 

Pensi che l’opinione pubblica europea avrebbe dovuto fare qualcosa in più per aiutare gli attivisti libici, nel 2011 e nel periodo successivo?

 

Dal 2011 in poi sono avvenute tante cose. Sono venute alla luce molte rivendicazioni e penso che a un certo punto, mentre iniziavano altri conflitti, la Libia abbia smesso di fare notizia. È diventata invisibile. E se da una parte molte organizzazioni e molti attivisti europei sostenevano e continuano a sostenere la società civile libica, dall’altra c’è stata una mancanza di responsabilità da parte della società civile europea verso i propri governi, che continuano generalmente a essere parte attiva dei conflitti in Nord Africa e in Medio Oriente, in Libia, in Yemen, in Siria, etc. I governi europei sono in larga misura responsabili di alcune delle peggiori politiche attuate nella nostra regione. Ora in Francia e in altri Paesi accettano i nuovi dittatori. C’è una normalizzazione di ciò che sta accadendo dopo quello che è successo in Egitto. L’opinione pubblica europea non chiede ai propri governi: “perché state facendo questo? Perché siete coinvolti in questi conflitti, perché sostenete certi gruppi? Perché state pagando le milizie libiche per fermare i migranti e, così facendo, state rafforzando quei gruppi armati che violano i diritti umani nel Paese, a spese dei libici, dei rifugiati e dei migranti?” È vero, arrivano soldi e aiuti, che comunque non sono sufficienti comparati al sostegno rivolto agli apparati militari del Paese. Ma non vedo questa grande assunzione di responsabilità da parte dell’opinione pubblica europea verso le azioni e le politiche dei governi europei nella regione.


[1]     Con l’espressione “massacro della prigione di Abu Salim” si fa riferimento all’uccisione di 1.270 prigionieri libici che, secondo Human Rights Watch, sarebbe avvenuta nel 1996 a seguito di alcune proteste scoppiate all’interno del carcere di massima sicurezza libico.

 

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