Trascrizione del dialogo creatosi dopo l’intervento di S.Em. il cardinale Angelo Scola all’incontro Confini che ci cambiano. Europa e Islam dopo gli attentati di Parigi

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:09:30

La guerra in corso, i fatti di Parigi e tutto ciò che sta succedendo in questi mesi suscitano in noi un interesse comprensibile e doloroso, che si lega alla nostra vita personale, alla vita di tutti i giorni. Siamo dentro un cammino comune e tutti, specialmente i giovani, dobbiamo essere consapevoli del fatto che abbiamo davanti a noi decenni pieni di avventura, in tutti i sensi: qualcosa che entusiasma ma che sarà anche duro. Infatti, non è difficile cogliere che i problemi di cui stiamo parlando sono strutturali e sono destinati a durare per alcuni decenni. Probabilmente ci accompagneranno lungo la nostra esistenza, perciò dobbiamo essere preparati. Parlando a Firenze ai cattolici italiani, papa Francesco ha detto che oggi non viviamo “un’epoca di cambiamento, ma un cambiamento di epoca”. È una considerazione molto importante: tanti elementi ci confermano che si è chiusa un’epoca. Ne nasce però una domanda: “E adesso?”, davanti alla quale rimaniamo muti. Per rispondere è necessario lavorare insieme molto attentamente e cercare di capire riflettendo sulla nostra esperienza. Dobbiamo provare a cogliere pian piano, da taluni segni, la direzione verso cui stiamo andando. La tragedia di Parigi – senza dimenticare quanto successo in Egitto, in Libano, in Mali, in Tunisia e quello che continua ad accadere in Medio Oriente e in Africa – ha sollevato grandi problematiche. Ne è scaturita una riflessione, un effluvio di parole comprensibile, perché la paura genera sempre due atteggiamenti tra di loro opposti: può bloccare nella depressione malinconica e ammutolire, oppure può far chiacchierare in maniera esasperata, ad oltranza. Così abbiamo sentito parlare di tante cose, per ora ancora molto confuse: cos’è il terrorismo islamista, la minaccia della sicurezza in Europa, la riduzione delle nostre libertà, la natura del nostro rapporto con i musulmani. Su quest’ultimo punto, purtroppo, noi paghiamo la nostra gravissima ignoranza, in particolare gli italiani, perché non abbiamo mai voluto conoscere gli Islam, non ci siamo mai impegnati a conoscerli. Basterebbe guardare la diffusione della rivista Oasis, che è molto più alta in Medio Oriente che in Europa. Questa tematiche non ci interessavano, a noi che eravamo seduti e ben pasciuti sulle nostre poltrone, alla sera, con il whisky in mano a discutere di come si risolveva la guerra in Iraq. Questo è stato tutto il nostro impegno, oltre ai discorsi sui profughi, sulla geopolitica in Medio Oriente, sulla riforma del pensiero religioso islamico. Insomma, tanti discorsi necessari e tutti con una grande pertinenza. Ma se queste chiacchiere non arrivano a mettere in gioco la persona nella sua integralità e la nostra comunità, in questo caso la comunità universitaria nella sua articolata unità, restano dei puri discorsi. È una cosa che stride, fa male, perché stiamo discutendo di qualcosa di sostanziale. Il primo e fondamentale dato che dobbiamo capire è che non si tratta di un elemento esteriore. La distinzione che troppo spesso facciamo tra “noi” e “loro”, tra fuori e dentro l’Europa – per stare in tema di confini – è semplicemente sbagliata perché è totalmente astratta: è fuori dalla storia ed è fuori dal presente. Si tratta di un problema tuo, un problema mio, è un problema nostro quello che sta capitando, come lo è lo studiare o il pensare al futuro. È una questione che c’entra persino con noi cristiani e con la nostra fede. Noi europei siamo molto lontani dall’avere questa coscienza, come dimostrano tutti gli episodi più tragici che sono capitati in questi ultimi anni: passato qualche giorno, tutto finisce e si tende a ritornare a quello che c’era prima. Recuperiamo subito quello stile di vita di noi europei di oggi, una sorta di “nichilismo gaio”, ovvero vivere, tutto sommato, senza prospettiva. Tutto questo può toccare anche noi cristiani impegnati, perché il coinvolgimento con il Signore e con la Chiesa può restare al livello di una libertà legata a una serie indefinita di piccoli piaceri che mai potranno produrre godimento. Ma il godimento ha bisogno di definitività, mentre il piacere finisce sempre subito. La questione di fondo è che dobbiamo fare tutti un salto di qualità per capire se ciò che ci aspetta sta dentro a un disegno oppure no. Noi occidentali, segnati da una cultura cristiana imponente, oggi in vertiginosa caduta, siamo ancora convinti che esiste un disegno buono sulla storia? Siamo ancora convinti che ci sia un Padre che la conduce portando una pazienza infinita nei confronti di noi suoi figli, giocando la Sua libertà con la nostra e accettando di sostenere il conflitto con la libertà del maligno? Se siamo convinti che esista questa mano tenera e potente, cerchiamo allora pazientemente di scoprirla attraverso le circostanze e attraverso i rapporti che Dio ci dona tutti i giorni per manifestarci lentamente questo disegno. Se crediamo, o se almeno cerchiamo, qualora non avessimo la fede, allora l’apertura di speranza non si chiude più; allora la “virtù bambina”, come la chiamava il poeta francese Charles Péguy, riesce ancora a trascinare dove vuole la fede, la carità e le virtù cardinali (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza). A mio avviso, questo è il punto su cui si gioca la questione, anche nello spostamento di confini in atto, dove con “confine” si intende non solo barriera o frontiera, ma anche la possibilità di accoglienza reciproca. Un’implicazione di quanto detto, su cui sarebbe stato bello che l’Europa avesse tenuto duro, è che un disegno positivo sulla storia, rispettoso anche dell’insulsaggine e della tragicità delle nostre violenze, non può prescindere dal rapporto verità-libertà. Questo è il contributo fondamentale che la mind europea ha dato alla storia del mondo e che dovrà dare alla storia di tutti i mondi ancora a noi sconosciuti: ai mondi asiatici, alla necessità di crescita dell’Africa e a quello che ne potrà scaturire, alle grandi risorse che ci vengono dall’America Latina. Scindere il binomio verità-libertà è un assurdo. Pensare che si possa parlare di libertà rimanendo assolutamente scettici, problematici e decostruttivi sull’esperienza personale della verità è insensato, perché in questo caso la libertà si avvita su se stessa. Lo si vede anche nei rapporti: se uno diventa falso nel rapporto, se non è se stesso, la libertà si avvita su se stessa. Il rapporto tra l’uomo e la donna non esiste, io non l’ho mai visto camminare per strade, come fate voi mitizzando il rapporto. Esiste la verità personale dei due che sono in rapporto, questo esiste! Perciò se questo viene meno, evidentemente la libertà si avvita. Se, invece, la verità è ridotta a uno schema, non è l’assunzione della mentalità di Cristo. “Noi abbiamo il pensiero di Cristo”, dice San Paolo intendendo il pensiero non come nozione, ma come mens, come un modo di guardare la realtà. Dal Vangelo di Marco si capisce bene che cos’è il binomio libertà-verità. Ecco, noi dobbiamo ritrovare questa energia. Allora l’inevitabilità e l’attualità del dialogo tra noi e gli islam, sia geo-politicamente sia idealmente intesi, diventerà ovvia e naturale. L’accoglienza degli immigrati sarà accettata nella sua dimensione strutturale, che esprime appunto il mescolamento di questa fase della storia del mondo e che è inevitabile perché è un processo che si pone da sé, senza chiedere il permesso di accadere, e che al massimo può essere orientato. Dobbiamo perciò assumere con chiarezza l’impossibilità di considerare questo aspetto veramente potente della nostra storia, e che incide su tutti noi, come qualcosa che possiamo estromettere da noi, delimitandolo, ingabbiandolo dietro a frontiere. Non è assolutamente possibile, ma è anche affascinante, perché fa sì che sia che tu studi il latino o l’economia, hai un orizzonte effettivamente largo, mondiale; sei capace di andare al fondo del tuo specifico tenendo il più possibile conto di tutti i fattori. Questo voleva essere lo scopo dell’università: uni-versitas, volgere tutto verso l’unità. Dialogo Andrea Pin: Cogliendo uno dei tanti spunti, vorrei chiedere qual è la pertinenza dell’idea della speranza. È interessante vedere come le relazioni su piani diversi si intersechino: nell’arretramento della società, nella mancanza di una bussola dovuta alla crisi, quale speranza possiamo nutrire per il futuro? Abdelmajid Charfi: Innanzitutto la speranza non è un aspetto di un sistema religioso formalmente seguito dai credenti, ma è qualcosa che possono sperimentare tutti. Non si può che prendere atto che la speranza può essere condivisa dall’insieme di tutti i credenti. La speranza non si trova nei discorsi tanto diffusi oggi che predicano l’esclusione, come ad esempio i discorsi islamofobici, antisemiti, antieuropei e antimodernisti. Tutti questi discorsi hanno un’impronta identitaria e si costruiscono su alcuni aspetti del passato: le frontiere nazionali, lo Stato ideale o idealizzato, il califfato, le diverse società, etc. Quindi, al ripiegamento su noi stessi dovremmo contrapporre la speranza, ma non una speranza idealizzata di uguaglianza, giustizia, etc. Bisogna credere alla possibilità di una società fondata sulla ricerca continua di una convivenza migliore tra uomini e donne. La speranza di credere nella possibilità di integrare l’altro, che non riguarda soltanto la religione, ma ha a che fare con la felicità di ciascun individuo. Henry Laurens: Rispetto all’insieme delle crisi attuali con cui il mondo si trova a fare i conti non c’è una soluzione istantanea; nell’immediato sono molto pessimista. Farei dapprima una differenza fra identità e autenticità. Tutti abbiamo un’identità plurima: abbiamo un’identità in relazione all’ambito sociale di cui facciamo parte, quando siamo all’università o in famiglia, a Parigi o in qualsiasi altra città. Quello che siamo è dato dalla nostra identità, compresa l’identità politica. In Francia, sugli edifici pubblici sventola la bandiera dell’Unione Europea, quella dello Stato e quella della regione. È un esempio perfetto della coesistenza di diverse identità. Credo che, in generale, dobbiamo affrontare il problema dell’identità, sia sociale, sia culturale e anche in funzione delle differenze all’interno della società. Al contrario, l’autenticità non esiste, è in effetti un prodotto del pensiero europeo del XIX secolo. Questa ideologia genera razzismo e da essa sono nati i totalitarismi. Tutto ciò che si presenta sotto il nome di autenticità è potenzialmente pericoloso. È questo che va combattuto: rifiutare l’autenticità e difendere l’identità. Riccardo Redaelli: Viaggiando per lavoro in posti di guerra, spesso non ci si aspetta di incontrare la speranza. Eppure mi è capitato di vederla, in particolare in posti dove vivono le minoranze, soprattutto quelle cristiane, che sono le più soggette alle violenze. Qui la speranza si trova: le persone confidano che le violenze più dure non possono spezzare quel legame sacro tra la loro comunità e territorio. Poi penso al nostro continente, dominato da una paura generalizzata che ha molto a che fare con l’individualizzazione della speranza, legata a un orizzonte immanente. Dio va bene per qualcuno la domenica mattina, ma durante la settimana non interessa più. Non esiste una speranza collettiva nel futuro, in un futuro migliore per le nuove generazioni. Quando si perde questa dimensione collettiva, comunitaria, ci si rifugia in un concetto individuale della speranza. Noi europei abbiamo l’ossessione della morte, ma se sapessimo guardare oltremare, vedremmo persone che riescono ad avere una prospettiva di futuro che non è solo individuale ma è collettiva, o sub-collettiva. Potremmo imparare e riuscire ad avere una speranza comunitaria e non solo una prospettiva di disfacimento. Angelo Scola: Per rispondere prendo spunto dalla visita che ho fatto all’Istituto dei tumori. Ho partecipato a un incontro sull’incidenza della speranza nell’affrontare la malattia terminale, sulla possibilità di miglioramento concreto della qualità della vita e la prospettiva della morte per chi trova una relazione (tra i famigliari, cogli operatori sanitari, ecc.) che infonde speranza. Il cappellano dell’istituto mi ha impressionato perché, dopo aver presentato questa ricerca pubblicata su una rivista medica specializzata, è stato applaudito da tutti. Mi è sorto lo spunto per un collegamento con le tematiche riguardanti la crisi globale in tutte le sue sfaccettature. Lo scenario mondiale di cui stiamo discutendo ci porta a parlare di speranza, e questo significa essere realisti; ma è anche un’apertura di un orizzonte che da senso al mio vivere e forse dà a noi europei un po’ di dignità in più. Ci fa stare come “i più civici dei cittadini”, come diceva il poeta francese Charles Péguy, non per fare classifiche, ma per individuare esattamente la ricaduta civica che dovrebbe avere la relazione con Gesù e con i fratelli, con gli uomini delle religioni, con quelli alla ricerca e con tutti gli uomini in generale. Una società plurale carica di conflitti come la nostra non può prescindere dal fatto che dobbiamo vivere insieme e quindi abbiamo bisogno, come diceva Aristotele, di philía, di amicizia civica, che avviene dentro a un confronto continuo. A mio avviso, pertanto, la speranza qui mostra la sua potenza di virtù: un’apertura del cuore della persona anche nei momenti più difficili e più duri della vita. Vale quindi a livello personale e a livello della società; vale per la metropoli di Milano e vale per il cammino della famiglia umana. Questa speranza non è qualcosa che mi trovo dentro spontaneamente, ma è un dono. *Incontro tenutosi all’Università Cattolica il 27 novembre 2015