Il Salafismo è una corrente in forte ascesa all’interno dell’Islam sunnita, sia nel mondo musulmano che in Occidente. Una guida per fare chiarezza sulla sua natura e suoi principi

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:55:31

Che cos’è il Salafismo? Molto spesso i salafiti rispondono così: “È la verità. Prima ero un sufi, un Fratello musulmano, un laico, … ma ora ho finalmente trovato la verità”. Una simile dichiarazione riflette alla perfezione quella che definisco “la ricerca della purezza”. Coloro che aderiscono al Salafismo lo considerano infatti l’Islam più puro, rifugio accogliente per i credenti e fortezza inespugnabile per i nemici.

 

Etimologia

 

Il termine “Salafismo” deriva dall’espressione al-salaf al-sālih (“I pii antenati”), con la quale si designano generalmente le prime tre generazioni di musulmani. Una tradizione profetica (hadīth) dice infatti:

«I migliori sono quelli della mia generazione, poi coloro che verranno dopo di essi, poi coloro che verranno ancora dopo di essi»[1]

Dato che questi salaf sono ciò che di meglio l’Islam, o l’umanità, possa offrire, se si vuole essere un buon musulmano bisogna seguirli, imitarli, emularli o conformarsi al loro comportamento. È questo che i salafiti affermano di fare meticolosamente, agendo o credendo di agire nello spirito del Profeta Muhammad.   

 

Nella sua forma attuale il Salafismo è apparso nel XX secolo. Intellettualmente, questa corrente dipende in gran parte dal wahhabismo, nato nel XVIII secolo nell’odierna Arabia Saudita; ideologicamente, tuttavia, si rifà a pensatori medievali come Ibn Taymiyya (1263-1328), che precedono di molti secoli il movimento wahhabita. In certi casi, i salafiti moderni hanno opinioni simili – se non identiche – a quelle di questi pensatori medievali, benché questi ultimi non si considerassero salafiti, almeno non nel senso moderno del termine.  

 

Testualismo salafita vs. Tradizionalismo sunnita

 

Come accennato, l’idea fondante del Salafismo consiste nel seguire il più fedelmente possibile Muhammad e i pii antenati. Sin da subito, però, si pone un problema: come possono i musulmani sapere con certezza ciò che Muhammad avrebbe fatto in una data circostanza? Dato che il Profeta non è più in vita, le possibilità sono due: attenersi alla pratica vivente della umma o basarsi sulla tradizione testuale. In altre parole, i musulmani possono seguire Muhammad attraverso la “pratica Medinese”, come accadde nel primo vero Stato islamico dei califfi o nella prima vera scuola musulmana, gli Ahl al-ra’y[2]; oppure possono seguirlo come fecero gli Ahl al-hadīth[3], privilegiando le tradizioni del Profeta e riferendosi ai loro testi. Quest’ultima è l’opzione salafita. Ma anche se ci si affida ai testi, come dovranno essere letti? Attraverso una teologia razionale e speculativa oppure alla lettera? I musulmani sunniti, compresi i salafiti (sostengo infatti che i salafiti sono sunniti), hanno diverse opinioni al riguardo, benché, in linea generale, il Salafismo privilegi un approccio molto letteralista, dando priorità assoluta agli hadīth. Per esempio: se la Scrittura afferma che per essere pii è necessario pregare cinque volte al giorno, un buon musulmano non potrà essere “super-pio” pregando sei volte al giorno, perché questo rappresenterebbe una bid’a (“innovazione religiosa”); gli orologi devono essere indossati esclusivamente sul polso destro giacché, secondo Muhammad, la mano destra serve per le opere pie, mentre quella sinistra è riservata ad azioni impure, etc.

 

Ci sono opuscoli che elencano le numerose frasi di rito che il buon musulmano deve pronunciare nelle varie occasioni, per esempio quando indossa un vestito nuovo per la prima volta, quando entra o esce di casa, quando si corica la sera o si sveglia la mattina, etc. I salafiti seguono rigorosamente queste regole, perché le formule che essi ripetono hanno una base testuale e, secondo loro,  finanche il più insignificante hadīth attribuito a Muhammad o ai salaf è di grande importanza e deve perciò essere rispettato.

 

Diritto e teologia Nel campo della sharī’a (“legge islamica”), si possono giustapporre il tradizionalismo sunnita all’originalismo salafita. I sunniti ritengono che la maggior parte delle fattispecie siano già state risolte dai diversi madhhab, o scuole giuridiche, mentre eventuali nuove questioni possono essere affrontate all’interno della cornice giuridica stabilita dai giuristi del passato, i quali dovrebbero essere emulati attraverso il taqlīd (imitazione). Dal canto loro, i salafiti rifiutano di seguire le scuole giuridiche, perché queste sono successive ai pii antenati. Si attengono piuttosto al testo o allo hadīth, tentando un’interpretazione diretta (quella che chiamano ijtihād o “interpretazione indipendente delle fonti testuali”). Perciò, a differenza di quanto normalmente si crede, i salafiti praticano l’ijtihād. La differenza con altre forme di ijtihād risiede nel fatto che i salafiti considerano il testo come una fonte a cui attenersi rigorosamente e non soltanto alla quale ispirarsi.

 

A livello teologico, possiamo distinguere invece tra il compromesso sunnita e il letteralismo salafita. I sunniti, in generale, ammettono strumenti extra-testuali per risolvere questioni teologiche. Il tema del libero arbitrio è un buon esempio al riguardo. Tizio lascia cadere una penna: mentre qualcuno può ritenere che Tizio abbia preso la decisione di farla cadere, altri potrebbero credere che sia stato Dio a volere che la facesse cadere. Nella prospettiva del compromesso sunnita, Dio ha creato la gravità – stabilendo così che tutte le penne cadano – mentre la decisione effettiva di far cadere la penna è in parte ascrivibile alla persona. C’è dunque spazio per un contributo umano, benché all’interno di un più ampio quadro divino. Questioni simili riguardano i fenomeni naturali. Perché il sole sorge a Oriente? La maggior parte dei musulmani risponderebbe che Dio ha deciso così. Ma questo significa che Dio decide ogni giorno di far sorgere il sole a Oriente oppure che stabilisce una sorta di legge della natura che faccia sorgere il sole ogni giorno a Oriente? Le risposte e le visioni del mondo che ne risultano sono sensibilmente diverse.

 

I salafiti, come detto in precedenza, sono rigorosamente letteralisti: se il Corano afferma che Dio ha compiuto un’azione, quest’azione è attribuibile a Dio solo, senza lasciare spazio alla volontà umana. Il problema si presenta quando il Corano non afferma direttamente qualcosa: in quel caso, infatti, non è possibile dedurre una soluzione direttamente dal testo. Ritornando dunque alla questione del libero arbitrio, i salafiti tendono a dire che Dio ha il controllo di qualsiasi cosa, benché la Sua saggezza vada ben al di là della nostra comprensione. Per tale ragione, Dio potrebbe sembrare ingiusto ai nostri occhi, ma in realtà noi non possiamo comprenderLo, dal momento che Egli è ben più elevato, immenso e migliore di noi.

 

In conclusione, sia dal punto di vista giuridico che teologico, ci troviamo di fronte a un’opposizione tra due punti di vista: quello tradizionalista (sunnita) contro quello fondamentalista (salafita). Seguendo la metafora di Michael Cook[4], possiamo immaginare la religione come un fiume che dalla montagna scorre a valle, portando con sé ogni tipo di sporcizia: i tradizionalisti, cioè gli ulama sunniti, accettano tutto ciò che il fiume porta con sé come “elementi costitutivi”; i fondamentalisti, al contrario, risalgono la corrente del fiume, puntando alla fonte, all’acqua pulita.

 

L’autorità religiosa L’Islam sunnita assegna grande importanza alla silsila (“catena”) dei maestri: ogni sapiente ha imparato da un maestro che, a sua volta, ha imparato da un altro maestro, e così via, fino al Profeta. I salafiti, da parte loro, si riferiscono direttamente ai pii antenati. Si tratta di un approccio più radicale, perché rompe drasticamente con la tradizione, e allo stesso tempo è “democratizzante”, dal momento che permette a chiunque di accedere a questa conoscenza “pura”. Nell’era di Internet non è necessario essere “studenti di qualcuno”, perché tutto è a portata di clic. Tuttavia, anche se i salafiti pretendono di rivolgersi direttamente alle fonti, essi devono scegliere una sola risposta corretta a qualsivoglia domanda. In pratica, quindi, vi è poco spazio per l’interpretazione personale.

 

Le tre dimensioni del tawhīd

 

L’aspetto centrale del credo salafita è il tawhīd (“Unità di Dio”). Benché si tratti di un concetto fondamentale per l’Islam nel suo complesso, per i salafiti esso rappresenta molto di più del semplice termine “monoteismo”. Nella loro ottica questo concetto ha tre diverse dimensioni. Il tawhīd al-rubūbiyya (“l’unità della signoria”) indica che Dio è l’unico Signore e Creatore. Questa prima dimensione, tuttavia, non distingue i musulmani dai politeisti arabi, dato che anche questi ultimi credevano sostanzialmente in un singolo Creatore. A differenziare i credenti musulmani dai politeisti è il tawhīd al-ulūhiyya (“l’unità della divinità”, noto anche come tawhīd al-’ibāda “l’unità del culto”), in base al quale Dio dovrebbe essere l’unico destinatario del culto, mentre l’atto di pregare sulla tomba di qualcuno o nei mausolei di alcuni santi (awliyā’) è espressione di shirk (“politeismo” o “associazionismo”). Infine, il tawhīd al-asmā’ wa-l-sifāt (“l’unità dei nomi e gli attributi di Dio”) designa l’assoluta unicità di Dio in tutti i suoi nomi e attributi. Questa è la dimensione attraverso la quale i salafiti si distinguono dagli altri musulmani: per loro Dio non è solo Uno, ma è anche Unico.

 

Il Corano attribuisce a Dio alcune parti del corpo (il volto, Cor. 55,27; gli occhi, Cor. 54,14; le mani, Cor. 38,75). Tuttavia, Cor. 42,11 afferma: laysa ka-mithlihi shay’un, «Non v’ha simile a Lui alcuna cosa». Molti ulema hanno interpretato in senso metaforico questi organi: gli occhi sono la “visione” di Dio, la Sua mano rappresenta il “potere” divino, etc. I Salafiti, invece, accettano i testi così come sono scritti, sostenendo al contempo che non sappiamo come appaiano concretamente gli occhi di Dio, le Sue gambe, le Sue mani, perché «Non v’ha simile a Lui alcuna cosa». Dibattiti teologici come questi suscitano aneddoti interessanti: una volta, il famoso viaggiatore marocchino Ibn Battuta visitò una moschea nella quale Ibn Taymiyya stava così predicando:

«Dio scenderà dal Cielo, proprio come scenderò io adesso»

E fece un passo giù dal pulpito. Con il suo gesto, Ibn Taymiyya pretendeva di fare qualcosa che Dio stesso avrebbe fatto. Eppure, come si può agire come Dio, se Egli è unico?

 

La ricerca della purezza a ogni costo

 

Queste differenze giuridiche, teologiche e nella concezione dell’autorità evidenziano chiaramente la volontà salafita di distinguersi dalla maggioranza dei sunniti, i quali avrebbero deviato dalla retta via. Per questo i salafiti si definiscono la “setta salvata [dall’inferno]” (al-firqa al-nājiya) o “il gruppo vittorioso” (al-tā’ifa al-mansūra). Quest’ultima immagine, in particolare, è tratta da un noto hadīth che afferma: «un gruppo (tā’ifa) della mia comunità rimarrà fedele alla verità»[5]. È proprio questa la tā’ifa che i salafiti pretendono di rappresentare.

 

Un altro hadīth dichiara che come gli ebrei si divisero in settantuno diverse sette e i cristiani in settantadue, i musulmani si divideranno a loro volta in settantatré gruppi, tutti destinati al fuoco dell’inferno, eccetto uno[6]. Ovviamente, i salafiti pretendono di essere quel gruppo.

 

La loro natura esclusivista è ben simboleggiata dal termine ghurabā’ (“stranieri”), con cui essi stessi si definiscono. Questa parola, tratta da diversi hadīth[7], trasmette l’idea di essere in questo mondo senza essere di questo mondo, rendendo così il Salafismo una fortezza non-geografica: ovunque vadano i salafiti hanno una sola identità, sono prima di tutto musulmani. L’unico luogo in cui si sentono a casa è l’Islam. Non sorprende dunque che ghurabā’ sia anche il titolo di un famoso nashīd (“inno religioso”) salafita.  

 

Innovazione vs. Rinnovamento Un aspetto profondamente connesso con la ricerca della purezza è la lotta contro le innovazioni in campo religioso. I salafiti tentano infatti di purificare l’Islam da ogni sorta di bid‘a non conforme alla pratica dei salaf. Due precisazioni sono qui necessarie. Le bida‘ (plurale di Bid‘a) sono soltanto le “novità” in seno all’Islam: i salafiti, ad esempio, considerano la tecnologia come qualcosa di nuovo, ma al contempo neutrale, poiché non aggiunge nulla all’Islam e può essere usata per buoni propositi. In secondo luogo, bisogna distinguere tra bid‘a e tajdīd (“rinnovamento religioso”): ulema come Muhammad Ibn ‘Abd al-Wahhāb – il riformatore religioso del XVIII secolo che fondò il wahhabismo – sono spesso considerati mujaddid (rinnovatori), perché hanno “rinnovato” il messaggio puro dell’Islam, senza però aggiungere alcuna innovazione religiosa. Seguendo questo esempio, il wahhabismo può essere definito come la versione Najdī (dell’Arabia centrale) del Salafismo, ossia una versione del Salafismo caratterizzata da un aspetto locale, modellata da elementi geografici. Essendo principalmente desertica, la regione del Najd non è mai stata colonizzata da alcuna potenza straniera, e questo potrebbe aver indotto l’atteggiamento wahhabita di riluttanza nei confronti degli stranieri. Inoltre, il wahhabismo è tradizionalmente più incentrato sulla teologia letteralista che sull’ijtihād nel diritto islamico.

 

Nel Salafismo esiste dunque una pratica encomiabile del tajdīd, che ha l’obbiettivo di tornare alle fonti dell’Islam respingendo la crescente marea di innovazioni; numerosi studiosi salafiti hanno passato la loro vita a cercare di purificare la religione da ogni tipo di presunta bid‘a. Un noto esempio contemporaneo è Muhammad Nāsir al-Dīn al-Albānī (m. 1999), che passò in rassegna tutte le tradizioni profetiche che conosceva, tentando di ricondurle fino a Muhammad, e rifiutando tutte quelle che non era in grado di attribuire a una fonte incontrovertibile.

 

Al-walā’ wa-l-barā’ Questa espressione rappresenta un altro importante principio salafita, volto a preservare la purezza. Al-walā’ (“la lealtà”) corrisponde all’amicizia, alla collaborazione e alla cooperazione, mentre al-barā’ (“il disconoscimento”) significa “essere innocenti” e “non avere nulla a che fare con qualcosa (considerato illecito)”. Per i salafiti si tratta di un principio da applicare nella vita di tutti i giorni, in situazioni molto concrete, come si capisce da alcuni esempi.

 

Le ricorrenze non-islamiche come le feste nazionali sono illecite per i salafiti; lo stesso vale per il giorno della nascita del Profeta (Mawlid al-Nabī), poiché egli stesso non l’ha mai celebrato. Si tratta di una questione che ha generato molti attriti tra i salafiti e gli altri musulmani.

 

Anche il modo di salutare gli altri è un tema controverso: i salafiti non sventolano mai la mano in segno di saluto, perché si dice che il Profeta e i suoi compagni non si siano mai salutati in questo modo. Inoltre, essi avrebbero usato esclusivamente la formula religiosa al-salām ‘alaykum (“La pace sia con te”), alla quale rispondevano wa ‘alaykum al-salām wa-rahmatullāh wa-barakatuhu (“La pace, la misericordia di Dio e la Sua benedizione siano con te”). Tutti i saluti non religiosi come “buongiorno” o “buonasera” vengono dunque evitati. Inoltre, nel caso in cui sia un non-musulmano a salutare, un salafita deve limitare la sua risposta a wa ‘alayk (“e con te”), perché diversi hadīth[8] riferiscono che gli ebrei di Medina erano soliti storpiare il saluto islamico dicendo al-samm ‘alaykum (“Il veleno sia con te”). Muhammad quindi ordinò ai suoi compagni di non rispondere augurando la pace, ma semplicemente replicando wa ‘alayk. Tuttavia, alcuni dei più importanti studiosi salafiti del XX secolo hanno affermato che se un non-musulmano augura al-salām (“la pace”) e la lettera “l” è chiaramente percepibile nel saluto, gli si può augurare a propria volta la pace. Nel caso in cui invece la “l” non si senta chiaramente la risposta deve essere wa ‘alayk.

 

Uno dei tratti distintivi dei salafiti è il loro modo di vestire, che consegue dal fatto che numerosi hadīth consigliano di indossare pantaloni abbastanza corti da non farli strisciare sul pavimento, visto che «trascinare l’abito inferiore […] è presuntuoso e a Dio non piace la presunzione». Infine, i salafiti insistono sul fatto che ai neonati si possono dare soltanto nomi di origine rigorosamente islamica (Muhammad, Fatima, Hasan, ...), mentre i nomi non specificamente musulmani devono essere evitati. Come si vede dagli esempi precedenti, i salafiti hanno un hadīth per ogni occasione. Essere un salafita significa infatti imitare il Profeta nei minimi dettagli, ed è questo il modo in cui si mostra la propria devozione.

 

La dottrina de al-walā’ wa-l-barā’ ha inoltre una dimensione politica. In un conflitto, i musulmani dovrebbero sempre schierarsi (al-walā’) con altri musulmani, a prescindere da chi abbia ragione o torto. L’intervento degli Stati Uniti nella Guerra del Golfo (1990-1991) è un esempio interessante: minacciata dall’Iraq, l’Arabia Saudita invitò le truppe statunitensi (ossia gli infedeli) nel suo territorio, cercando protezione da un probabile attacco iracheno. Benché Saddam Hussein fosse considerato un apostata, i musulmani sunniti rappresentavano certo una componente importante dell’esercito iracheno. Pertanto, numerosi salafiti considerarono l’alleanza dell’Arabia Saudita con un Paese non-musulmano contro l’Iraq una forma illecita di walā’.

 

Fede (Īmān) vs Miscredenza (Kufr) Il principio pratico de al-walā’ wa-l-barā’ richiama un’altra importante dicotomia, al-īmān wa-l-kufr: fede e miscredenza. Secondo i salafiti, la fede si compone di tre elementi: la fede del cuore, il discorso della lingua, gli atti delle membra. Essi credono inoltre che si tratti di un concetto elastico: la fede diminuisce quando si agisce contro l’Islam e viceversa.

I salafiti distinguono inoltre tre livelli di fede: sihhat al-dīn (“la solidità della religione”), che si riferisce ai concetti essenziali dell’Islam come il tawhīd; wājib al-dīn (“l’obbligo della religione”), che include le norme islamiche più importanti, come il divieto di bere vino; kamāl al-dīn (“la perfezione della religione”), che denota alcuni aspetti particolarmente raccomandati della fede.

Questa classificazione solleva una questione molto controversa nel mondo musulmano: il takfīr (“la scomunica”). I dotti musulmani sono sempre stati molto cauti con questo dispositivo, perché il passo dalla scomunica all’uccisione del kāfir (il “miscredente”) può essere molto breve. Un celebre hadīth afferma: «Chi cambia la propria religione va ucciso»[9].

 

Da parte loro, i salafiti identificano due tipi di miscredenza: il kufr akbar (la “miscredenza maggiore”) include tutti i peccati del primo livello della fede (ad esempio, negare che il Corano sia la parola di Dio) e i peccati del secondo livello della fede (ad esempio, mangiare carne di maiale) che sono commessi con i‘tiqād (“convinzione”), istihlāl (“autolegittimazione” nel compiere qualcosa di illecito, consci del fatto che sia proibito) e jahd (“negazione” esplicita del messaggio islamico).

 

I peccati del secondo livello – commessi senza piena avvertenza – e i peccati del terzo livello (peccati minori) sono considerati kufr ashgar (“miscredenza minore”). Mentre il kufr akbar è motivo di takfīr verso un musulmano, il kufr ashagar non lo è. In altre parole, un musulmano che non prega ammettendo di trascurare un precetto religioso, rimane musulmano. Se però afferma che non vi è bisogno di pregare, incorre allora nella miscredenza maggiore.

 

La distinzione tra fede e miscredenza ha ripercussioni pratiche anche in campo politico. Benché ebrei e cristiani professino teoricamente “l’unità della signoria”, che è il primo livello del monoteismo, essi sono comunque considerati politeisti dai salafiti perché «si son presi i loro dottori e i loro monaci e il Cristo figlio di Maria come “Signori” in luogo di Dio» (Cor. 9,31).

 

Secondo alcuni salafiti, questo versetto implica anche che seguire un sistema di leggi creato dall’uomo equivale a seguire altri dei. I Paesi musulmani (come l’Egitto) o quelli non-musulmani (come gli Stati Uniti) che non si fondano sul diritto islamico sono di conseguenza governati da politeisti. Tuttavia, altri salafiti riconoscono che i Paesi poveri sono costretti a trattare con altre nazioni e sono obbligati ad adottare sistemi giuridici stranieri per ragioni economiche. E poiché si tratta di una scelta forzata, non li si può biasimare. Ciononostante, un Paese che sostituisce consapevolmente la sharī’a con un sistema legislativo completamente diverso – ad esempio adottando una Costituzione laica – è governato dai miscredenti.

 

Gruppi e tendenze

 

I salafiti non rappresentano un gruppo omogeneo, ma sono piuttosto divisi. La grande maggioranza di essi è quietista, apolitica e concentrata soprattutto sull’educazione e su attività missionarie. Si sente al sicuro nel suo castello. Una seconda categoria è composta dai salafiti politici, i quali differiscono dai quietisti su un solo punto: per loro, l’attivismo politico, la partecipazione parlamentare e le manifestazioni sono obbligatori. Infine, vi è una minoranza di salafiti jihadisti, che a volte imbracciano le armi. Sono anti-politici, dal momento che considerano sbagliato l’intero sistema e desiderano rovesciare i cosiddetti sovrani apostati del mondo musulmano per sostituirli con “veri” musulmani. Benché il termine “jihadisti” si applichi solamente a quest’ultima categoria, anche i salafiti quietisti e politici credono nel jihad, sia come azione spirituale che militare. Tuttavia, solamente i salafiti jihadisti ritengono che il jihad debba essere rivolto contro i musulmani apostati del mondo islamico.

 

Il fascino del Salafismo

 

Diventare salafita è molto facile: può essere sufficiente per esempio pregare una volta in una moschea salafita suggerita da un amico per poi decidere di unirsi a loro. Cosa rende così affascinante questo movimento religioso? Probabilmente il fatto che il Salafismo è molto semplice. All’interno della sua struttura, ogni domanda ha una risposta – di solito una sola risposta corretta – mentre per pochissimi ambiti è ammessa una divergenza legittima Inoltre, qualsiasi risposta è accessibile a tutti i musulmani. Se nel mondo islamico tradizionale la conoscenza era riservata all’élite, i salafiti desiderano invece che essa sia accessibile a tutti. Insistono sulla memorizzazione dei testi, ma li considerano auto-evidenti. Secondo i loro detrattori, i salafiti usano il Corano e gli hadīth come un elenco telefonico, nel quale cercano risposte molto specifiche a domande molto specifiche.

 

Infine, tale fascino deriva dalla loro pretesa di “autenticità”: essi affermano infatti che ogni loro risposta possa essere provata dalla Sunna e dal Corano. I musulmani sunniti, invece, si dividono in scuole giuridiche (madhhab): per rispondere a una questione, un dotto la esaminerà dalla sua prospettiva giuridica, secondo la metodologia della sua scuola di appartenenza. I salafiti, invece, citeranno rapidamente qualche hadīth rispondendo:

«Il Profeta ha detto questo; pensi di saperne di più del Profeta?»

La loro risposta – nell’era della comunicazione istantanea – è molto più veloce e molto più seducente, soprattutto per i giovani.

L’enfasi costante sull’ “autenticità” porta naturalmente i salafiti a pretendere di rappresentare non solo un ramo dell’Islam o una sua manifestazione locale, bensì l’Islam più puro. Per questo essi si definiscono qualche volta come musulmani tout court, pretendendo che esiste un solo Salafismo – non riconoscendo dunque le suddivisioni citate prima – e che questo Salafismo è l’Islam.

 

In altre parole, i salafiti rifiutano l’idea di un “Islam che si adatta alle persone” e sostengono l’ideale di “persone che si adattano (al loro puro) Islam”, non influenzato né dal contesto né dal tempo.

Torniamo così all’idea di un Islam-fortezza, con spesse mura di protezione che difendono dalle minacce esterne. Quando ero in Giordania per le mie ricerche, ho trascorso del tempo in una moschea salafita, frequentando le loro lezioni. Ho così potuto percepire il confortevole tepore dei discorsi salafiti e veder nascere dei legami autentici, benché io fossi un estraneo, un outsider. Nei Paesi non-musulmani, i giovani musulmani, che magari sono stati vittime di islamofobia o di discriminazione sul mercato del lavoro a causa della loro religione, possono ritirarsi in questa fortezza sicura e accogliente. In una dittatura mediorientale, puoi certamente provare a combattere la corruzione, puoi partecipare alla rivoluzione stando in piazza Tahrir al Cairo, puoi tentare la strada dell’attivismo. Fino ad ora, però, non ha funzionato. Allora, in alternativa, puoi ritirarti nel tuo castello salafita, semplice, autentico e puro, lasciando fuori tutto il resto. Per molti, è un’opzione allettante.

 

 

Per saperne di più

Roel Meijer (a cura di), Global Salafism: Islam’s new religious movement, Columbia University Press, New York 2009.

Joas Wagemakers, A Quietist Jihadi: The Ideology and Influence of Abu Muhammad al-Maqdisi, Cambridge University Press, Cambridge – New York 2012.

Joas Wagemakers, Salafism in Jordan: Political Islam in a Quietist Community, Cambridge University Press, Cambridge – New York, 2016.

Francesco Cavatorta-Fabio Merone (a cura di), Salafism After the Arab Awakening Contending with People’s Power, Hurst, London 2017.

 

[1] Sahīh al-Bukhārī, Kitāb al-shahādāt, Bāb 9 Lā yushhad ‘alā shahādat jawr idhā ushida.

[2] Gli ahl al-raʾy o ashāb al-raʾy erano i fautori dell’uso del ragionamento indipendente per arrivare a decisioni giuridiche. Essi sottolineavano inoltre l’importanza della “tradizione vivente” all'interno della comunità dei credenti, di solito su base regionale (la “pratica Medinese”, la “pratica di Kufa”, …).

[3] Gli ahl al-hadīth o ashāb al-hadīth consideravano il Corano e gli hadīth autentici l’unica autorità in materia di diritto e di credo. Tendevano a rifiutare il ragionamento indipendente.

[4] Michael Cook, Ancient Religion Modern Politics, Princeton University Press, Princeton, 2014, p. 373.

[5] Sahīh al-Bukhārī, Kitāb al-Manāqib, Bāb 27 Su’āl al-mushrikīn an yuriyahum al-nabī āya… / Bāb 28.

[6] Sunan Ibn Majah, Kitāb al-Fitan, Bāb 17 Iftirāq al-umam.

[7] Ad esempio, Sahīh Muslim, Kitāb al-Īmān, Bāb 65 Baynān anna ’l-islām bada’a gharīban wa sa-ya‘ūd gharīban…; oppure Sahīh al-Bukhārī, Kitāb al-Riqāq, Bāb 3 Qawl al-nabī «Kun fī ’l-dunyā ka-’annaka gharīb aw ‘ābir sabīl».

[8] Si veda, ad esempio, Sahīh Muslim, Kitāb al-Salām, Bāb 4 Al-nahy ‘an ibtidā’ ahl al-Kitāb bi-s-salām wa-kayf yuradd ‘alayhim.

[9] Si veda, ad esempio, Jāmi‘ al-Tirmidhī, Kitāb al-Hudūd, Bāb 25. Mā jā’a fī ’l-murtadd.

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