La Tunisia, l’Europa, il Mediterraneo

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:11:03

Ancora molti sono gli aspetti da chiarire del terribile attacco a Tunisi: dal reale obiettivo dei jihadisti alle loro affiliazioni concrete con i vari gruppi del terrore che infettano il Mediterraneo. Alcune considerazioni appaiono invece già molto chiare, e sono probabilmente le più significative. La prima è che i terroristi non si fermano dinanzi a nulla, nell’applicare la loro oscena filosofia di morte. Donne, uomini e ragazzi sono un obiettivo legittimo ai loro occhi, indipendentemente da quanto le vittime designate facciano o dano. Chi visitava il museo del Bardo non era un "crociato" che minacciava l’islam, ma un viaggiatore che omaggiava la storia e la cultura plurimillenaria della Tunisia, andando nel suo museo più importante (che bene illustra i legami fra le due sponde del Mediterraneo). E aiutava, con la sua presenza, la fragile economia del Paese. Forse anche per questo rappresentava una "minaccia" per la narrativa fanatizzante e dicotomica del terrorismo islamista. La seconda considerazione è che la Tunisia stessa rappresenta agli occhi di questi assassini un pericolo mortale, dato che testimonia la possibilità concreta - sia pure faticosa e oscillante - di una terza via. Non esiste solo la scelta fra l’anarchia violenta e barbara del Califfato che anela a distruggere Stati e a spazzare via ogni minoranza religiosa o culturale, e la repressione manu militari dell’islamismo politico, come avvenuto in Egitto. Dopo le rivolte popolari che avevano portato al crollo del regime di Ben Ali, il Paese aveva pencolato pericolosamente fra deriva islamista e aspirazioni liberali, con una contrapposizione politica che ha rischiato di naufragare nella violenza. Invece, nel 2014, le grandi forze politiche sono riuscite a raggiungere un onorevole compromesso sulla Costituzione, che ha portato a nuove elezioni vinte dai partiti (più) secolari. A dimostrazione che la via verso una normalità politica (e la normalità nel Vicino Oriente e in Nord Africa non suona mai banale) è possibile anche nella regione. Per chi cresce solo nell’anormalità e nella contrapposizione radicale, il governo di unità nazionale di Tunisi rappresenta perciò una sfida serssima e, alla lunga, insostenibile che bisogna cercare di vincere presto e con ogni mezzo. Difficile fare previsioni sulla capacità di tenuta del Paese e della sua fragile democrazia. Ma certo incoraggia veder montare una immediata reazione popolare di condanna, con manifestazioni di massa contro gli attentati. Si è spesso sottolineata - quasi sempre a ragione - una certa apatia dell’islam ufficiale e delle masse islamiche dinanzi agli assalti jihadisti. Tanto più, allora, va sottolineata la reazione di chi oggi in Tunisia si schiera pubblicamente e platealmente contro di essi. Se chi ha pianificato questi attacchi voleva colpire al cuore la specificità tunisina, allargando le divisioni e le differenze politiche, rischia di ottenere l’effetto contrario, finendo ancor più marginalizzato. Ma il mondo occidentale - l’Europa per prima - non può rimanere passivo, sperando solamente nella capacità di resistenza del giovane sistema politico tunisino. Questa è l’ultima costatazione che si staglia con grande nettezza dal sangue sparso al Museo del Bardo; l’ultima ma probabilmente la più importante: basta con i distinguo, le esitazioni, le meschine rivalità fra europei. L’Europa partecipa in modo titubante e svagato alla coalizione internazionale che dovrebbe fermare la crescita (e le distruzioni) del Califfato nero. In Libia, dopo aver fatto una guerra, ancora qualche affare e pochissimo altro, di fronte a un caos esplosivo ci affidiamo a un incerto percorso di riconciliazione sotto l’egida dell’Onu. In Tunisia – che sinora abbiamo snobbato e lasciato sola – dobbiamo ora impegnarci con rapidità e convinzione. Non serve inviare soldati, ma rafforzare l’intelligence tunisina, migliorare le capacità counter-terrorism delle Forze armate nazionali, investire nel rilancio dell’economia e sostenere la transizione politica. Ma soprattutto serve non cedere al terrore, fuggendo dalla Tunisia come fosse la Siria o l’Iraq. Perché non lo è, la sua popolazione non vuole diventarlo e il Mediterraneo intero non può permetterselo. Avvenire