Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:40:31

Per i centocinquanta bambini trai due e i dieci anni che scorrazzano liberi per il campo, quello è un posto allegro, essenziale certo, ma spassoso. A loro non importa troppo se non possono cambiarsi l’abito, sono concentrati a giocare, pitturarsi il volto e trovarsi con i compagni di avventura. I loro occhi sono pieni di voglia di vita, almeno tanto quanto quelli delle loro madri sono vuoti, smarriti in un mare di desolazione. La vita nel campo dei rifugiati siriani che si trova nella periferia di Zahle, pochi chilometri a est del confine tra Libano e Siria nella regione della Bekaa, un luogo di miseria assoluta: duecento famiglie si sono rifugiate qui, la maggior parte giunge dalla periferia di Homs. Il dramma della fuga dalle bombe e dai rapimenti approda qui, nella terra battuta, tra le baracche di stracci e cartoni improvvisate da chi un po’ alla volta è arrivato. Se d’estate il problema principale è difendersi dal sole, già ai primi giorni di settembre il freddo della notte comincia a farsi sentire e fa presagire quello che sarà trascorrere qui il prossimo inverno. Il volto di Rasha, 26 anni, è fermo, di porcellana, incorniciato dal nero di un velo stretto che si confonde con l’abito che indossa. Non trapela alcuna emozione, solo dalla sua voce si coglie come la sua giovinezza si sia inceppata di fronte a un futuro incerto: suo marito è stato ucciso nei bombardamenti di Homs, lei ha preso i suoi due figli ed è scappata con la famiglia del cognato. La sua casa non esiste più, è stata ridotta in macerie. Ora è là, nel campo dei profughi, che aspetta. Aspetta che faccia sera, che finisca la guerra. Questo il punto: la guerra potrebbe durare mesi o anni, una scadenza non c’è, mentre lei intanto può solo attendere gli aiuti della Caritas che arrivano puntuali per mano di volontari e degli operatori. Condividono il viaggio di Rasha in questo mondo sospeso centinaia di altre persone. Le loro baracche sono dotate solo di alcuni materassini buttati per terra, qualche piatto e pentola per cucinare, una frammento di specchio attaccato alla parete, qualche pupazzo dei bambini... Tra una tenda e l’altra stanno alcune taniche di acqua per il servizio comune e forse a breve arriveranno dei pannelli solari per dotare il campo di elettricità. Ma non è solo qui la realtà dei profughi di Siria. Sarebbe troppo semplicistico ridurre tutta la complessità della questione a un monolite. Ogni storia, ogni persona che ha passato il confine, porta con sé un fardello unico che non si può assimilare agli altri. Il Paese li accoglie di fatto, anche se non esistono campi ufficiali per i Siriani. L’UNHCR li registra, ma molti preferiscono restare nell’ombra per paura di ritorsioni. La Caritas Libano e Migrantes cerca di accompagnarli, caso per caso, per come riesce. Nell’edificio di una scuola elementare del villaggio di Dayr Zanoun, sempre nella Bekaa, sono state sistemate venti famiglie di Aleppo. Queste hanno almeno trovato un tetto e quattro pareti di pietra, l’acqua corrente e la luce per due ore al giorno. Ma l’agitazione tra loro è totale, quasi assalgono l’assistente sociale della Caritas che spiega loro che tra pochi giorni deve iniziare la scuola e gli spazi devono essere liberati. Mentre distribuiscono le scatole di generi alimentari, i volontari sono subissati dalle proteste dei rifugiati: non accettano di essere spediti via da quella scuola come dei pacchi, chiedono che i loro diritti siano rispettati, pretendono attenzione, soccorso, che gli sia trovato un posto dignitoso... Il direttore della scuola si muove preoccupato trai locali, sembra contare i danni dovuti a questi ospiti ingombranti: le aule sono divenute camere da letto e cucine insieme, le lavagne reggono spazzole per capelli e sapone, i banchi sono tutti ammassati in un ripostiglio, mentre i piccoli mangiano il riso seduti per terra e il giardino è utilizzato come servizio igienico. Un giovane padre di tre figli, nel suo camicione lungo, falegname di mestiere, spiega che ha lasciato la Siria perché rischiava come suo fratello di sparire. Del fratello non ha più notizie, lo cerca, ma non è facile capire cosa stia accadendo nella sua patria. Ma almeno ha salvato la vita di sua moglie e dei suoi tre bambini. Non appena la situazione si sarà calmata, faranno ritorno a casa. Ma quando non si sa: anche solo riuscire ad avere notizie sulla situazione è un impresa. La vita è bloccata tra i giorni di violenza lasciati alle spalle, un domani tutto nebuloso e un presente misero, senza lavoro, senza impegno, a contatto troppo ravvicinato con altre persone,non scelte, in un’intimità forzata. Ci sono anche lungo i villaggi del confine e nelle grandi città dei profughi più fortunati, che sono riusciti a trovare una casa e riescono a pagare l’affitto di 200 o 250 dollari al mese. Possono permetterselo perché almeno un componente della famiglia ha trovato lavoro, soprattutto nelle campagne della Bekaa. Sono spesso più nuclei famigliari che condividono lo stesso appartamento e il comune dolore. Le case sono vuote, non c’è mobilio, hanno il minimo, si vive quasi per terra. Tra i profughi si incappa anche in storie paradossali, intessute di una riconoscenza e solidarietà che durano nel tempo: una famiglia siriana, in cui la madre non ha più notizie del marito e padre dei suoi quattro figli, si è vista accolta proprio dalla stessa famiglia libanese che aveva a sua volta ospitato anni fa, in Siria, quando aveva lasciato temporaneamente in Libano travolto da una fase di violenza. Nell’intreccio di queste vicende delle vittime della violenza, alle quali il Santo Padre non cessa di rivolgere il suo pensiero e la sua cura, così come di nuovo ha fatto durante il suo viaggio in Libano, è difficile individuare un colpevole, da che parte sono i cattivi e da quale i buoni. I rapimenti, i rastrellamenti dei villaggi, le uccisioni, le distruzioni delle case avvengono per mano di entrambe le parti del conflitto. Ma dai volti di chi è scappato dalla guerra e sta come sull’orlo della disperazione estrema, emerge in modo nitido la richiesta urgente di aiuto, nella quale sta innestata la domanda più radicale sul senso di tutto questo. Il Papa “pellegrino” in questa terra, con la sua presenza e testimonianza, non cessa di indicare nel Crocifisso Risorto la via della risposta.