Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 16:13:32

A un anno dallo scoppio della guerra in Ucraina, l’invasione russa e ciò che ne è conseguito tra sanzioni e volontà di affrancarsi dalla dipendenza energetica da Mosca ha anche avuto l’effetto di riportare al centro dell’agenda dei governi europei e di Washington i rapporti con i Paesi della sponda sud del Mediterraneo e del Medio Oriente. Benché in Occidente la guerra venga sempre più definita come uno scontro tra le democrazie e gli autoritarismi, gran parte degli sforzi occidentali sono rivolti proprio a incrementare i commerci con Paesi non democratici come Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Egitto o Algeria, solo per citarne alcuni. Al centro delle relazioni con queste nazioni vi è naturalmente la ricerca di risorse energetiche. Infatti, solo per quanto riguarda il petrolio e i prodotti derivati, con l’entrata in vigore delle sanzioni alla Russia l’Europa ha dovuto trovare fonti alternative per rimpiazzare 1 milione di barili di petrolio al giorno e 1.1 milioni di barili di prodotti raffinati, secondo le stime dell’IEA. Ciò ha portato nel corso del 2022 a un aumento del commercio tra i Paesi dell’area MENA e l’Europa.

 

I principali aumenti «in termini di volumi sono quelli di Arabia Saudita e Iraq, ma abbiamo visto raggiungere l’Europa anche petrolio proveniente da Abu Dhabi, dal Kuwait e dall’Oman, uno scambio insolito dato che questi Paesi sono principalmente focalizzati sui mercati asiatici», ha affermato Homayoun Falakshahi, analista di Kpler.

 

Politicamente, gli Stati Uniti hanno esercitato forti pressioni soprattutto sugli storici alleati del Golfo, Arabia Saudita in primis, affinché essi abbandonassero la loro posizione di neutralità rispetto al conflitto tra Ucraina e Russia, percepita da Washington come un sostegno non troppo velato a Mosca. Gli sforzi americani, tuttavia, non hanno prodotto l’effetto sperato, anche se all’ultimo voto dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite Riyad e compagni hanno votato a favore del ritiro russo dall’Ucraina (attenzione, l’Algeria, Paese da cui sempre più dipende l’Italia, si è astenuta). La scelta neutrale dei Paesi del Golfo si nota piuttosto chiaramente alla International Defence Exhibition (IDEX) che si è tenuta ad Abu Dhabi. Otto società russe, riunite all’interno di un grande padiglione su cui campeggiava la scritta “Russia”, hanno partecipato a quella che è il più grande happening del Medio Oriente nel settore della Difesa. Finora, ha affermato la ricercatrice Cinzia Bianco (ECFR), è molto chiaro che l’interesse di molti Paesi mediorientali (in particolare i produttori di petrolio del Golfo Persico), non va nella direzione di propendere chiaramente per una delle parti in conflitto. Oltre a monetizzare grazie ai prezzi del petrolio più alti rispetto a prima della guerra, la neutralità permette ad Arabia Saudita ed Emirati di guadagnare in altri sensi: Dubai si posiziona sempre più come una delle mete preferite per i fondi degli oligarchi, mentre Riyad e Abu Dhabi credono, come si legge su al-Monitor, di guadagnare credito politico svolgendo la funzione di mediatori in alcuni scambi di prigionieri. «L’Arabia Saudita e gli altri produttori arabi del Golfo faranno scelte che hanno senso per le loro economie, e questo non sempre sarà in favore dell’Occidente. Stiamo entrando in un mondo multipolare che assomiglia al XIX secolo più di quanto assomigli ai blocchi della Guerra fredda. Ciò significa che l’Arabia Saudita dialogherà [anche] con la Cina finche farlo sarà un vantaggio», ha detto l’analista Ryan Bohl.

 

Oltre ad influenzare i rapporti tra Stati Uniti e gli alleati del Golfo, la guerra in Ucraina ha di fatto bloccato ogni possibilità che si concretizzasse un ritorno all’accordo sul nucleare iraniano. La scelta di Teheran di schierarsi al fianco della Russia con la fornitura di armamenti (droni in particolare) ha irrigidito non soltanto la posizione di Washington ma anche, e soprattutto, quella di Bruxelles. Come ha correttamente affermato Ali Vaez, direttore del programma Iran all’International Crisis Group, «la questione ucraina è così viscerale per gli europei da mettere in ombra tutto il resto. È difficile immaginare che senza trovare un modo per diminuire le tensioni tra Iran e Occidente su questo tema ci sia una reale possibilità di successo per un impegno diplomatico costruttivo sul fronte nucleare». Per Dina Esfandiary (Foreign Affairs) quella tra Mosca e Teheran è ancora molto lontana dall’essere una vera e propria alleanza. Cionondimeno, la cooperazione tra questi due Paesi si è finora dimostrata piuttosto efficace.

 

La teoria della grande sostituzione in salsa tunisina

 

Prosegue la discesa della Tunisia verso l’autoritarismo, in una forma che ora pare colorarsi di razzismo e teorie complottiste. Parlando al Consiglio di Sicurezza Nazionale, il presidente Kais Saied ha infatti invocato la fine dell’immigrazione irregolare proveniente dall’Africa sub-sahariana. Saied ha affermato che «l’obiettivo non dichiarato delle susseguenti ondate di immigrazione illegale è arrivare a considerare la Tunisia una nazione puramente africana, senza legami con le nazioni arabe e islamiche». Inoltre, secondo il presidente, diverse entità (naturalmente non specificate) sarebbero complici di un accordo criminale in atto dall’inizio di questo secolo destinato ad «alterare la struttura demografica della Tunisia».

 

Tuttavia, molti dei migranti di origine sub-sahariana che arrivano in Tunisia, non vi rimangono, come ha ricordato Le Monde. Lo dimostra il fatto che metà dei migranti arrivati l’anno scorso in Europa dalla Tunisia era di origine sub-sahariana. Inoltre, in Tunisia sono presenti tra i 30 e i 50 mila migranti provenienti dall’Africa nera, ma questi «forniscono una forza lavoro economica di cui beneficiano tutti e che è tollerata dallo Stato nonostante sia illegale», ha detto l’antropologo Kenza Ben Azouz, secondo il quale le dichiarazioni di Saied lo pongono definitivamente all’interno dell’alveo «populista e opportunista».

 

Ramadan Ben Amor, portavoce del Forum tunisino per i diritti Sociali ed Economici, ha equiparato le parole di Saied all’«approccio razzista delle campagne in Europa». In effetti in Europa non sono mancati gli endorsment eccellenti nei confronti delle teorie di Saied, come quello del politico e scrittore di estrema destra francese Eric Zemmour, che le ha interpretate come una conferma delle sue teorie della “grande sostituzione”: «i Paesi della regione del Maghreb hanno iniziato a dare l’allarme di fronte all’escalation dell’immigrazione. La Tunisia vuole prendere provvedimenti urgenti per proteggere il suo popolo. Cosa stiamo aspettando per combattere la Grande Sostituzione?».

 

Mentre le dichiarazioni di Saied provocano numerose polemiche, le autorità tunisine proseguono con la repressione del dissenso interno. Due figure di rilievo come Chaima Aissa, leader del Fronte di Salvezza Nazionale, e Issam Chebbi, capo del partito repubblicano, sono state arrestate mercoledì. Contestualmente la polizia, secondo quanto riporta tra gli altri al-Jazeera, ha circondato la casa di un altro esponente dell’opposizione, Jawher Ben Mbarek, senza però trovarlo. Gli ultimi arresti portano a più di una dozzina il numero di persone legate all’opposizione che sono state arrestate nelle ultime due settimane con l’accusa, secondo gli avvocati difensori, di cospirare contro la sicurezza dello Stato.

 

«C’è in gioco la Nigeria stessa»

 

La Nigeria si avvicina alla fine dell’era Buhari, giunto alla fine del suo secondo mandato. Il 25 febbraio i cittadini nigeriani si recheranno alle urne per eleggere il presidente della più grande economia africana. 18 politici si contendono la poltrona da presidente, anche se i più accreditati sono Bola Tinubu, ex governatore di Lagos, Atiku Abubakar, ex vicepresidente che concorre per la presidenza per la sesta volta, Peter Obi del partito laburista, e Rabiu Kwankwaso del New Nigeria People’s Party. Secondo al-Jazeera numerosi sondaggi prevedono la vittoria di Peter Obi, il quale avrebbe un grande seguito tra i giovani scontenti degli anni di governo di Buhari (in Nigeria il 39,6% della popolazione ha meno di 35 anni). I critici tuttavia sottolineano come il piccolo partito laburista di Obi manchi della capacità organizzativa per mobilitare gli elettori, in particolar modo fuori dai grandi centri urbani, nonostante il sostegno ricevuto da figure di rilievo come Olusegun Obasanjo.

 

I temi che probabilmente decideranno l’orientamento degli elettori nigeriani sono l’economia e la sicurezza. Buhari era stato eletto con  il mandato piuttosto preciso di sistemare la situazione economica, e da questo punto di vista ha senz’altro fallito se consideriamo che la Nigeria ha passato due degli ultimi cinque anni in recessione, e che 90 milioni di nigeriani vivono con meno di 1,90 dollari al giorno. Anche sul fronte securitario le cose non vanno come dovrebbero. L’insicurezza è elevata in particolare nel Nord-Est, nel Nord-Ovest e nel Sud-Est del Paese, dove diversi gruppi armati conducono frequenti attacchi e rapimenti. I dati di un sondaggio di Afrobarometer indicano che l’89% dei nigeriani crede che il Paese stia andando nella direzione sbagliata. Ecco perché, come ha affermato Ayoade Alakija, esperta di sanità e critica dell’attuale classe politica, «in queste elezioni c’è in gioco la Nigeria stessa».

 

Non ci sono però soltanto notizie negative. Lo ha ricordato Amaka Anku su Foreign Affairs, sottolineando come negli ultimi anni le elezioni si siano svolte in maniera più trasparente, la stampa sia più libera e Buhari cederà il potere e guiderà la transizione in maniera pacifica, aspetto assolutamente da non sottovalutare a queste latitudini. Eppure, un altro sondaggio di Afrobarometer ha indicato che soltanto il 21% dei nigeriani è soddisfatto di come funziona la democrazia. Un livello incredibilmente più basso di quello registrato nel 2000 (84%), subito dopo la transizione della Nigeria verso un sistema democratico. Il punto è che lo Stato nigeriano non è riuscito a rispondere ai bisogni dei cittadini (sicurezza, elettricità, lavoro, infrastrutture) e «proprio quelle cose che hanno reso il sistema politico del Paese più libero e competitivo dalla fine del regime militare nel 1999 […] hanno anche minato l’abilità [dello Stato] di prendersi cura dei propri cittadini e mantenerli al sicuro».

 

Una nuova intifada?

 

L’esercito israeliano ha effettuato un nuovo raid in Cisgiordania. Questa volta le forze israeliane si sono concentrate su Nablus, dove hanno ucciso 11 palestinesi e ne hanno feriti oltre 100. Il raid era inizialmente concepito per catturare (o uccidere, come poi è effettivamente avvenuto) i combattenti Hossam Isleem e Mohammad Abdulghani del gruppo Fossa dei Leoni. Lo stesso gruppo armato ha affermato di essere impegnato negli scontri con le forze israeliane a Nablus a fianco delle Brigate Balata, anch’esse di recente formazione, e ha promesso vendetta. In molti (tra cui Associated Press) hanno proposto parallelismi tra ciò che sta avvenendo e la seconda intifada: la violenza continua ad aumentare, mentre Israele è governato dal governo più a destra della sua storia e rifiuta la soluzione dei due Stati, ciò che porta i Palestinesi a non vedere valide alternative alla lotta armata.

 

Tornano le proteste in Iran?

 

A 40 giorni dall’esecuzione di Mohammad Mehdi Karami e Seyed Mohammad Hosseini, giustiziati in Iran per aver preso parte alle proteste scatenate dalla morte di Mahsa Amini, si sono svolte nuove manifestazioni nel Paese. La BBC le ha definite «piccole», ma la loro diffusione è stata abbastanza ampia: Teheran, Karaj, Mashhad, Isfahan, Qazvin, Rasht, Arak, Izeh e Sanandaj. Persino nella città santa di Qom, roccaforte del clero sciita iraniano, il desiderio di cambiamento sta iniziando a manifestarsi.

 

In questo contesto, le ultime settimane hanno visto un ruolo rinnovato da parte della Guida Suprema Ali Khamenei, che secondo Najmeh Bozorgmehr ha accresciuto il suo «ruolo attivo nella vita pubblica [dell’Iran] nel tentativo di rafforzare l’autorità del regime dopo le più intense manifestazioni dai tempi della Rivoluzione Islamica».

 

 

In breve

 

I vertici della sicurezza del Pakistan hanno incontrato i Talebani afghani, poco dopo che tra i due Paesi era stato chiuso il valico di frontiera di Torkham (al-Jazeera). Intanto numerosi militanti del partito dell’ex premier Imran Khan sono stati arrestati (Financial Times).

 

L’Arabia Saudita ha depositato un miliardo di dollari nelle casse della banca centrale yemenita (Reuters). Il Public Investment Fund ha svelato il nuovo progetto per il rinnovamento di Riyad: si tratta della “nuova Murabba”, al cui centro si troverà la Mukaab, un cubo di 400 metri per lato (CNN).

 

Il presidente siriano Bashar al-Assad ha visitato la capitale dell’Oman, dove ha incontrato il sultano Haitham bin Tariq (AP News). In settimana Israele ha compiuto un attacco missilistico a Damasco, dove avrebbe colpito un esperto militare iraniano (Reuters).

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