La lettera scritta due anni prima di morire dal priore del monastero di Tibihrine, ucciso con altri sei monaci in Algeria nel 1996

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:34:51

Algeri, 1° dicembre 1993/Tibhirine, 1° gennaio 1994

 

Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, mi piacerebbe che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a quel Paese. Che essi accettassero che il Padrone unico di ogni vita non può essere estraniato da questa dipartita brutale. Che pregassero per me: come potrei essere trovato degno di questa offerta? Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell’indifferenza dell’anonimato.

 

La mia vita non ha prezzo più alto di un’altra. Non vale di meno né di più. In ogni caso, non ha l’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto abbastanza per considerarmi complice del male che sembra, ahimè, prevalere nel mondo, e anche di quello che mi può colpire alla cieca. Mi piacerebbe, se venisse il momento, avere quello sprazzo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nel tempo stesso di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse ferito.

 

Non posso auspicare una morte così. Mi sembra importante dichiararlo. Infatti non vedo come potrei rallegrarmi del fatto che un popolo che amo sia indistintamente accusato del mio assassinio. Sarebbe un prezzo troppo caro, per quella che forse chiameranno la “grazia del martirio”, doverla a un algerino qualsiasi, soprattutto se questi dice di agire nella fedeltà a ciò che crede essere l’Islam. So bene il disprezzo del quale si è arrivati a bollare gli algerini globalmente presi. Conosco anche le caricature dell’Islam che un certo islamismo incoraggia.

 

È troppo facile mettersi la coscienza in pace identificando questa religione con gli integrismi dei suoi estremisti. L’Algeria e l’Islam, per me, sono un’altra cosa, sono un corpo e un’anima. Ho proclamato abbastanza, credo, davanti a tutti, quel che ne ho ricevuto, ritrovandovi così spesso il filo conduttore del Vangelo appreso sulle ginocchia di mia madre (tutta la mia prima Chiesa), proprio in Algeria e, già allora, con tutto il rispetto per i credenti musulmani. Evidentemente, la mia morte sembrerà dar ragione a quelli che mi hanno considerato con precipitazione un naif o un idealista: «Ci dica adesso quel che pensa!». Ma queste persone devono sapere che la mia più lancinante curiosità verrà finalmente soddisfatta.

 

Ecco che potrò, a Dio piacendo, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’Islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua Passione, investiti dal dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre stabilire la comunione, ristabilire la rassomiglianza, giocando con le differenze.

 

Questa vita perduta, totalmente mia, totalmente loro: rendo grazie a Dio che sembra averla voluta interamente per quella gioia, nonostante tutto e contro tutto. In questo Grazie in cui è detto tutto, ormai, della mia vita, comprendo certamente voi, amici di ieri e di oggi, e voi, amici di questa terra, accanto a mia madre e a mio padre, alle mie sorelle e ai miei fratelli, centuplo accordato secondo la promessa!

 

E anche te, amico dell’ultimo minuto, che non sapevi quel che facevi. Sì, anche per te voglio prevedere questo Grazie e questo Addio. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in Paradiso, se piacerà a Dio, nostro Padre comune. Amen! Insciallah.

 

[Da «L’Osservatore Romano», 1° giugno 1996]

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