La violenza jihadista è alimentata da una lettura letteralista del Corano, al cuore della quale si trova la questione dell’abrogazione

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:08:16

La violenza jihadista è alimentata da una lettura letteralista del Corano, al cuore della quale si trova la questione dell’abrogazione: versetti più concilianti, che ingiungono al Profeta pazienza, tolleranza e perdono verso gli infedeli, sarebbero abrogati da altri, successivi, che ordinano di combatterli o di ucciderli. Questa teoria ha una lunga storia nella tradizione islamica, e continua ad avere ampio corso nella predicazione attuale. Un’analisi letteraria del testo ne mostra l’infondatezza.

La violenza jihadista odierna è alimentata da una lettura letteralista del Corano, al cuore della quale si trova la questione dell’abrogazione. Secondo tale lettura i versetti più concilianti, che ordinano al Profeta pazienza, tolleranza e perdono verso gli infedeli (politeisti o genti del Libro, cioè ebrei e cristiani), sarebbero abrogati da altri, successivi, che ordinano di combatterli o di ucciderli. Tra questi vi è il famoso “versetto della spada”: «Combattete coloro che non credono in Dio e nel Giorno Estremo, e che non ritengono illecito quel che Dio e il Suo Messaggero han dichiarato illecito, e coloro, fra quelli cui fu data la Scrittura, che non s’attengono alla Religione della Verità» (Cor. 9,29; si vedano anche nella stessa sura i versetti 5, 12, 14, 36, 111, 123).

 

Abrogante e abrogato

Questa teoria dell’abrogazione del Corano da parte di se stesso ha una lunga storia nella tradizione islamica. Essa è stata elaborata dal diritto musulmano (fiqh) durante i primi secoli dell’egira per risolvere le contraddizioni apparenti tra alcuni versetti legislativi del Corano. Per legittimare questa teoria, commentatori e giuristi (fuqahā’) hanno fatto leva su alcuni versetti coranici, il principale e più esplicito dei quali è il versetto 106 della sura 2: «Non abrogheremo, né ti faremo dimenticare, alcun versetto senza dartene uno migliore od uguale». Considerato in sé, isolato dal suo contesto letterario, questo versetto sembra limpido. Dio abroga alcuni versetti e li sostituisce con altri versetti migliori e ne fa anche dimenticare alcuni, che sostituisce con versetti simili.

Nonostante il rilevante spazio progressivamente assunto dalla “scienza dell’abrogante e dell’abrogato” (‘ilm al-nāsikh wa-l-mansūkh) tra le scienze coraniche, non si è mai raggiunto alcun accordo sul numero e sull’identità dei versetti abrogati. Per alcuni ammonterebbero a diverse centinaia, per altri solamente a qualche unità, forse cinque. Altri ancora, e in particolare i mu‘taziliti razionalisti (la prima scuola teologica dell’Islam, NdR), rifiutano del tutto la teoria dell’abrogazione, contraddittoria con l’idea dell’eternità del Corano: che senso avrebbe infatti un versetto eterno abrogato? In ogni caso, l’interpretazione maggioritaria del versetto 2,106 da parte dei commentatori classici va nel senso dell’abrogazione di alcuni versetti del Corano da parte di altri versetti dello stesso Corano. A supporto di questa tesi i commentatori citano due aneddoti come “circostanze della rivelazione” (asbāb al-nuzūl) di questo versetto. Nel primo, i politeisti si sarebbero lamentati del fatto che Muhammad fosse solito dare ora un ordine ora un altro che contraddiceva il primo, prova che essi non gli giungevano da Dio ma erano una sua invenzione; Dio allora fece discendere il versetto in questione. Nella seconda versione, il Profeta avrebbe ricevuto una rivelazione notturna, che avrebbe subito dimenticato il mattino seguente e per rassicurarlo Dio gli avrebbe rivelato questo versetto.

Possiamo notare già due tratti caratteristici dell’esegesi classica del Corano in generale e di questo versetto in particolare: 1) il versetto è interpretato isolatamente, al di fuori del suo contesto letterario immediato, e 2) la sua interpretazione è convalidata da un contesto che si suppone storico, esterno al testo, ma la cui storicità è quantomeno discutibile.

Questa interpretazione tradizionale del nostro versetto continua ad avere ampio corso nella predicazione islamica attuale. A partire dall’epoca medievale, segnatamente in un commentatore mu‘tazilita, Abū Muslim Ibn Bahr (m. 322/934)[1], si trovano tuttavia tracce di un’altra interpretazione secondo la quale a essere abrogati non sono i versetti del Corano, ma alcune leggi dei libri sacri anteriori, Torah e Vangelo, come il riposo del sabato o la preghiera in direzione del tramonto. Poiché i libri mu‘taziliti sono stati per la maggior parte distrutti, è difficile sapere in quale misura questa interpretazione abbia attraversato i secoli. Si trova però in uno storico persiano delle religioni, al-Shahrastānī (m. 1153), l’idea che l’abrogazione significhi la sostituzione di una legge religiosa con una migliore, in ragione dell’evoluzione progressiva dell’agire umano.

Questa idea è riemersa in epoca moderna, in particolare nel commentario (in urdu) del riformista indiano Sayyid Ahmad Khān (m. 1889). Anche per lui il versetto 2,106 significa l’abrogazione delle leggi rivelate dai profeti anteriori all’Islam. Un’enciclopedia indiana del 2000 spiega, alla voce “abrogazione”, che tenendo conto del versetto 105 («Quelli fra la gente del Libro che non credono, e i pagani, non amano che il Signore vostro vi elargisca de’ suoi favori»), il versetto 106 significa che «se una legge, nella fattispecie la legge biblica, è cancellata, a Muhammad è data una legge migliore»[2]. Notiamo qui l’attenzione prestata al contesto del versetto 2,106. Sembra che questa idea sia particolarmente diffusa nell’Islam indo-pakistano. La si trova in particolare in Mawdūdī, uno dei padri dell’islamismo attuale, o nel vasto commento (in urdu) di uno dei suoi primi discepoli (che poi prese un’altra strada), Amīn Ahsan Islāhī: «La legge della Torah è stata annullata e sostituita da un legge migliore. Allo stesso modo, i comandamenti della Torah che gli ebrei avevano dimenticato sono stati ripristinati o sostituiti con altri simili. Grazie a questo processo di cambiamento e di miglioramento della legge, Allah cerca di far progredire i suoi servi verso qualcosa di migliore di ciò di cui disponevano prima»[3].

Uno studioso pachistano, Ahmad Hasan, ha potuto scrivere in uno studio sulla teoria dell’abrogazione pubblicata una cinquantina di anni fa, che «Tenuto conto dell’evidente contesto del versetto in questione, sembra strano che alcune delle più eminenti autorità in tafsīr non ne abbiano colto il punto centrale»[4].

Questa interpretazione del versetto 2,106 si trova anche in alcuni dotti arabi, come il commentatore siriano contemporaneo (e Fratello musulmano) Sa‘īd Hawwā (m. 1989). E senza essere necessariamente messa in relazione con questo versetto, l’idea che allarga la nozione di abrogazione all’insieme delle rivelazioni precedenti non manca nemmeno nella predicazione islamica attuale.

 

Il contributo dell’analisi letteraria

Un’analisi letteraria critica denuncerà facilmente l’inesattezza delle due interpretazioni menzionate finora: il versetto non riguarda infatti né l’abrogazione del Corano da parte di se stesso, né l’abrogazione pura e semplice dell’insieme delle rivelazioni precedenti, ma solo alcuni passaggi dei libri di queste ultime. Il termine āya, compreso oggi come “versetto”, significa in realtà nel Corano (a parte il senso più generale di “segno”) una porzione del testo, gruppo di versetti, passaggio, ma mai il testo intero del Libro e o di un Libro[5].

Il primo passo di qualsiasi vera analisi letteraria consiste nel collocare il testo studiato nel suo contesto letterario. Così facendo, si opererà esattamente all’inverso del metodo, troppo spesso praticato nell’esegesi coranica, del commento versetto per versetto, senza considerare il contesto letterario. È proprio quest’assenza di attenzione per il contesto ad aver guidato la prima interpretazione del versetto 2,106. Non si terrà conto d’altra parte del contesto storico troppo aleatorio delle “ragioni della rivelazione”, per cercare invece il senso del testo solamente a partire dal testo stesso. I fautori della seconda interpretazione hanno tenuto conto del contesto più ampio del versetto, consacrato a una lunga polemica con gli ebrei e le genti del Libro, che si estende dal versetto 2,40 al versetto 2,123. Alcuni, come abbiamo visto, hanno notato un legame semantico più stretto tra i versetti 105 e 106, ma senza spingersi oltre nella ricerca del contesto. Oggi, una migliore conoscenza dei principi di composizione del testo coranico, secondo le regole della retorica semitica, permette di approfondire ulteriormente lo studio del contesto e dunque del senso del versetto 2,106.

All’interno del grande insieme che va dal versetto 40 al 123, si può in effetti distinguere una sezione coerente più ridotta, che va dal versetto 87 al versetto 121. Questa sezione è a sua volta scomponibile in tre sequenze: 87-103/104-110/111-121[6]. Le due sequenze estreme si trovano in corrispondenza semantica e inquadrano la sequenza centrale, in cui si colloca il versetto 106 dell’abrogazione.

Nella retorica semitica, le estremità e i centri delle unità testuali rivestono sempre un’importanza particolare. Al centro della prima sequenza (composta in maniera concentrica secondo una schema AB/x/B’A’), il Corano ironizza sulla pretesa degli ebrei a un’elezione esclusiva, non solo in questo mondo, ma anche nell’aldilà: «Se davvero la dimora futura presso Dio è riservata per voi all’infuori di ogni altro, auguratevi allora la morte se siete sinceri!» (94). Si comprende allora che è in ragione di questa pretesa a un’elezione esclusiva che gli ebrei rifiutano l’idea che Dio possa far discendere un Libro su un popolo estraneo all’elezione: «Che pessimo baratto han fatto dell’anime loro, rinnegando ciò che Iddio ha rivelato, invidiosi del fatto che Dio rivela la sua grazia a chi Egli vuole di fra i suoi servi» (90).

 

Il rifiuto del popolo eletto

La stessa idea di elezione esclusiva si ritrova all’inizio della terza sequenza (111-121), simmetrica rispetto alla prima: «Dicono (le genti del Libro): “Non entreranno nel Paradiso altro che gli ebrei o i cristiani” Questo è quel che essi vorrebbero! Rispondi loro: “portatene la prova se siete sinceri!”» (111). A cui il Corano risponde subito: «Anzi è chi si dà intero a Dio e fa il bene che avrà la sua ricompensa presso il Signore» (112). Detto altrimenti: la salvezza è accessibile a chiunque si sottometta a Dio e agisca bene. Non è riservata alle genti del Libro. È ancora quanto esprime un versetto centrale di questa terza sequenza: «A Dio appartiene l’oriente e l’occidente, e ovunque vi volgiate ivi è il volto di Dio» (115).

Il fatto di trovare la stessa idea d’elezione esclusiva degli ebrei o delle genti della Scrittura al centro della prima sequenza e all’inizio della terza risponde a una procedura molto corrente nella retorica semitica per mettere in rapporto due insiemi testuali animati da una stessa idea. In questo caso, tale procedura indica che la pretesa delle genti del Libro all’elezione esclusiva è al cuore del dibattito della sezione.

La seconda sequenza, quella centrale (104-110), comincia con una piccola parte letterariamente coerente (104-106) e contiene il famoso versetto 106. Eccone il testo:

 

104 O voi che credete! Non dite rā‘ina, ma piuttosto unzurnā! Ascoltate questo ammonimento, ché agli empi toccherà castigo cocente!

105 Quelli fra le gente del Libro che non credono, e i pagani, non amano che il Signore vostro vi elargisca de’ suoi favori; ma Dio trasceglie nella Sua misericordia chi Egli vuole e Dio ha grazia grande.

106 Non abrogheremo, né ti faremo dimenticare, alcun versetto senza dartene uno migliore od uguale: non sai dunque che Iddio è onnipotente?

Se alcuni commentatori hanno ben visto il legame tra i versetti 105 e 106, bisogna tuttavia aggiungere anche il versetto 104, che prescrive appunto la sostituzione di una dichiarazione con un’altra. I due verbi all’imperativo, rā’ina e unzurnā, (traducibili con “favoriscici” e “guardaci”) hanno creato alcune difficoltà tanto ai commentatori antichi quanto agli orientalisti moderni. Tenuto conto del contesto più ampio segnalato prima, che rifiuta l’idea di un’elezione esclusiva, Geneviève Gobillot riprende e commenta così la traduzione di Denise Masson: «O voi che credete, non dite: “Favoriscici (in quanto popolo eletto)!”, ma dite: “Guardaci (abbi pietà di noi)” e ascoltate». Il Corano sembra qui riferirsi a una formula che gli ebrei utilizzano attingendola al loro Libro, per correggerla con una preghiera più universale d’implorazione della misericordia divina. Il Corano respinge l’idea del popolo eletto, perché essa impedisce a ebrei e cristiani di ammettere che il “favore” di Dio possa estendersi anche a un altro popolo, secondo il significato proprio del versetto seguente (105) citato qui sopra. Viene infine il versetto 106, secondo il quale Dio, con la sua parola comunicata al Profeta, può “migliorare” il testo della Bibbia, rendendolo più universale. L’affermazione dell’universalità del regno di Dio segue peraltro immediatamente, al versetto successivo (107), che occupa il centro della sequenza centrale, e dunque il centro di tutta la sezione 87-121: «Non sai che a Dio appartiene il regno dei cieli e della terra e che voi non avete protettore ed amico altri che Dio?»

Riassumendo quindi quanto detto, l’analisi letteraria del contesto ampio del versetto 2,106 mostra senza ombra di dubbio che non vi è modo di rilevare un problema interno al Corano che dia luogo a una dichiarazione divina circa l’abrogazione di alcuni versetti coranici da parte di altri versetti. La questione attiene solamente a una polemica con gli ebrei o con le genti del Libro, a cui è rimproverato di non credere al Corano in ragione della loro convinzione, contenuta nei loro Libri, di essere gli unici a godere di un’elezione divina. Secondo le genti del Libro, Dio non può avere inviato un profeta al di fuori del popolo eletto. Non soltanto le genti del Libro non credono al Corano e al Suo Profeta, ma cercano anche di traviare i credenti (musulmani): «A molti della Gente del Libro piacerebbe farvi tornar miscredenti dopo che voi avete accettato la Fede, per l’invidia che nasce loro nell’animo allorché vedono manifesta la verità (il Corano)» (109). Il Corano, da parte sua, respinge l’idea di un’elezione esclusiva e afferma vigorosamente la presenza e l’azione universale di Dio. Ecco perché esso “corregge” le parole esclusiviste delle genti del Libro attinte alla Bibbia, per sostituirle con una formula più universale.

A questo proposito, aggiungiamo alcune notazioni sul rapporto tra il Corano e la Bibbia, così come questo è espresso sempre nella sezione che abbiamo analizzato qui. La sezione comincia con l’affermazione chiara che la Bibbia è stata data da Dio: «In verità noi demmo a Mosè il Libro e gli facemmo successivamente seguire gli altri Messaggeri, e demmo a Gesù figlio di Maria prove evidenti e lo confermammo con lo Spirito di Santità» (87). Nei versetti seguenti, il Corano afferma inoltre, e per quattro volte, di «confermare» o che il profeta di Dio «conferma» il libro posseduto dagli ebrei (89, 91, 97, 101). Almeno è in questo modo che le traduzioni rendono generalmente il termine musaddiqan. Geneviève Gobillot fa tuttavia notare che la forma verbale utilizzata in questo participio attivo consente una sfumatura diversa: «si tratta di “rendere vero”, di “far emergere la verità di” (letteralmente: “far essere vero”) e non semplicemente di “dichiarare autentico”. Così, il Corano intende talvolta confermare e talaltra (come qui) far emergere la verità dalle Scritture precedenti, ciò che è del tutto diverso»[7]. Questa traduzione è in ogni caso perfettamente consonante con il senso dell’abrogazione, così come ci è stata manifestata dall’analisi letteraria. “Correggendo” (abrogando) il testo della Bibbia, il Corano intende farne emergere il senso autentico, quello vero.

 

Una teoria infondata

Concludiamo dicendo che nulla consente di fondare la teoria dell’abrogazione elaborata dal diritto musulmano (fiqh) sul versetto 2,106. Quest’ultimo non riguarda l’abrogazione del Corano da parte di se stesso. Non significa neppure l’abrogazione pura e semplice della Bibbia, sostituita dal Corano, come hanno pensato alcuni commentatori, ma soltanto la correzione di alcuni passaggi (āyāt) della Bibbia da parte del Corano, come, per esempio, i versetti che esprimono un’elezione riservata alle genti del Libro, i quali rendono difficilmente accettabile l’idea che un profeta possa essere inviato al di fuori della loro comunità.

Nella nostra panoramica storica sulla questione, è dunque l’interpretazione del mu‘tazilita Abū Muslim Ibn Bahr, citata prima, ad avvicinarsi maggiormente alla nostra interpretazione, frutto di un’analisi letteraria moderna.

Il controsenso è dunque totale quando questo versetto, in ragione di un’interpretazione tradizionale manifestamente erronea, è oggi sfruttato da alcuni per abrogare tutti i versetti tolleranti e aperti del Corano, a vantaggio dei versetti più militanti ed esclusivisti (che occorrerebbe collocare una volta per tutte in un contesto storico ormai passato), mentre il versetto mira proprio all’abrogazione di versetti biblici percepiti come esclusivisti, per sostituirli con altri, più universali. Ma si potrà deplorare che l’esegesi tradizionale scorretta di questo versetto abbia potuto rendere possibile un tale abuso del Corano. E questo rimanda al grande dibattito attuale, all’interno dell’Islam, sulla riforma del “discorso religioso” (al-khitāb al-dīnī).

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

Note

[1] Citato da Fakhr al-Dīn al-Razī nel suo commentario del versetto in questione. Si veda Geneviève Gobillot, L’abrogation selon le Coran à la lumière des homélies pseudo-clémentines, in Mehdi Azaiez e Sabrina Mervin (a cura di) Le Coran. Nouvelles approches, CNRS Editions, Paris 2013, pp. 211 e 238.

[2] N.K. Singh & A.R. Agwan (a cura di), Encyclopedia of the Holy Qur’ân, Global Vision Publishing Hourse, Delhi 2000, p. 34.

[3] Amīn Ahsan Islāhī, Tadabbur-e-Qur’ân, Pondering over the Qur’ân, I, Islamic Book Trust, Kuala Lumpur 2007, p. 308.

[4] Ahmad Hasan, The Theory of naskh, «Islamic Studies» 4 (1965), n. 2, p. 189.

[5] Si veda lo studio di questo termine in Anne-Sylvie Boisliveau, Le Coran par lui-même. Vocabulaire du discours coranique autoréférentiel, Brill, Leiden-Boston 2014, pp. 76-82.

[6] Si veda un’analisi più dettagliata in Michel Cuypers, Le verset de l’abrogation (2,106) dans son contexte rhétorique¸ in Mehdi Azaiez e Sabrina Mervin (a cura di) Le Coran. Nouvelles approaches, pp. 307-328.

[7] Geneviève Gobillot, L’abrogation selon le Coran, p. 22.

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Michel Cuypers, Il Corano contraddice se stesso?, «Oasis», anno XII, n. 23, giugno 2016, pp. 47-54.

 

Riferimento al formato digitale:

Michel Cuypers, Il Corano contraddice se stesso?, «Oasis» [online], pubblicato il 21 giugno 2016, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/il-corano-contraddice-se-stesso.

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