Intervista con S.E. Henri Teissier, Arcivescovo emerito di Algeri

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:44:02

Come descriverebbe la situazione dell’Algeria oggi? Penso che il ripiegamento sull’identità, araba per qualcuno, berbera per qualcun altro, musulmana per qualcun altro ancora, sia la cifra dell’Algeria attuale. Nei primi anni dopo l’indipendenza si parlava di sviluppo, di formazione universitaria, di occupazione e disoccupazione. Oggi l’interesse principale sembra essere quello di apparire radicati nella propria identità. È un fenomeno che coinvolge tutta la popolazione? Sì, è un fenomeno generalizzato, ma ci sono persone che tentano di lasciare il paese in cerca di nuove speranze. E questo non significa che siano algerini o musulmani peggiori degli altri. Questa situazione ha delle ripercussioni sui rapporti tra cristiani e musulmani? Purtroppo i rapporti sono condizionati dalla situazione globale, che tende a creare una separazione in due campi: quello occidentale, considerato come nemico dell’Islam, e quello islamico. Nella vita concreta però esistono situazioni in cui cristiani e musulmani sono molto vicini e hanno solide relazioni di amicizia. Quindi ci sono casi di dialogo effettivo in Algeria? Sì, e non possiamo immaginare il nostro futuro al di fuori di questa possibilità di dialogo. Ma perché il dialogo continui è necessario dimostrare che i musulmani sono rispettati a livello globale. In caso contrario la nostra situazione diventa difficile. Tra quanto succede in Europa e quanto avviene sulla sponda meridionale del Mediterraneo c’è una forte interdipendenza. Viviamo nel contesto della globalizzazione ed è questo l’orizzonte entro il quale va pensata la relazione tra cristiani e musulmani. Cosa può insegnare l’esempio algerino all’Europa? Non so se l’Algeria possa rappresentare un esempio per l’Europa. È vero, in Algeria esistono da oltre un secolo e nonostante il colonialismo relazioni di fiducia tra molti musulmani e la Chiesa. E queste relazioni resistono malgrado la situazione politica avversa. Ma, come dicevo prima, non si possono isolare degli esempi e riprodurli altrove: la relazione tra cristiani e musulmani va impostata a livello globale. Per venire al tema del Comitato scientifico di Oasis, la tradizione, essa può rappresentare una base per il dialogo o rappresenta piuttosto un ostacolo? La situazione in Algeria è molto cambiata negli ultimi anni. Prima c’era una tradizione non aggressiva. Per esempio era possibile partecipare alle feste degli amici musulmani, essere invitati alla rottura del digiuno nel mese di Ramadan o a condividere il pasto comune in occasione della Festa del sacrificio. Ora domina una tradizione di provenienza mediorientale ed estranea alla storia locale. Questa punta a separare i musulmani dai non musulmani. La gente si trova divisa tra due tradizioni. Una tradizione aperta, quella dell’Islam popolare, che gli algerini della mia generazione hanno spontaneamente interpretato, e una molto chiusa e rigida che spinge i musulmani a diffidare dei non musulmani Secondo Lei quale delle due prevarrà? È difficile rispondere. Bisogna tenere conto del fatto che la chiusura non riguarda solo le relazioni tra musulmani e cristiani, ma quelle tra musulmani disponibili al dialogo e musulmani che invece lo rifiutano. Posso dire che dobbiamo lavorare per far prevalere la tradizione dell’amicizia e dell’apertura, altrimenti questo paese non avrà futuro. * Intervista a cura di Michele Cisco