Profezia e martirio di Padre Christian-Marie de Chergé, monaco trappista in terra d’Islam

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:34:35

Ho ricevuto il testo delle lettere di p. Christian a p. Borrmans - islamologo, membro dei Missionari d’Africa, mancato il 26 dicembre 2017, ndr - quasi contemporaneamente alla notizia della sua scomparsa. Un profondo legame spirituale e di testimonianza li ha legati fino alla fine. Che a ben vedere non è affatto una fine, ma l'inizio sempre nuovo ed entusiasmante di chi testimonia contra spem l'unica autentica speranza, quella di chi vive nella luce e nella chiamata dell'Altro e dell'Oltre, in virtù di una misericordia che, il Cielo ne sia lodato, non è la nostra (Miguel Manara).

 

Nella notte fra il 26 e il 27 marzo del 1996 sette monaci trappisti del monastero di Tibhirine, in Algeria, sono stati sequestrati nel corso della sanguinosa guerra civile che ha fatto decine di migliaia di morti nel paese nordafricano, per essere ritrovati uccisi il 21 maggio. Erano Dom Christian de Chergé, Priore della comunità, 59 anni, monaco da 1969 e in Algeria dal 1971. Frère Luc Dochier, 82 anni, medico, monaco dal 1941, in Algeria dal 1947. Padre Christophe Lebreton, 45 anni, monaco dal 1974, in Algeria da 1987. Frère Michel Fleury, 52 anni, monaco dal 1981, in Algeria dal 1985. Era il cuoco della comunità. Padre Bruno Lemarchand, 66 anni, monaco da 1981, in Algeria e Marocco dal 1990. Padre Célestin Ringeard, 62 anni, monaco dal 1983, in Algeria dal 1987. Frère Paul Favre-Miville, 57 anni, monaco dal 1984, in Algeria dal 1989. Era il giardiniere. Non si saprà forse mai se coloro che hanno assassinato i sette monaci fossero davvero militanti islamisti o provocatori del regime, ma la loro morte - come la loro vita – è stata vissuta da loro stessi e percepita nel mondo come un martirio.

 

Queste brevi pagine intendono accostarsi con umiltà al mistero di questa esistenza vissuta e donata da religiosi cristiani in terra d’Islam, prendendo le mosse dal testamento spirituale che il Priore, intuendo il precipitare degli eventi, aveva scritto qualche tempo prima. Ben oltre i limiti delle circostanze in cui è avvenuta, questa testimonianza ha un valore profetico che la trascende e sta di fronte a noi come una provocazione, una salutare pietra d’inciampo, un fondamento da cui procedere a una seria verifica della nostra vita di cristiani, chiamati a un confronto non facile coi musulmani anche se in condizioni fortunatamente assai meno drammatiche, ma simili nelle dinamiche profonde e di valore universale, come mostrerà il documento con cui termineremo e che apre nuovi orizzonti nella mutua comprensione tra persone impegnate su cammini diversi eppure sostanzialmente rivolti nella medesima direzione.

Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, mi piacerebbe che la mia comunità, la mia chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era “donata” a Dio e a quel paese. Che essi accettassero che il Padrone unico di ogni vita non può essere estraniato da questa dipartita brutale. Che pregassero per me: come potrei essere trovato degno di questa offerta? Che sapessero associare questa morte a tante ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato. [Il testamento di padre Christian De Chergé]

 

Sulle orme di un monaco tra i musulmani

Ci sono logiche che talvolta attribuiamo al Vangelo in forza di una plausibilità persino troppo evidente. Il passo che ricorda l’ultima delle tre tentazioni che Gesù subì nel deserto rientra fra questi: «Di nuovo il diavolo lo portò con sé sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria, dicendogli: / “Tutte queste cose ti darò, se tu ti prostri e mi adori”. / Allora Gesù gli disse: “Vattene, Satana, poiché sta scritto: ‘Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi il culto’”».  

 

Come negare che si tratta anche di una radicale affermazione del monoteismo contrapposto ad ogni forma d’idolatria? Eppure, il Signore mi perdoni, non ce lo vedo proprio Cristo che si altera perché qualcuno Gli chiede di sottomettersi, quasi ne fosse stato ferito l’orgoglio.

 

In quel “Vattene, Satana…” ho sempre intuito un altro possibile senso. Un senso che, ancora una volta, vede Gesù fare scudo col suo stesso corpo alla fragilità delle creature. La “gloria” di “tutti i regni del mondo” non credo potesse tentarLo davvero, ma bastò la presunzione del Demonio di essere il vero padrone di tutte queste cose a suscitare piuttosto la sua indignazione.

 

Quelle cose di cui Egli comprendeva più di chiunque altro la miseria (nonostante le apparenze) e la dignità (oltre ogni apparenza) non erano affatto di Satana: come poteva presumere di offrirGliele? “Vattene” dunque, penso più profondamente significhi: lascia la tua pretesa di dominare, di possedere il mondo, poiché non ti appartiene.

 

Nelle vacue forme della nostra limitata prospettiva, ciò ci sfugge continuamente. Su questo equivoco si fonda il potere che il male esercita su di noi. Non a caso Gesù ha affermato “Non potete servire Dio e il denaro”. È significativo che non abbia usato un altro termine, ma denaro, ossia la nostra illusoria pretesa di possedere le cose che è l’ostacolo maggiore a comprenderne la vera natura e il senso ultimo. 

 

Che c’entra tutto questo con il testamento di P. Christian? Come Gesù, egli ha posto se stesso nel mezzo: intuì che la follia omicida – che tante stragi aveva fatto nella sua amatissima Algeria – avrebbe potuto coinvolgere, investire, distruggere anche lui… e non si tirò indietro, ma soprattutto si chiese che senso avrebbe potuto avere un simile dramma non “nonostante” ma “attraverso” ciò che aveva informato di sé la sua intera esistenza.

 

Ci sono momenti in cui il male predomina, quando gli innocenti, i deboli, i piccoli vengono sopraffatti. Accade continuamente, persino nelle relazioni più intime: la violenza folle o la lucida prevaricazione feriscono, oltraggiano, uccidono vite fragili, le soffocano, le deturpano irreparabilmente.

 

A questo orrore il Vangelo risponde con una logica tutta sua: perché nessuna particella di bene possa andare perduta, perché l’ultima parola non sia quella del male, perché nulla è impossibile a Dio. Un Dio che non resta nel Suo cielo, ma che viene a condividere la nostra condizione, per quanto irrimediabilmente compromessa possa apparirci.

 

Questo modo silenzioso e tenace semplicemente di “esserci” è del resto la cifra di molti personaggi evangelici. Uno che non viene tanto ricordato è Giuseppe, sposo di Maria. Lo si celebra banalmente come patrono dei lavoratori, oppure come un santo da invocare in punto di morte. Probabilmente è anche giusto che sia così, dato che per Maria e Gesù ha lavorato e probabilmente confortato da loro è spirato. Ma ne sappiamo ben poco. Quale eroismo ci sarebbe dunque in lui, rispetto agli intrepidi martiri confessori della fede nelle condizioni più estreme?

 

Uomo dell’Antico Testamento, distante dalla nostra sensibilità, fatto per agire più che per parlare, esercita apparentemente su di noi lo scarso fascino proprio delle figure defilate, non abbastanza avventurose. Avrebbe potuto persino non esserci. Il Corano, ad esempio, riserva ampio spazio a Maria e a Gesù, ma lui non vi appare. Già da allora, nel VI secolo, pur nella società patriarcale araba, simile in questo a quella ebraica, si è potuta immaginare una sacra famiglia senza Giuseppe. Maria sarebbe stata così una “ragazza madre” ante litteram, ancor più scandalosa e inaccettabile… Con tutto il rispetto per la presentazione coranica, non mi pare che si possa accettare questa espunzione, appunto perché si tratta di una presenza che rientra pienamente nella logica evangelica.

 

Il Verbo incarnato ha voluto nascere da una donna, come tutti noi, ma ha anche voluto che Sua madre non fosse sola. Non penso che la motivazione più profonda possa essere stata quella di preservarne la reputazione, ma piuttosto qualcosa che già all’origine era compreso nel destino dell’umanità: “Non è bene che l’uomo sia solo”.

 

Come una preoccupazione costante che torna a riproporsi: Aronne accanto a Mosè, Giuseppe accanto a Maria, i discepoli attorno a Cristo…Una presenza silenziosa, attenta, zelante che non chiede di capire, di apparire, di decidere. In quante piccole e indispensabili cose della vita quotidiana ciascuno di noi opera in questo modo, prendendosi cura di chi gli è affidato, mantenendo dignitosa e decorosa la propria casa, puliti e ordinati i propri abiti, accoglienti e salubri i luoghi di lavoro? Chi si attenderebbe buoni esiti dallo studio, da un’attività professionale, da uno sport praticato anche solo per hobby senza mettere in conto anche fatiche, impegno, dedizione?

 

Non calcoliamo quanto ci guadagneremo, il tempo e l’energia che ci verranno richieste, la certezza di risultati immediati, garantiti, eclatanti, ma piuttosto continuiamo a mettere in discussione noi stessi, mai convinti di aver fatto abbastanza, timorosi di esser stati inadeguati, trepidanti nell’accogliere anche i più timidi frutti della nostra appassionata dedizione: come nell’amicizia, nell’amore, negli affetti più profondi.

 

Una radicale consonanza tra la legge che governa l’universo e le nostre piccole storie d’amore ci fa sentire più forti, ci rende capaci di donare senza attendere il contraccambio, non come conclusione di un ragionamento e tantomeno di un calcolo costi-benefici, ma solo perché non potremmo fare altrimenti, in quanto sappiamo che è giusto così, che è la nostra strada, che non c’è alternativa altrettanto credibile, ragionevole, autentica e – quindi – altrettanto adeguata, efficace, redentrice.

 

Realismo

Già mi immagino le riserve che possono comprensibilmente sorgere: candore, ingenuità se non pensiero debole o addirittura relativismo. Non pretendo che dall’altra parte, quella dell’interlocutore, vi siano atteggiamenti sempre corrispondenti.

 

Ma non saprei pretenderli se non ci fosse da parte mia una totale disponibilità che si fa testimonianza, richiesta esigente di un rapporto alla pari, senza sconti e senza illusioni. Del resto i Magi, che pure passarono alla corte di Erode per dovere di ospitalità, per aliam viam fecero ritorno al proprio paese senza più passare ad annunciare che quello che attendevano era realmente accaduto, poiché non avrebbero ottenuto alcun autentico ascolto.

 

Ci son confini che non oltrepasseremo, come Mosé che vide solo in lontananza la Terra promessa verso la quale aveva guidato a lungo il suo popolo. Ci sono luoghi che dovremo abbandonare, sfide a cui saremo costretti a rinunciare, compagni di strada che ci lasceranno lungo il cammino… ma non per questo la strada sarà meno valida e la meta meno certa. L’apparente e momentanea sconfitta non avrà l’ultima parola semplicemente perché non cederemo alla tentazione di crederla tale.

 

Scuoteremo la polvere dei sandali dove non troveremo ascolto, ma non modificheremo per questo il messaggio, non torneremo a casa delusi, non rinunceremo all’annuncio. “Altri semina, altri raccoglie” è la norma non di un tempo cieco e tirannico, ma la condizione della pazienza, la prova della speranza, la verifica della fede.

 

Doverosamente e utilmente si determineranno delle regole, si porranno dei limiti, si indicheranno possibili rischi. Lo richiede la tutela del vivere in comune, soprattutto a difesa dei molti sprovveduti che ne pagherebbero le conseguenze a vantaggio di una minoranza cinica e arrogante.

 

Ma, e dovremmo già esserne convinti per esperienza diretta, nessun male potrà essere vinto nell’agone dei rapporti interpersonali se prima non sarà stato disinnescato dal fragile e tenace evento di una conversione personale. Non potremo chiedere agli altri di dare il meglio di sé quando da parte nostra vi fosse solo un ascolto distratto, una condiscendenza ipocrita, un coinvolgimento con troppe riserve.

 

Imprudenza? No, semplice realismo. Ciò su cui ho veramente potere di incidere subito è la parte che scelgo di mettere in gioco io… il resto ultimamente non mi appartiene e potrà riservarmi le più amare sorprese (come anche le più esaltanti scoperte, tanto straordinarie appunto perché tutt’altro che scontate, tantomeno garantite). Invece di subire di malavoglia questo destino, vale la pena abbracciarlo e di farne la propria filosofia di vita: “If equal affecion cannot be, let the more loving one be me” (“Se un affetto alla pari non si può dare, lasciate che sia io a più intensamente amare”).

 

Il mondo non potrà essere salvo prima che cambi il mio modo di guardarlo (già da ora e così com’è) e soprattutto di viverlo: ogni misura diversa da questa è illusione, poco importa se basata su umane analisi o teoremi religiosi, in entrambi i casi sarebbe un approccio meramente ideologico, che spesso lascia le cose come sono e talvolta addirittura le trasforma in peggio.

 

Poiché nulla è davvero quel che sembra. Anche le cose che riteniamo più nobili e perfino sacre non sono al riparo del limite in cui siamo radicalmente inscritti. Abitudini, timori, reticenze... persino meschini calcoli di convenienza in cui finiamo per essere talmente incalliti da non rendercene più nemmeno conto. Qualche virtù, che pure – nonostante tutto – non completamente ci manca, addirittura i sentimenti primordiali che ci legano a chi ci ha generato o che abbiamo generato, son frutto di esperienze della nostra specie, esito di meccanismi biologici e psichici che - a dispetto dei progressi di tutta la nostra “scienza” – abbiamo appena cominciato a decifrare lungo un percorso tortuoso e labirintico che non ci conduce ad alcuna certezza, ma spalanca davanti a noi soltanto nuovi abissi.

Eppure... Nulla è soltanto ciò che appare. Le più sconfortanti e deludenti conclusioni circa noi stessi e a proposito degli altri, del mondo stesso in cui siamo esiliati, non possono comunque cancellare l’intuizione che ogni cosa, per quanto banale, stupida, insensata... opaca, sporca o incontestabilmente negativa, ci stia davanti come un segno: incerto, fioco, persino rovesciato... monco, deforme, talvolta addirittura osceno, ma che rimanda disperatamente ad altro. Che, almeno con una infinitesima parte di sé, non rinuncia a volersi ricongiungere con una remota origine, con un’incerta meta, come in un gioco assurdo, spesso crudele, che segue tuttavia un misterioso ritmo ed obbedisce ad una norma ignota.

Paralizzati nell’incertezza in cui c’intrappolano queste opposte sensazioni, feriti dalle loro devastanti conseguenze, incapaci di giudicare se valga la pena di tenere ancora aperti gli occhi, inutilmente affaticati da tanto inconcludente rovistare... sappiamo – lo sanno la nostra debole mente e il nostro infido cuore – che è meglio non ci accada di essere raggiunti dal più enigmatico dei rimproveri evangelici: “Abbiamo intonato un canto e non avete danzato. Abbiamo suonato un lamento e non avete pianto”.

 

Reciprocità

Quando ci capitasse di non avere in cambio ciò che attendiamo, nulla vieta di dire semplicemente ciò di cui trabocca il cuore, foss’anche un lamento, una protesta, una contestazione persino pregiudiziale. “Abbiamo trovato il Messia: Gesù di Nazareth”, e Natanaele “Può forse venire qualcosa di buono da Nazareth?”. Campanilismo? Scarsa considerazione per un villaggio tanto fuori mano? Il Cristo non sembra interessato alla polemica. L’animo che ha reclamato è puro: “Ecco un israelita in cui davvero non c’è inganno”. E il miracolo si compie: “Come mi conosci?”

 

Accompagnare gli altri è dire un sì che non si esaurisce nella prima decisione, ma si rinnova ogni momento, anche e forse soprattutto in quelli in cui si fatica: tutto ciò ha l’elementare nome di fedeltà.

 

È un impegno che non ammette riserve mentali: chi di noi direbbe alla donna che vuole sposare: “ti amerò a lungo”? Vogliamo e dobbiamo dire: “ti amerò per sempre”, perché solo questa è la misura dell’amore: totale e definitivo, anche se mai compiuto e sempre fragile, almeno nell’intenzione non ammette sconti.

 

P.Christian ha fatto questo: verso il Signore che l’aveva chiamato, verso la terra in cui viveva e verso la sua gente. Tutta la sua gente. Musulmani, per la stragrande maggioranza, che certo non capivano fino in fondo la sua presenza tra loro. Qualcuno l’ha potuta così tragicamente fraintendere da sollevare la mano contro di lui. Per questo, di fronte a tale estrema conseguenza, egli ricorda nel proprio testamento che la sua vita, lui stesso, erano là secondo un principio di totale gratuità.

 

Gratuità imparata nel gesto dell’offertorio, quando portiamo all’altare pane e vino che simboleggiano la nostra carne e il nostro sangue assunti da Cristo e redenti dal suo sacrificio. “Fate questo in memoria di me” non credo possa significare solo celebrare la Messa, ma accettare e restituire come dono tutto il nostro essere.

 

Nessuna economia reale sembrerebbe potersi reggere su simili princìpi, non sarebbe sostenibile. Eppure fu il corpo di Gesù a sostenere la croce, non il contrario, come potrebbe apparire. È la logica rovesciata dei voti di povertà, castità e obbedienza… simile nel sufismo islamico e in tutte le forme di spiritualità.

 

Ma, prima ancora, è la regola dei genitori che si sacrificano per i figli, di chi dedica la vita alla realizzazione di un ideale, di chi spera contro ogni evidenza che sia possibile andare oltre i limiti di un semplice baratto: dare per ricevere, investire per guadagnare…

 

È a questa scelta che viene promesso il centuplo, il resto – se va bene – rende comunque molto meno e, soprattutto, non rende felici. Se va male, e la crisi della finanza lo sta clamorosamente dimostrando, è la rovina per tutti. Belle parole, sogni, utopie…per p. Christian non si è trattato solo di modi di dire, iperboli o paradossi buoni per qualche predica, finita la quale ben altre realistiche considerazioni avrebbero preso il sopravvento.

 

In questo è stato profeta e martire, ossia testimone di quanto la vita possa cambiare, pur e forse necessariamente attraverso l’apparente sconfitta. Una decina di anni dopo, senza che nessuno pare se ne sia accorto tra i tanto zelanti giornalisti che si avventano su ogni pettegolezzo, uno studioso musulmano ha riconosciuto in un martirio simile la cifra della fede cristiana, scrivendo questa lettera a un collega cristiano ucciso dopo il suo rientro in un’altra terra araba martoriata, l’Iraq.

 

«Nel nome di Dio clemente, misericordioso, Roma, 4 giugno 2007. Fratello mio Ragheed, ti chiedo perdono, fratello mio, di non essere stato al tuo fianco quando i criminali hanno aperto il fuoco su te e i tuoi fratelli, ma le pallottole che hanno attraversato il tuo corpo puro e innocente hanno attraversato anche a me il cuore e l’anima. Tu eri una delle prime persone che ho conosciuto al mio arrivo a Roma, nei corridoi dell’Evangelicun dove abbiamo fatto conoscenza e abbiamo preso il nostro cappuccino insieme nel bar dell’Università. Mi avevi sbalordito con la tua innocenza, la tua gaiezza, il tuo sorriso tenero e puro che non ti abbandonava mai. Da quel momento non posso immaginarti che sorridente, felice, pieno di gioia di vivere. Ragheed per me è l’innocenza incarnata, un’innocenza saggia che porta nel cuore le ansie del suo popolo sfortunato. Mi ricordo del tempo in cui eravamo nella mensa dell’Università, nel periodo in cui l’Iraq era sotto embargo: mi avevi detto che il prezzo di un solo cappuccino avrebbe potuto soddisfare i bisogni di una famiglia irachena per un giorno intero, come se tu ti sentissi in qualche modo colpevole di essere lontano dal tuo popolo assediato e di non condividerne le sofferenze. Ed eccoti di ritorno in Iraq, non solamente per condividere con le persone il loro carico di sofferenza, ma anche per mescolare il tuo sangue a quello di migliaia di iracheni che muoiono ogni giorno. Non potrò dimenticare il giorno della tua ordinazione all’Urbaniana. Con le lacrime agli occhi, mi avevi detto: “Oggi, sono morto per me stesso”, una frase molto dura. Al momento, non l’avevo ben compresa, o forse non l’avevo presa sul serio come avrei dovuto. Ma oggi, con il tuo martirio, l’ho compresa, questa frase. Tu sei morto nella tua anima e nel tuo corpo per risuscitare nel tuo beneamato e tuo maestro, e perché il Cristo risusciti in te, malgrado le sofferenze e le tristezze, malgrado il caos e la demenza. Nel nome di quale Dio della morte ti hanno ucciso? In nome di quale paganesimo ti hanno crocifisso? Sapevano davvero quello che facevano?! Noi non ti domandiamo, O Dio, vendetta o rivincita, ma vittoria. Vittoria del giusto sul falso, della vita sulla morte, dell’innocenza sulla perfidia, del sangue sulla spada. Il tuo sangue non sarà vano, caro Ragheed, perché ha santificato la terra del tuo Paese. Il tuo sorriso tenero continuerà a illuminare dal cielo le tenebre delle nostre notti e ad annunciarci dei giorni migliori. Perdonami, fratello mio, ma quando i vivi si incontrano credono di avere tutto il tempo per conversare, per rendersi visita e dirsi i loro sentimenti e pensieri. Mi avevi invitato in Iraq, lo sogno sempre, per visitare casa tua, i tuoi genitori, vedere il tuo ufficio. Non avrei mai immaginato che sarebbe stata la tua tomba che visiterò un giorno o dei versetti del mio Corano che reciterò per il riposo della tua anima. Un giorno ti ho accompagnato per acquistare dei souvenir e dei regali per la tua famiglia alla vigilia della tua prima visita in Iraq, dopo una lunga assenza. Mi avevi parlato del tuo lavoro futuro. “Vorrei giudicare le persone su una base di carità prima che di giustizia”, mi avevi detto. Mi era difficile allora immaginarti come un giudice canonico. Ma ecco che oggi il tuo sangue e il tuo martirio hanno detto la loro parola, un verdetto di fedeltà e di pazienza, di speranza contro ogni sofferenza, e di sopravvivenza malgrado la morte, malgrado il nulla. Fratello, il tuo sangue non è stato versato invano e l’altare della tua chiesa non era una mascherata. Avevi preso il tuo compito sul serio, fino alla fine, con un sorriso che nulla potrà spegnere mai. Il tuo fratello che ti ama, Adnan Makrani, Professore di Islamologia all’Istituto di Studi delle religioni e delle civiltà. Pontificia Università Gregoriana. Roma».

 

Semi di verità, di giustizia, di carità vengono gettati quotidianamente nel nostro terreno arido sul quale costruiamo patetiche difese ignorando quanto potrebbe germogliare attorno a noi. La saggezza della tradizione cristiana pone, subito dopo il Natale, la festa del primo martire… forse non causalmente sto terminando queste note proprio il 26 dicembre del 2008.

 

La dolcezza della festività natalizia, condivisa proprio quest’anno con amici ebrei e musulmani attorno alla stessa mensa, non può anestetizzarci rispetto a quella che da subito sarà la conseguenza, gioiosa e terribile, per chi avrà compreso l’arcano mistero dell’incarnazione del Verbo.

 

Immediatamente, la vita non ci appartiene più, e nell’atto umile e quotidiano con cui la metteremo al servizio degli altri ci sarà già resa liberata da ogni meschinità ed ogni limite, perché ormai trasfigurata, compiuta pur nella sua perdurante frammentarietà, rivelata a se stessa nell’atto del con-dividere, apparente perdita, diminuzione, sottrazione… in realtà feconda, nuova, perenne nascita, beatitudine anticipata che tutto ricomprende, per custodirlo, accrescerlo, restituirlo finalmente al Padre il quale, se dal nulla ci ha evocati, al fondo d’ogni anche infinitesimale cosa ci attende e ci chiama, facendone il luogo della vita ricomposta, pacificata, restaurata nell’armonia a cui diamo il nome di comunione, tra noi tutti, con tutto e con Lui, se solo avremo evitato di stringere le dita per un illusorio possesso ma aperto il cuore e le mani nel gesto umile e solenne dell’offerta. 

 

[Immagine su gentile concessione di Mondo e Missione, originale qui]

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