Dopo le sommosse e i gravi episodi di violenza anticristiana della primavera, nelle classi dirigenti del Paese cresce la consapevolezza della necessità di una svolta: non basta più semplicemente "ricucire" gli strappi, come troppo spesso è accaduto in passato.

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:51:21

«Gli ultimi cristiani che vivono sulle rive del Nilo sono vittime di aggressioni via via più minacciose da parte dei radicali musulmani. Reportage e testimonianze inquietanti», scrive un giornalista occidentale in seguito ai recenti incidenti interreligiosi occorsi ad Alessandria nell'aprile del 2006 [«Le Figaro Magazine», 20 maggio 2006]. Il titolo dell'articolo Egitto: i copti hanno la fede dei disperati d'altra parte rende bene il tono di quel che si scrive spesso sui cristiani d'Oriente. Vi è in ciò un'innegabile semplificazione e una pigrizia di pensiero, come rivelano un'analisi più dettagliata di quel che si è verificato in Egitto nel corso degli ultimi mesi e l'eco suscitata nel Paese dagli avvenimenti. È quanto ha voluto esprimere il nuovo Patriarca copto-cattolico di Alessandria, Sua Beatitudine Mons. Antonios Naguib, quando, ricevuto all'Eliseo dal Presidente Chirac in occasione dei centocinquanta anni dell'œuvre d'Orient, ha dichiarato di percepire, nell'atteggiamento delle autorità egiziane, «un cambiamento molto chiaro», che va nel senso di una presa di coscienza e di una denuncia del fanatismo religioso. Vediamo i fatti. Venerdì 14 aprile, un uomo munito di due coltelli fa irruzione nella chiesa Mar Girgis di Alessandria, una chiesa copto-ortodossa. Sale al primo piano, attacca un operaio edile che stava effettuando lavori di restauro, prima di accanirsi su due altri fedeli. I tre uomini sono ricoverati in ospedale, il primo in condizioni critiche. L'assalitore si reca allora in un'altra chiesa dello stesso quartiere, la chiesa detta "dei Santi" e si scaglia contro i fedeli in preghiera. Bilancio: un morto, Noshi Atta Girgis, di settantotto anni, e due feriti. La polizia, avvertita, è appena intervenuta quando si viene a sapere che l'assalitore, un giovane di venticinque anni, Mahmoud Salaheddine Abdel-Razq, si accinge ad attaccare una terza chiesa, quella della Santa Vergine. Non sarà arrestato che in una quarta chiesa, quella nel quartiere vicino allo Sporting. L'emozione suscitata nella comunità copta dai drammatici eventi viene amplificata da una dichiarazione del Ministero dell'Interno che assicura che l'attentatore è uno squilibrato mentale. «Non siamo convinti di questa spiegazione. È una scusa per archiviare la faccenda, noi vogliamo conoscere le vere cause che si nascondono dietro gli attacchi di cui è bersaglio la nostra comunità», dichiara un cristiano del quartiere, rispecchiando il comune sentire. Così, l'indomani e il giorno dopo ancora, che coincide con la Pasqua ortodossa, centinaia di giovani copti scendono in strada, incendiano le automobili, saccheggiano i negozi per esprimere la loro rabbia. I musulmani reagiscono e il bilancio è pesante: un morto tra i musulmani, una cinquantina di feriti, numerosi arresti. «Il Ministero dell'Interno ci ripete ogni volta la stessa cosa: si tratta di un folle e basta dichiara alla stampa un giovane copto del quartiere Vogliamo la verità, nient'altro che la verità. Se la polizia non è capace di proteggerci, allora noi, i giovani della chiesa Mar Girgis, ci difenderemo da soli». Scendono in piazza gruppi di autodifesa; la polizia, da parte sua, stabilisce una rigida vigilanza dei luoghi di culto cristiani. La denuncia immediata di questi incidenti al più alto grado dello Stato non basta a ridurre la tensione. Anche molti musulmani sono a disagio: l'Egitto si trova a vivere un grave incidente che mette in gioco l'unità nazionale. L'intensità dell'emozione si spiega in parte col fatto che non si tratta di un episodio isolato. Già nell'ottobre del 2005, Alessandria era stata teatro di scontri a carattere confessionale: un candidato copto alle elezioni politiche era stato costretto a rinunciare a presentarsi per lasciare il posto a un candidato dei Fratelli Musulmani, che sembravano aver fomentato violente manifestazioni anti-cristiane, col pretesto della diffusione di un cd giudicato offensivo per la religione musulmana. Si trattava, in effetti, di un vecchio cd, a quanto pare tirato fuori per l'occasione. Qualche mese prima, nel dicembre 2005, era stato l'affare Wafaa Constantine ad alimentare la cronaca: i copti erano scesi in strada per parecchi giorni accusando i musulmani di aver prelevato questa donna ingegnere, sposata a un prete ortodosso, per indurla, sotto costrizione, a convertirsi all'Islam. A qualche settimana da quel fatto, nel febbraio 2006, sono due giovani ragazze copte a scatenare la folla, comunicando il loro progetto di convertirsi all'Islam, cosa che accade molto spesso in Egitto per ragioni di matrimonio. In ogni caso, i fatti sono difficili da stabilire, tanto la suscettibilità è a fior di pelle, da una parte e dall'altra. Talvolta, ahimè, i fatti sono molto chiari, come quelli dei massacri di el-Kocheh nel 1999, dove le sommosse anticristiane fecero venticinque morti, il che aveva allora spinto il Governo a mettere in atto una procedura per regolamentare il passaggio all'Islam, che è uno dei punti difficili nella coabitazione tra cristiani e musulmani. Spesso tutto comincia da un incidente di vicinato, da una lite per un terreno o per la reputazione di una ragazza; a poco a poco gli animi si scaldano, saltano fuori le armi (numerose in Alto Egitto) e si arriva a degli atti di violenza in cui la religione serve da pretesto. Il popolo egiziano non è un popolo estremista, la reazione abituale delle autorità pubbliche e religiose è di cercare di placare gli animi, richiamando il sentimento di unità nazionale di tutti gli egiziani. Il Papa Shenouda e il grande Imam, shaykh di al-Azhar, comparendo insieme in televisione, tengono discorsi conciliatori, si procede a qualche arresto spettacolare e ci si ferma là. In realtà, il ripetersi degli incidenti, aggiungendosi a una reale discriminazione della minoranza copta nella vita politica del paese, contribuisce a creare un clima di inquietudine, anzi di psicosi. Da cui le proteste di massa ad Alessandria dopo i recenti incidenti. Un Tabù Infranto: il Silenzio È interessante analizzare da vicino le reazioni della stampa egiziana in seguito ai drammatici eventi verificatisi ad Alessandria. Molti, cristiani e musulmani, hanno questa volta riconosciuto che una rabberciatura di superficie non basta più. Così Mohamed Salmawy, redattore-capo di al-Ahram Hebdo, ha scritto il 3 maggio 2006: «Gli attentati di Alessandria che hanno preso di mira i fedeli di tre chiese non possono più essere considerati come un atto isolato, anche se il loro autore è un criminale che ha agito da solo. L'importante qui non è il numero delle persone che hanno perpetrato il crimine, ma l'esistenza nella società di una corrente che ha preparato il terreno a questo crimine». Certo, il campanello d'allarme era stato suonato da molto tempo, in particolare dai responsabili cristiani, ma questa volta la presa di coscienza sembra particolarmente forte, in orizzonti e ambienti molto diversi della società egiziana. Curioso cambio di rotta, in un momento in cui il movimento "vietato ma tollerato", dei Fratelli Musulmani ha da poco raggiunto un numero importante di seggi alle elezioni politiche dell'autunno 2005. Mohamed Salmawy aggiunge: «Il ripetersi a casa nostra di queste azioni deplorevoli, compresi i recenti avvenimenti di Alessandria e le ricadute che ne conseguono, dimostra che noi tutti abbiamo una responsabilità da assumere, che gli autori siano individui o gruppi. La responsabilità è della società che ha prodotto agli inizi degli anni '70 dell'ultimo secolo un certo fanatismo religioso, mai conosciuto prima. La negligenza di cui abbiamo fatto esperienza a questo riguardo a livello politico e sociale non ha fatto che aggravare il fenomeno, al punto che esso ha raggiunto lo stadio di crimine». Nelle ultime settimane questo genere di discorso lo si poteva ascoltare in diversi ambienti egiziani, come se si fosse infranto un tabù in seno a un popolo piuttosto pacifico: il tabù del silenzio. L'editorialista di al-Ahram Hebdo va oltre, invitando gli egiziani ad «affrontare il problema a partire dalle sue radici». Ai suoi occhi ci sono tre questioni, fondamentali: l'insegnamento: «contribuisce a far nascere una nuova generazione che creda nel diritto di cittadinanza per ogni egiziano, senza troppo soffermarsi sulla religione dell'altro, o acutizza le differenze di religione che separano le due componenti della nazione?». Salmawy mette il dito su una delle grosse carenze della società egiziana attuale: un insegnamento alla deriva, a causa dell'esplosione demografica e della mancanza di motivazione di insegnanti sotto-pagati, che costituisce un terreno favorevole per la diffusione di ideologie ristrette e pericolose. «Ai nostri tempi, aggiunge l'autore, imparavamo lo spirito della religione prima di apprenderne le pratiche, mentre oggi l'insegnamento religioso conosce solo i riti che, una volta svuotati del loro contenuto, diventano ostili allo spirito della religione»; i media: «Qual è il messaggio dei media dopo l'inizio degli anni '70? Non sono stati forse i media ufficiali, costruiti da certi predicatori, a trasformare la nostra sublime religione in una farsa che influenza milioni di spettatori?». Il discorso può sembrare duro, ma è provato che la televisione e, più recentemente, internet e i cd venduti a basso prezzo, sono un potente veicolo di diffusione di ideologie retrograde, provenienti per lo più dall'Arabia Saudita; «La responsabilità dell'istituzione religiosa è fondamentale per l'aggravarsi del fenomeno del fanatismo religioso», continua Salmawy. Ricordando che al-Azhar si era pronunciata contro la distruzione delle statue di Buddha da parte dei Talebani dell'Afghanistan, domanda: «Come ha reagito al-Azhar di fronte al fatto che una persona tra noi ha ucciso un essere umano per la semplice e buona ragione che non apparteneva alla sua religione? Al-Azhar serberà il suo mutismo... emetterà un comunicato denunciante l'accaduto, o rivedrà il suo messaggio retrogrado che ci ha portato alla stato deplorevole in cui viviamo?». Il discorso è crudo, ma è vero che la rincorsa giuridica alla quale si abbandonano gli ulema lascia spesso perplessi: non c'è di meglio da fare, per esempio, che condannare la fabbricazione di statue, come ha fatto il Gran Mufti d'Egitto il 31 marzo 2006? «L'essenziale non è sapere se è un folle oppure no ad aver commesso gli attentati di Alessandria», conclude Salmawy. «Sfortunatamente i motivi malati che hanno condotto il criminale a commettere il suo crimine non sono suoi esclusivi. Essi sono sparsi tra i membri della nostra società...». Nelle ultime settimane questo punto di vista è comparso molto abbondantemente nella stampa egiziana, compresa la stampa arabofona. Così, la rivista October ritiene che «il linguaggio della predicazione classica utilizzato in modo massiccio nelle moschee e soprattutto nelle zone popolari, rimane un linguaggio troppo pervaso di aggressività e che incita a considerare i non-musulmani in modo negativo. Si tratta spesso di incitare la massa, alla pietà certamente, ma troppo spesso blandendo la sua tendenza all'intolleranza» [«October», n. 1540, aprile 2006]. Ibrahim al Naggar, del Centro di studi politici e strategici di al-Ahram, va nella stessa direzione e gli esempi si potrebbero moltiplicare. Una Sfida per Tutti gli Egiziani Denunciare la crescita dell'intolleranza religiosa in Egitto è un passo importante ed è una fortuna che a farlo siano musulmani illuminati, ma conviene sviluppare un'analisi più sfumata di questa realtà sociale molto complessa che è la convivenza di due comunità religiose. Altre situazioni stanno a dimostrare che una minoranza può avere il suo spazio e giocare un ruolo dinamico e costruttivo. È chiaro che l'attualità internazionale non contribuisce affatto a placare gli animi, soprattutto quando il presidente degli Stati Uniti giustifica le sue mire egemoniche parlando di «Crociata contro il male». Quando i più alti responsabili dello Stato lanciano slogan come «Noi siamo tutti egiziani, un solo popolo da secoli», ciò riposa su una percezione molto giusta dei sentimenti popolari. Ma questo dovrà un giorno tradursi nell'emergere di uno Stato laico, svincolato dagli influssi eccessivi del sacro, che consenta a ciascuno di essere uguale di fronte alla legge. Certi leader politici egiziani hanno evocato questo tema dello Stato laico nel corso delle ultime settimane. Peraltro, non si dovrebbero più passare sotto silenzio le provocazioni di certi circoli copti, soprattutto quelli della diaspora, che montano gli incidenti e scaldano gli animi, già troppo inclini alla paranoia, dal momento che vivono spesso in una sorta di ghetto culturale. Come non ammettere che molti dei copti di Egitto si dilettano ascoltando un prete ortodosso, Abuna Zachariah, che trasmette dall'estero sul canale al-Hayat discorsi molto offensivi per il sentimento religioso musulmano? La gerarchia copta dovrebbe interrogarsi anch'essa su certi discorsi tenuti ai fedeli. Ci sono certo rivendicazioni legittime: non è normale, per esempio, che in occasione delle ultime elezioni politiche non ci sia che un solo deputato copto eletto su 444 seggi all'Assemblea Nazionale, quando il paese conta intorno ai sei milioni di cristiani, ossia, dall'8 al 10% della popolazione. D'altra parte ciò ha condotto il Presidente Moubarak a nominarne altri cinque per equilibrare un po' le cose. Ma si può continuare a dire, come si sente talvolta affermare, che i veri abitanti dell'Egitto sono i copti, che hanno dato il nome al paese (Aegyptos), con il sottinteso che gli arabi musulmani sarebbero degli intrusi, mentre per la maggior parte sono di origine copta? La vera sfida è in realtà voler vivere insieme e imparare giorno per giorno a gustare la diversità delle culture. Alcuni vi si adoperano già nel quotidiano, nelle scuole, le ONG, le associazioni di cittadini. Ci sono certo dei luoghi dove si può imparare a vivere con l'altro, come si è fatto per secoli in Egitto, come ama ricordare lo scrittore copto Milad Hanna. Invece di ripetere continuamente che il solo avvenire dei cristiani è l'esilio, tesi spesso accreditata dagli osservatori occidentali, perché non affrontare insieme i grandi problemi che sono la povertà, l'analfabetismo, la promozione della donna? Ciò offrirebbe agli egiziani occasioni uniche per sperimentare l'arricchimento proveniente dalla loro differenza. Il sogno è che cristiani e musulmani si dicano che hanno qualche cosa da imparare reciprocamente, nella esperienza di Dio, della preghiera, della compassione. Per questo è necessaria una conversione del cuore. Lo spirito evangelico incita i cristiani a fare il primo passo.