Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 16:17:38

Il 9 marzo si è fatto un gran parlare della possibile normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita. Il giorno dopo, intorno all’ora di pranzo, è arrivata la breaking news: Iran e Arabia Saudita hanno stabilito che entro due mesi verranno riaperte le rispettive ambasciate, chiuse sette anni fa in seguito ai disordini scoppiati dopo l’esecuzione del chierico sciita Nimr al-Nimr. Aspetto non da poco: l’accordo è stato raggiunto grazie alla mediazione della Cina. Qui trovate il comunicato ufficiale, diramato contestualmente da Arabia Saudita, Iran e Cina.

 

Ma andiamo con ordine e partiamo da Israele che, mentre è alle prese con la diplomazia internazionale, continua a fare i conti con i disordini e i problemi che ruotano attorno alla riforma della giustizia e alle violenze in Cisgiordania. La profondità del cambiamento che Netanyahu vuole imporre al Paese è tale che alcuni funzionari si rifiutano di eseguire i loro compiti: è successo con i piloti che avrebbe dovuto portare il primo ministro in Italia per l’incontro con Giorgia Meloni (Netanyahu è stato costretto a cambiare aereo), ma stando a quanto riporta tra gli altri l’Associated Press accade sempre più di frequente anche con molti riservisti dell’esercito che manifestano l’intenzione di non rispondere all’eventuale chiamata dell’IDF. Inoltre, le continue manifestazioni dell’opposizione complicano la routine del presidente, il quale, per esempio, ha avuto problemi a raggiungere l’aeroporto in automobile.

 

Venendo al contesto internazionale, ieri il Wall Street Journal scriveva della possibile normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita, una priorità sia di Tel Aviv che di Washington, che vedono nell’avvicinamento a Riyad una via per contrastare l’Iran e la Russia. I sauditi avrebbero chiesto agli Stati Uniti garanzie securitarie per il Paese e l’aiuto a sviluppare il proprio settore nucleare civile in cambio del riconoscimento dello Stato ebraico. Ma proprio mentre si parlava della possibilità di questo sviluppo diplomatico è giunta la notizia del riavvicinamento tra l’Arabia Saudita e l’arcinemico di Israele. Ci sarà tempo e modo di osservare in profondità cause e conseguenze di questo sviluppo, ma è possibile cogliere fin da subito alcuni aspetti rilevanti. Primo fra di essi è il ruolo svolto dalla Cina. La mediazione offerta da Pechino in questa situazione segna, come ha correttamente notato Salman Al-Ansari, il salto di qualità del ruolo cinese in Medio Oriente, che passa dalla mera (seppure importante) influenza economica all’azione politica. Restano, per ora, anche i punti interrogativi: che garanzie ha offerto Pechino nel caso in cui una delle parti in causa non dovesse rispettare gli impegni presi? Nei prossimi mesi vedremo i frutti (a cominciare dallo Yemen?) di questa nuova situazione.

 

Il mistero degli avvelenamenti in Iran

 

Dopo due mesi di relativa calma, in almeno venti città iraniane diversi cittadini sono tornati in piazza. L’elemento scatenante è il misterioso avvelenamento di centinaia di studentesse avvenuto per la prima volta a Qom tre mesi fa. Da allora il fenomeno si è diffuso e ora coinvolge più di 200 scuole, anche se il numero è contestato: 52 secondo il ministro dell’Interno Ahmad Vahidi, 350 per alcuni attivisti. La dimensione delle proteste, a giudicare da alcuni dei video diffusi, non è di grande entità, ma genitori, parenti, compagni e semplici cittadini hanno protestato contro un regime accusato di non proteggere i propri giovani studenti e, soprattutto, studentesse.

 

Molti sono i punti interrogativi su quanto sta avvenendo: da un lato, visti i precedenti, viene quasi naturale puntare il dito contro le autorità della Repubblica Islamica. È quello che fanno, tra gli altri, alcuni giornali riformisti locali, come Etemad o Arman-e Emruz, che ritengono l’avvelenamento un modo per punire le ragazze per la partecipazione alle proteste iniziate nel settembre scorso e privarle dell’educazione. Si tratta però di una posizione non del tutto convincente. Infatti, come hanno ricordato anche diversi media, in Iran, a differenza del vicino Afghanistan, non c’è una tradizione di estremismo religioso che prenda di mira specificamente l’educazione femminile.

 

Non è chiaro nemmeno che tipo di sostanza venga utilizzata. Il 1° marzo Vahidi aveva parlato di un veleno debole, mentre Alireza Monadi-Sefidan, della commissione educazione del Parlamento, ha fatto riferimento all’utilizzo di azoto. I sintomi generati dall’avvelenamento vanno dalla nausea all’accelerazione del battito cardiaco, ma fortunatamente non si è verificato nessun decesso.

 

Ciononostante, questo fenomeno pone una nuova, delicata, sfida nei confronti della Repubblica Islamica. Essa genera una rinnovata sensazione di insicurezza e di sfiducia nel sistema e nelle istituzioni iraniane: sia perché il governo è accusato da alcuni di essere direttamente responsabile del crimine, sia perché, in ogni caso, si manifesta l’incapacità di individuare i colpevoli. «C’è un senso di panico che si diffonde, e la distanza tra lasciarsi prendere dal panico per il benessere della propria famiglia e la mobilitazione politica contro il regime è molto breve» ha detto Alex Vatanka, direttore del programma Iran al Middle East Institute. La Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, ne è ben consapevole e cerca di limitare i danni: in questo senso va probabilmente letto l’intervento nel quale ha affermato che i responsabili degli avvelenamenti dovrebbero essere condannati a morte.

 

 

Intanto, lunedì le autorità iraniane hanno comunicato di aver compiuto i primi arresti, senza tuttavia fornire dettagli sull’identità dei sospettati. «Alcune persone sono state arrestate in cinque province e le agenzie deputate stanno conducendo un’indagine», ha solamente detto il viceministro dell’Interno, Majid Mirahmadi. Tuttavia, mentre cercano i responsabili del crimine, le autorità iraniane hanno anche dato mandato a due tribunali di perseguire tutte le persone che diffonderebbero notizie infondate e alimenterebbero il panico in merito agli avvelenamenti. La prima vittima di questa stretta è un giornalista di Qom che da tempo stava seguendo il caso ed ora è stato arrestato.

Mentre sono alle prese con questa nuova sfida al loro potere, le autorità iraniane devono anche fare i conti con le crescenti difficoltà economiche: il rial iraniano ha subito una nuova svalutazione e l’inflazione erode il potere d’acquisto dei cittadini iraniani. Manzo e pollo, ha raccontato una donna al Wall Street Journal, diventano sempre più inaccessibili, e persino il prezzo del latte continua a salire. In questo contesto le autorità iraniane parlano di un futuro economico positivo per il Paese, come documentato da Amwaj Media. Alla base di questa convinzione il rapporto sempre più stretto con Cina e Russia e la partecipazione alla Shanghai Cooperation Organization (SCO).

 

Lo sfidante di Erdoğan: grigio burocrate o Gandhi turco?

 

Nel focus attualità della settimana scorsa avevamo scritto della rottura del fronte dei sei partiti che si oppongono a Erdoğan, con l’uscita del Partito IYI dalla coalizione in seguito al disaccordo sul candidato da opporre al presidente uscente. Meral Akşener avrebbe preferito il sindaco di Istanbul Ekrem İmamoğlu o quello di Ankara Mansur Yavaş. Entrambi fanno parte del partito CHP guidato da Kemal Kılıçdaroğlu e a entrambi i sondaggi accordano le maggiori chances di sconfiggere il leader dell’AKP. Solo pochi giorni dopo, tuttavia, ecco la marcia indietro: il fronte si è ricompattato e ha reso noto che la figura individuata è proprio, come previsto, il leader del partito Repubblicano del Popolo (CHP) Kılıçdaroğlu. In cambio dell’assenso alla sua candidatura Akşener, che guida il secondo partito più rilevante del blocco, ha ottenuto la nomina di İmamoğlu e Yavaş a vice-presidenti.

 

L’Alleanza della Nazione propone il ripristino del sistema parlamentare e, dunque, la cancellazione di una delle riforme più importanti di Erdoğan. Oltre al CHP e al partito IYI, fanno parte della coalizione il Partito della Felicità di Temel Karamollaoğlu, il Partito Democratico di Gültekin Uysal, il Partito Democrazia e Progresso guidato da Ali Babacan (ex ministro dell’Economia proprio con Erdoğan), e il Partito del Futuro che ha a capo quell’Ahmet Davutoğlu che ha già ricoperto la carica di Ministro degli Esteri, primo ministro e capo del partito AKP.

 

Erdoğan sarà dunque sfidato dal 74enne Kılıçdaroğlu, ovvero da una figura che è, secondo la descrizione di Gönül Tol, «tutto ciò che il presidente Recep Tayyip Erdoğan non è». Ex funzionario di Stato, in parlamento dal 2002, Kılıçdaroğlu è nato in una famiglia numerosa e di origini umili nella provincia orientale di Tunceli, e fa parte della minoranza alevita. Soprannominato “Gandhi Kemal”, è una figura calma e non carismatica, ciò che è visto da alcuni come un difetto che potrebbe pregiudicarne la vittoria in un Paese «dove i leader forti sono stimati per la loro capacità di mobilitare i seguaci grazie al loro stile politico energetico ed emozionale».

 

Il terremoto però potrebbe avvantaggiare l’opposizione. Can Sezer e Jonathan Spicer hanno intervistato diversi residenti nelle province di Kahramanmaras, Adiyaman e Gaziantep e hanno riscontrato che molti residenti dei villaggi del sudest della Turchia, che finora hanno votato in massa l’AKP, stanno cambiando opinione. Il campione delle persone intervistate è certamente piccolo e (probabilmente) non rappresentativo degli oltre 14 milioni di persone colpite dal terremoto, ma aiuta comunque a comprendere quali sono le principali lamentele che vengono avanzate da questo segmento principalmente rurale di elettorato nei confronti delle autorità. Come facilmente prevedibile, molti criticano le politiche di Erdoğan in materia di edilizia e urbanistica, che hanno reso possibile la costruzione di edifici senza rispettare gli standard antisismici adeguati. Altri invece sottolineano le carenze nei soccorsi, riconosciute dallo stesso presidente turco. Il punto è, però, che anche in queste zone, Sezer e Spicer hanno osservato una certa perplessità nei confronti della candidatura di Kılıçdaroğlu.

 

Il compito del leader del CHP sarebbe probabilmente più facile se la coalizione includesse i curdi del Partito Democratico del Popolo (o potesse almeno in qualche modo contare sul sostegno del suo elettorato), che alle elezioni del 2018 aveva ottenuto l’11,70%, che gli era valso l’elezione di 67 parlamentari. Su questo tema, tuttavia, i partiti della coalizione hanno finora avuto opinioni contrastanti. Uno dei timori è che le aperture nei confronti dei curdi potrebbero allontanare dalla coalizione gli elettori nazionalisti dei partiti IYI e gli islamisti di Saadet (Partito della Felicità). Qualcosa sembra però cambiare: Birol Aydin, portavoce del partito della Felicità, ha detto durante una diretta televisiva che Kılıçdaroğlu dovrebbe parlare con l’HDP, mentre Aksener ha reso noto che non si opporrebbe se qualcuno della coalizione volesse avere colloqui con il partito curdo, ma non vi prenderebbe direttamente parte.

 

Intanto Erdoğan ha ufficializzato la data delle elezioni, che si terranno il 14 maggio. Un mese prima di quanto inizialmente stabilito, nonostante il devastante terremoto che ha colpito la Turchia.

 

In breve

 

La World Bank ha interrotto temporaneamente la partnership strategica con la Tunisia in seguito alle dichiarazioni del presidente tunisino Kais Saied sulle persone di colore (The National). Guinea, Costa d’Avorio, Mali e Gabon hanno intanto iniziato a rimpatriare i propri connazionali presenti in Tunisia (Foreign Policy).

 

Le immagini satellitari pubblicate dall’Associated Press mostrano i danni provocati da un attacco israeliano all’aeroporto di Aleppo.

 

Hassan Nasrallah ha reso noto il sostegno di Hezbollah a Sleiman Frangieh come candidato alla presidenza del Libano. Frangieh, un cristiano maronita, non ha tuttavia l’appoggio del principale gruppo cristiano in parlamento (Associated Press).

 

 

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