Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 16:17:04

Israele è in piena crisi: a livello interno, per tutto ciò che ruota attorno alla riforma della giustizia, e a livello esterno (se veramente di esterno si può parlare) per le crescenti violenze che si verificano tra israeliani e palestinesi. Dopo l’uccisione di due coloni a Huwara, in Cisgiordania, circa 400 israeliani hanno preso d’assalto la città e alcuni villaggi circostanti. Mentre il generale israeliano Yehuda Fuchs, che ha in carico la sicurezza dell’area, ha ammesso che le forze di sicurezza israeliane avrebbero dovuto impedire quello che lui stesso ha definito un pogrom, Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze del governo presieduto da Benjamin Netanyahu, ha prima messo “mi piace” a un Tweet in cui si auspicava che Huwara fosse cancellata e poi, rispondendo a una domanda in conferenza stampa, ha ribadito: «Huwara deve essere spazzata via. Io penso che sia lo Stato di Israele a doverlo fare – non, Dio non voglia, individui privati». Le dichiarazioni di Smotrich sono state aspramente criticate dall’opposizione, che le ha definite un «incitamento ai crimini di guerra». Anche il Dipartimento di Stato americano ha condannato le dichiarazioni di Smotrich, con il suo portavoce Ned Price che ha invitato Netanyahu a prendere «pubblicamente e chiaramente» le distanze da Smotrich.

 

Anche in questi giorni le violenze proseguono: giovedì Muhammad Nidal Salim, un quindicenne palestinese di Azzoun, è stato ucciso dai soldati israeliani, mentre un altro ragazzo è in condizioni critiche. Le Forze di Difesa Israeliane hanno ammesso di essere a conoscenza del fatto che alcune persone sono state ferite, ma non hanno parlato di alcun decesso. I Patriarchi e i capi delle Chiese di Gerusalemme hanno diramato una dichiarazione in cui si dicono «rattristati dalla recente escalation» e affermano l’urgenza di trovare «una «soluzione al conflitto israelo-palestinese».

 

A tutto questo si aggiunge il fronte delle riforme proposte dal governo di Netanyahu. Dopo i fatti di Huwara l’esecutivo ha comunicato l’intenzione di sostenere un disegno di legge, a lungo voluto dall’estremista di destra Itamar Ben-Gvir, che prevede la pena di morte per i colpevoli di uccisioni per motivi di terrorismo. Mercoledì la Knesset ha dato il via libera preliminare al provvedimento, criticato da molti anche perché la formulazione sembra lasciar intendere che la sanzione si applicherebbe ai palestinesi che uccidono ebrei israeliani, ma non agli israeliani che uccidono palestinesi.

 

La riforma della giustizia proposta da Netanyahu ha portato l’opposizione, tanto quella strettamente politica quanto diversi settori della società, a scendere in piazza. Come hanno ricordato Andrew England e James Shotter sul Financial Times, Israele non è nuovo a forti momenti di polarizzazione interna: è avvenuto dopo il ritiro da Gaza nel 2005 o in seguito all’assassinio di Yitzhak Rabin. Questa volta però, la linea di divisione della società e della politica riguarda la natura stessa e i valori fondanti dello Stato ebraico. Come ha detto Tzipi Livni, che cominciò la carriera politica proprio nel Likud di Netanyahu, «non si tratta solo della riforma giudiziaria, è qualcosa di più profondo e ampio di questo. Riguarda la nostra identità, riguarda cosa sia Israele. È una battaglia per l’anima di Israele in quanto democrazia». Il famosissimo storico israeliano Yuval Noah Harari, autore di numerosi best-sellers come Sapiens e Homo Deus, ha scritto sul Washington Post che il problema in Israele non è una riforma della giustizia, ma un colpo di Stato anti-democratico. Naturalmente, il governo agisce proprio in forza della convinzione di essere pienamente democratico, ma basa questa affermazione su una concezione estremamente ristretta di cosa sia democrazia. Una concezione dove a contare è soltanto il voto della maggioranza.

 

Come abbiamo già scritto in un precedente articolo, tra i più ferventi oppositori di questa riforma ci sono gli imprenditori del dinamico settore tecnologico israeliano. Assaf Rappaport, CEO di WIZ, una startup nata tre anni fa e il cui valore ha già raggiunto i 10 miliardi di dollari, ha espresso chiaramente il suo punto di vista: questa situazione «è una minaccia esistenziale [per lo Stato di Israele] più di qualunque missile». Prese di posizione di questo tipo sono interpretate da un acuto osservatore come Anshel Pfeffer come la certificazione che Netanyahu ha perso il sostegno del settore economico israeliano, oltre a quello dell’opinione pubblica. Il premier si trova ora in una posizione scomoda: quando la Knesset approverà la riforma, è verosimile attendersi che la Corte Suprema la respinga. Allora a Netanyahu spetterà la scelta: accettare i rilievi della Corte, a costo di veder crollare la coalizione di governo, oppure rigettarli, con il rischio che i servizi di sicurezza e le agenzie cruciali dello Stato non accettino più i suoi ordini. Il risultato di questa scelta potrebbe essere proprio quello desiderato dal leader dell’opposizione Yair Lapid: costringere Netanyahu a invocare le ennesime nuove elezioni.

 

Voto contestato in Nigeria

 

Bola Tinibu, musulmano originario del sudest del Paese, nonché ex governatore di Lagos e leader dell’All Progressives Congress (APC), ha vinto le elezioni in Nigeria grazie a 8,8 milioni di voti. Sconfitti Atiku Abubakar (anche il sesto tentativo di diventare presidente, dunque, si è risolto in un fallimento) e Peter Obi, da alcuni considerato favorito, il quale aveva sconfitto Tinibu in precedenti elezioni per il controllo di Lagos.

 

Anche grazie al cosiddetto “Muslim-Muslim ticket”, ovvero la candidatura in coppia con Kashim Shettima, anch’egli musulmano, Tinibu è riuscito a ottenere il sostegno fondamentale degli Stati del nord della Nigeria. Le elezioni di quest’anno sono state segnate dall’impiego di nuove tecnologie, tra cui l’uso di dati biometrici per la verifica delle identità degli elettori, o la pubblicazione online in tempo reale dei risultati. Tuttavia, si sono verificati numerosi problemi e incidenti nel corso delle operazioni di voto. Anche per questo i candidati sconfitti hanno rifiutato l’esito delle votazioni. L’ha fatto per primo Peter Obi, del Partito Laburista, il quale ha dichiarato: «abbiamo vinto le elezioni e lo dimostreremo ai nigeriani». Poche ore dopo è stato il turno di Atiku Abubakar, del Partito Democratico del Popolo: «Sono giunto alla conclusione che lo svolgimento e il risultato delle elezioni per la presidenza e l’assemblea nazionale sono stati grossolanamente viziati in ogni modo possibile e pertanto è necessario metterli in discussione». Le lamentele di Abubakar e Obi sono state condivise dai leader di almeno altri quattro partiti. Come ha ricordato France24, gli sconfitti hanno tre settimane di tempo per decidere se fare ufficialmente ricorso, ma sarà possibile annullare l’esito delle votazioni solo nel caso – molto difficile – in cui si dimostri che la commissione elettorale ha operato contro la legge. L’ex presidente Obasanjo si è detto molto preoccupato per le tensioni che si sono create nel Paese e ha invitato la commissione elettorale a cancellare «tutte le elezioni che non superano il test della credibilità e della trasparenza». Una preoccupazione che è condivisa dagli analisti dell’Armed Conflict Location & Event Data Project (ACLED), che hanno stimato un’elevata probabilità che si verifichino violenze post-elettorali.

 

L’Iran a un passo dalla soglia nucleare

 

Gli ispettori dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica hanno rinvenuto in Iran uranio arricchito all’84%, ovvero quasi ai livelli necessari per la produzione di un’arma atomica. I diplomatici che hanno rivelato l’informazione hanno però sottolineato anche che Teheran non sta accumulando questo tipo di materiale. Per questo, mentre si è detto preoccupato per l’accelerazione del programma nucleare, il capo della Cia Willian Burns ha reso noto di non credere che la Repubblica Islamica abbia riavviato il programma atomico militare interrotto nel 2003.

 

All’interno del Paese, intanto, le autorità sono alle prese con il misterioso avvelenamento di centinaia di ragazze in età scolare che hanno riportato sintomi respiratori, cardiaci e neurologici. Come comunicato dal ministro degli Interni Ahmad Vahidi, le autorità iraniane non sono ancora riuscite a stabilire le motivazioni di quanto avvenuto in più di 10 città iraniane.

 

Verso la normalizzazione siriana?

 

Il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry si è recato in visita a Damasco, dove ha incontrato l’omologo siriano, il quale l’ha accolto affermando che «quando il ministro degli Esteri dell’Egitto arriva a Damasco, arriva a casa sua, dal suo popolo, nel suo Paese». Shoukry ha detto che il Cairo fornirà ulteriori aiuti in coordinazione con il governo siriano. L’avvicinamento tra Siria ed Egitto segue quello tra Damasco e i Paesi del Golfo, che vedono probabilmente nella vicinanza alla Siria una possibilità per diminuire l’influenza iraniana nel Paese.

 

La fine di Erdoğan. O un nuovo inizio?

 

Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha chiarito che le elezioni si terranno come previsto il 14 maggio prossimo. Nessun rinvio, dunque, anche se resta del tutto da chiarire come sarà possibile allestire i seggi nelle zone colpite dal devastante terremoto del 6 febbraio. Gli esperti della Commissione elettorale turca hanno stabilito che tecnicamente è possibile organizzare le operazioni di voto, ma sarà necessario un enorme sforzo organizzativo.

 

Da settimane si rincorrevano speculazioni circa la scelta di Erdoğan riguardo alla data del voto, divise tra chi pensa che il rinvio avrebbe favorito il presidente uscente e chi, al contrario, ritiene il contrario. Riportiamo due interpretazioni differenti pubblicate in questi giorni. La prima è quella di Emre Erdogan, politologo dell’Università Istanbul Bilgi intervistato dal New York Times. Emre Erdogan ritiene che il sisma non avrà un impatto significativo sulla base degli elettori (il 40% circa) che generalmente sostiene l’AKP: «è un elettorato conservatore, che crede fortemente nel fato. Essi possono razionalizzare ogni fallimento a cui assistono, in modo particolare con un atteggiamento mentale secondo cui i disastri sono inevitabili».

 

Al contrario, l’analista Soner Cagaptay ha scritto su Foreign Affairs che il terremoto può portare alla fine del “regno” di Erdoğan. Il modo in cui la macchina degli aiuti si è dispiegata, così come i motivi per cui così tante costruzioni sono crollate, sono già oggetto di discussione. La risposta al terremoto segue secondo Cagaptay un percorso tipico della Turchia oggi e dell’Impero ottomano prima: «una gestione paternalistica, dall’alto verso il basso, radicata in una modernizzazione guidata dallo Stato». È per questo che lo Stato, in Turchia, è soprannominato devlet baba (Stato padre), in opposizione alla Nazione che è ana vatan (madre patria). Così, prosegue Cagaptay, i leader turchi hanno insistito a lungo di essere quelli che sanno cosa è bene per la popolazione: ora che le cose vanno male (e non soltanto per il terremoto), non possono che essere loro i responsabili. Intanto si spacca la coalizione dei partiti di opposizione: il partito nazionalista IYI ha comunicato che non sosterrà la candidatura di Kilicdaroglu. Un assist per la rielezione di Erdoğan.

 

Tunisia: il razzismo di Saied miete vittime

 

La Costa d’Avorio e la Guinea hanno comunicato che invieranno aerei speciali per rimpatriare i loro cittadini che si trovano in Tunisia. La decisione arriva dopo le dichiarazioni del presidente tunisino Kais Saied, secondo cui l’immigrazione dall’Africa subsahariana risponderebbe a un piano ben preciso finalizzato all’alterazione della composizione demografica della Tunisia. Secondo la BBC, poco dopo le esternazioni di Saied, un gran numero di migranti provenienti dall’Africa nera sarebbe stato incarcerato. La notizia è stata riportata anche dal quotidiano emiratino The National, che aggiunge che molte persone sono state aggredite e rapinate per via del colore della propria pelle. In questa caccia all’uomo, i sostenitori di Saied non si rivolgono soltanto contro i migranti irregolari: studenti subsahariani, lavoratori espatriati in regola, e persino tunisini con la pelle nera sono tra coloro che sono stati aggrediti (tra gli altri, ne parla qui il New York Times).

 

Le azioni contro i migranti africani si sommano agli arresti di esponenti dell’opposizione, giornalisti e attivisti, il cui ritmo è notevolmente aumentato nell’ultimo mese. La svolta verso l’autoritarismo imposta da Kais Saied nell’ultimo periodo è interpretata da alcuni come un cambio della natura del governo tunisino. Tuttavia, come ha evidenziato il saggista Hatem Nafti su Le Monde, Saied non sta affatto cambiando «la natura» del suo progetto politico: questo è iniziato il 25 luglio 2021 quando il presidente ha cominciato scientemente a eliminare ogni forma di contrappeso al suo potere. Ciò a cui assistiamo, afferma Nafti, è solo un’accelerazione di un metodo di governo che era chiaro fin da principio.

 

Un hub “aggira-sanzioni”

 

Stati Uniti, Unione Europea e Regno Unito stanno aumentando le pressioni sugli Emirati Arabi Uniti affinché questi non siano il luogo utilizzato dalla Russia per aggirare le sanzioni. A preoccupare particolarmente i Paesi occidentali sono le esportazioni verso Mosca di materiale elettronico, che nel 2022 sono scresciute di sette volte. Ciò si aggiunge al fatto che gli Emirati (Dubai in particolar modo) sono diventati la meta privilegiata dei capitali degli oligarchi russi.

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