Una settimana di notizie e analisi dal Medio Oriente e dal mondo musulmano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:02:15

Lunedì 7 settembre 297 migranti rohingya che vagavano in mare da mesi sono stati portati in salvo in Indonesia, a Lhokseumawe, nella parte occidentale del Paese. Secondo quanto spiega Amnesty International, non è il governo indonesiano a occuparsi dei salvataggi, ma imbarcazioni private di pescatori. Anche a giugno i pescatori della regione avevano salvato un centinaio di rohingya, i quali, in fuga dal Myanmar per evitare le persecuzioni e dal Bangladesh per sfuggire ai campi profughi, cercano rifugio in altri Paesi del Sud-Est asiatico, spiega il Guardian.

 

I migranti erano stati respinti dalla Malesia e dalla Thailandia, ragione per cui da circa sei mesi si trovavano al largo. I profughi portati in salvo lunedì erano probabilmente salpati dal Bangladesh meridionale a fine marzo o inizio aprile ed erano diretti in Malesia. I trafficanti di esseri umani che gestiscono questi viaggi avevano diviso i migranti in più imbarcazioni: alcuni erano riusciti quindi a sbarcare a giugno, altri sono rimasti in mare fino a lunedì mattina, ha raccontato a Reuters Chris Lewa, direttore dell’Arkan Project, un’organizzazione no profit che si occupa della crisi umanitaria dei rohingya.

 

Anche Indrika Ratwatte, direttore della sezione dell’UNHCR per l’Asia e il Pacifico, ha confermato la versione e ha detto che «il gruppo ha tentato più volte di sbarcare per oltre 200 giorni, senza successo» e che «l’inazione degli ultimi sei mesi è stata fatale». Alcuni profughi hanno infatti riferito che decine di persone sono morte durante il viaggio.

 

Due disertori dell’esercito del Myanmar (conosciuto come Tatmadaw) lunedì sono stati trasferiti all’Aia, dove la Corte penale internazionale ha aperto un caso sui crimini commessi dal Tatmadaw contro la minoranza musulmana dei rohingya, scrive il New York Times. In una video testimonianza i due soldati hanno riferito gli ordini ricevuti dai loro superiori: «Sparate a tutto ciò che vedete o sentite»; «Uccidete tutti i rohingya», e hanno poi parlato delle atrocità commesse dall’esercito: esecuzioni sommarie, sepolture di massa, villaggi rasi al suolo, stupri. Non è ancora chiaro quale sarà il destino dei due soldati, ma la loro è sicuramente una testimonianza importante perché viene dalla parte degli esecutori, non da quella delle vittime.

 

Il South China Morning Post spiega che il video non ha potuto essere verificato indipendentemente dalle agenzie di stampa internazionali, ma le dichiarazioni dei due disertori sono coerenti con le indagini e le inchieste dei gruppi che si occupano di giustizia e diritti umani in Myanmar, da dove, dall’agosto 2017 sono scappati più di 700.000 rohingya, ai quali viene negata la cittadinanza, la libertà di movimento e una serie di basilari diritti umani.

 

Israele: il divorzio tra Netanyahu e gli ultraortodossi

 

La situazione legata alla pandemia da coronavirus in Israele sembra peggiorare. Dal 18 settembre sarà probabilmente imposta una nuova chiusura totale, dopo che per due giorni si sono registrati più di 4.000 nuovi casi giornalieri di COVID-19. La decisione, proposta da una commissione di pochi esperti, dovrà essere approvata dal governo e coprirà due settimane di festività religiose.

 

Negli ultimi mesi Netanyahu è stato fortemente criticato per la sua gestione della pandemia, soprattutto dalla comunità ultraortodossa, e nei giorni scorsi ci sono state diverse discussioni sulla possibilità di isolare solamente le comunità arabe e ultraortodosse, dove si registrano la maggior parte dei casi. È facile immaginare che se dovesse venire approvata in via definitiva l’imposizione di un nuovo lockdown queste tensioni a livello interno sarebbero ulteriormente esacerbate e Netanyahu, che finora è stato in grado di unire a più riprese le diverse anime di Israele, rischierebbe di perdere un appoggio importante al suo governo. Soprattutto considerando che secondo le ultime valutazioni, per abbassare significativamente il numero di nuovi contagi, servirebbe una chiusura totale ben più lunga di due settimane.

 

Infine, la scelta delle date della probabile chiusura non è casuale, perché garantisce a Netanyahu il tempo di volare a Washington e fare ritorno. Il primo ministro israeliano si recherà nella capitale americana il 15 settembre per firmare l’accordo vero e proprio con gli Emirati Arabi Uniti mediato dagli Stati Uniti. Finora infatti non sono stati stabiliti i dettagli dell’accordo, mentre un discorso a parte va fatto per la vendita degli F-35 agli Emirati Arabi Uniti: Abu Dhabi li vorrebbe e Trump, a differenza di Netanyahu, non è contrario. Bloomberg scrive che molto probabilmente, impossibilitato a fermare l’acquisto, Israele «chiederà alla Casa Bianca altre armi in modo da poter mantenere la sua superiorità militare nella regione».

 

In un paragrafo

 

Le continue accuse di blasfemia in Pakistan

 

Continuano le accuse di blasfemia nei confronti dei cristiani in Pakistan. Asif Pervaiz, un uomo di 37 anni che lavorava in un calzaturificio e che era in custodia dal 2013, è stato condannato a morte da un tribunale di Lahore, riporta Al Jazeera. Una vicenda drammatica che ricorda quella di Asia Bibi, recentemente intervistata da Aiuto alla Chiesa che soffre, e che aveva messo in evidenza come i cristiani non siano minimamente tutelati contro le false accuse di blasfemia nei loro confronti. Pervaiz, la cui vicenda è stata riportata anche da Deutsche Welle, è stato accusato da un suo superiore, al quale avrebbe inviato dei «messaggi blasfemi». Pervaiz sostiene invece di essere stato tacciato di blasfemia per aver rifiutato la conversione all’Islam, alla quale l’avrebbe costretto il suo capo. Secondo la United States Commission on International Religious Freedom, in Pakistan almeno 80 persone si trovano in prigione per accuse di blasfemia e circa la metà sono state condannate all’ergastolo o alla pena di morte. La maggior parte sono musulmani (che formano il 98% della popolazione), ma la legge sulla blasfemia colpisce in maniera sproporzionata anche i cristiani e gli indù, sovra rappresentati nelle carceri nonostante siano minoranze.

 

Le catastrofiche alluvioni in Sudan

 

Il Sudan ha dichiarato tre mesi di stato di emergenza per cercare di far fronte alle alluvioni che hanno devastato il Paese e finora hanno ucciso almeno un centinaio di persone. Il Nilo è straripato nel punto in cui si uniscono i due bracci principali, il Nilo blu e il Nilo bianco, demolendo ogni cosa. Scrive Al Jazeera che «le inondazioni hanno finora colpito più di mezzo milione di persone e causato il crollo totale e parziale di più di 100.000 case in almeno 16 stati sudanesi». Le autorità hanno stanziato dei fondi per affrontare l’emergenza, cercando di intervenire anche in difesa dei siti storici del Paese, ma il livello delle acque del Nilo continua a crescere ed è facile immaginare ulteriori danni considerato che la stagione delle piogge in Sudan solitamente dura fino a ottobre.

 

Iraq: ritiro dei soldati americani, ma lo Stato islamico non è sconfitto

 

Gli Stati Uniti ritireranno migliaia di truppe dall’Iraq e dall’Afghanistan entro novembre, in linea con le promesse fatte dal presidente Trump durante la scorsa campagna elettorale. In particolare in Iraq il contingente americano passerà dalle 5.200 alle 3.000 unità, e la decisione, comunicata mercoledì dal generale Frank McKenzie, a capo delle forze americane in Medio Oriente, arriva in un momento delicato per i rapporti tra Casa Bianca ed esercito. Trump infatti è sotto accusa per le sue affermazioni riportate dall’Atlantic, secondo cui il Presidente avrebbe detto che i soldati deceduti in guerra sono dei perdenti. Il New York Times fa notare che, se da una parte i contingenti coinvolti nelle «guerre senza fine» sono stati ridotti, circa 14.000 soldati sono stati invece schierati in vari Paesi del Golfo negli ultimi due anni per far fronte alle provocazioni iraniane. Inoltre, il ritiro delle truppe non sembra arrivare in un buon momento nemmeno per l’Iraq, visto che «lo Stato islamico in Iraq è ancora in grado di condurre una campagna di attacchi a basso contenuto tecnologico, a basso costo, in gran parte rurale e letale […] Anche se l’ISIS non ha effettuato attacchi della stessa portata di qualche anno fa, il numero di attacchi ha iniziato a crescere anche quest’anno».

 

In una frase

 

Utilizzando materiale finora inedito un’inchiesta del New York Times ha ricostruito i passaggi che hanno portato all’esplosione di Beirut del 4 agosto (New York Times).Un ulteriore incendio, scoppiato in circostanze simili a quelle dell’esplosione, si è verificato nella zona del porto giovedì (Washington Post).

 

Dopo la visita di Di Maio in Libia dei pescherecci italiani sono stati sequestrati dalle forze libiche; l’intervista del Foglio al ministro degli Esteri (Il Foglio).

 

Domenica scorsa in Tunisia si è verificato un attacco nella città di Susa, poi rivendicato dal sedicente Stato islamico; un ufficiale della Guardia nazionale è rimasto ucciso e un altro ferito (Al Jazeera).

 

Per l’assassinio di Jamal Khashoggi sono state condannate alcune persone dei servizi di sicurezza sauditi, ma a livello internazionale il processo continua ad apparire come una farsa (Le Monde).

 

Il ministro degli Esteri turco giovedì 10 settembre è volato in Mali, dove ha parlato con il Comitato nazionale per la salvezza del popolo (che ha preso il potere dopo aver deposto l’ex presidente Ibrahim Boubacar Keita) e altri rappresentati diplomatici (Ministero degli Esteri turco).

 
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