Secondo padre Jean-Jacques Pérennès, direttore dell’Istituto domenicano di Studi orientali del Cairo «è innegabile che il popolo egiziano sostiene in massa la lotta in corso contro l’estremismo dei Fratelli musulmani».

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:39:02

L’Egitto vive ore drammatiche, che suscitano nella stampa occidentale una condanna senza distinzioni delle forze di sicurezza egiziane, contribuendo a rafforzare nell’opinione pubblica la convinzione che la destituzione di Mohammed Morsi sia stata una malaugurata iniziativa, “un vero e proprio colpo di Stato contro un Presidente democraticamente eletto”. Naturalmente deploro le centinaia di morti provocate dall’evacuazione delle due piazze occupate per sei settimane dai Fratelli musulmani e avrei preferito che le cose si fossero svolte diversamente. Tuttavia sono necessarie alcune precisazioni: - La destituzione di Mohammed Morsi è stata il risultato di un immenso movimento popolare di protesta che ha mobilitato milioni di Egiziani di ogni età, confessione, classe sociale. Questa mobilitazione è stata molto più ampia di quella che aveva rovesciato Mubarak due anni e mezzo prima e fa pensare che una grande maggioranza di musulmani egiziani abbia capito, dopo solo un anno, che bisognava farla finita con l’islamismo politico. È un’ottima notizia e annuncia, speriamo, un freno se non una battuta d’arresto per l’Islam politico che ammorba da decenni il destino del Medio Oriente. Se questa transizione riuscisse si tratterebbe di un fatto decisivo per tutta la regione, che guarda questo Paese con meno pregiudizi dell’Occidente, il quale, ancora una volta, giudica quanto accade con uno sguardo troppo semplificatore. L’esercito egiziano è stato lo strumento di questa transizione ed è improbabile che voglia continuare a gestire il potere visto quello che ha amaramente sperimentato tra il febbraio 2011 e il giugno 2012. Certo, si preoccupa di conservare i propri privilegi, ma è innegabile che il popolo egiziano appoggia in massa la lotta in corso contro l’estremismo dei Fratelli musulmani. - La seconda precisazione è che i Fratelli musulmani egiziani sono stati smascherati. Approfittando dell’apertura democratica della Primavera del 2011, che ha permesso loro di costituire il proprio partito politico, il partito Libertà e Giustizia, essi hanno potuto accedere al potere tentando di rassicurare tutti sulle proprie intenzioni (“non monopolizzeranno il potere, i copti saranno considerati cittadini in tutto e per tutto, ecc.”). Oggi ci vediamo più chiaro. Mohammed Morsi si è comportato in modo settario: non come il Presidente di tutti gli egiziani ma come la cinghia di trasmissione della Confraternita dei Fratelli musulmani, diventata, sotto l’apparenza di una democrazia formale, il vero centro del potere politico. Questo gli egiziani l’hanno capito in fretta, a cominciare da molti di quelli che hanno votato per loro convinti che, guidati dall’Islam, avrebbero davvero servito il bene comune del Paese. In realtà essi hanno lavorato soprattutto per accaparrarsi il potere, usando tutti i metodi per assicurarsi delle poltrone e non offrendo altro che un discorso politico-religioso a una popolazione che per il 40% vive al di sotto della soglia di povertà e che si aspettava lavoro, ospedali decenti, scuole che funzionano, più giustizia sociale. Un anno di potere è bastato per screditare i Fratelli musulmani agli occhi della grande maggioranza degli egiziani. - La terza chiarificazione è emersa in queste ultime settimane quando, al momento della destituzione di Mohammed Morsi, i dirigenti della Confraternita hanno invitato i propri partigiani a «resistere fino al martirio». Immensa responsabilità, conoscendo le risonanze che questa formula produce nell’inconscio musulmano: jihad, paradiso promesso, ecc. Il governo ad interim ha proposto loro di tornare nel gioco politico, nel quale è legittimo che abbiano un posto visto che hanno un’autentica base popolare. L’Unione europea e gli Stati Uniti hanno fatto dei tentativi di mediazione, ma non è servito a niente: la loro logica oltranzista ha portato al dramma di questi giorni, in cui a morire sono i militanti di base e non i dirigenti della confraternita, che hanno una grande responsabilità nel bagno di sangue che ne è derivato. - Infine, come credere oggi ai discorsi lenitivi tenuti negli ultimi mesi dai Fratelli musulmani per rassicurare i cristiani egiziani? I discorsi pieni di odio pronunciati troppo spesso nelle moschee e negli ambienti islamisti hanno dato i loro frutti in questi ultimi giorni: incendi di decine di chiese, di due monasteri e di un orfanotrofio, pestaggio di religiose che pure avevano passato la vita a servire i poveri, e si può temere che la cosa non sia finita. L’Occidente – stampa e responsabili politici allo stesso tempo – hanno la grave responsabilità di essersi limitati a condannare unilateralmente la repressione in corso, mentre tutti hanno taciuto quando Mohammed Morsi si è arrogato i pieni poteri, quando ha fatto passare forzatamente una Costituzione destinata a gettare le basi di uno Stato islamico alla fine della pagliacciata di un’Assemblea costituente blindata dai Fratelli musulmani. Si parla oggi di tagliare i viveri all’Egitto, ciò che non farebbe altro che farlo precipitare un po’ di più nella miseria e nella braccia degli estremisti. Fatta questa costatazione drammatica, cosa augurarsi per il futuro? - Innanzitutto la ripresa, il più presto possibile, del dialogo politico tentato dagli emissari europei e americani. Le petromonarchie del Golfo non hanno nascosto la loro intenzione di essere attori decisivi nel futuro dell’Egitto: sostenendo il rovesciamento di Morsi e proponendo immediatamente un aiuto finanziario di 14 miliardi di dollari, preziosissimo per un Paese esangue, questi Paesi si garantiscono un ruolo per il futuro. Non sono nella posizione migliore per appoggiare l’aspirazione alla libertà e alla cittadinanza che la Primavera araba ha fatto nascere. La squadra che governa l’Egitto è fragile: i vincoli economici e sociali ai quali deve fare fronte sono gravosi. Lo Stato deve lottare peraltro contro un autentico rischio jihadista nel Sinai, che potrebbe condurre a una deriva terrorista. Gli egiziani aspettano dall’Occidente meno condanne e più sostegno. - Il potere ad interim ha già intrapreso una revisione della Costituzione che Mohammed Morsi aveva fatto passare senza un sufficiente dibattito. Prevede di organizzare non appena possibile delle elezioni legislative e presidenziali. È la strada migliore per un ritorno rapido a un funzionamento normale delle istituzioni, che vedrebbe i militari rientrare nelle caserme e i politici riprendere i pieni poteri. Non sarà facile: i rischi di un ritorno dei fedeli di Mubarak non sono pochi; i “liberali” egiziani sono ancora troppo divisi; i giovani rivoluzionari di Tahrir troppo idealisti. Per la nascita di una democrazia occorreranno anni. Bisogna dare a questo Paese il tempo necessario per arrivarci, accompagnarlo e sostenerlo in questa conquista. - Per il momento, le ferite e il risentimento sono profondi sia tra i Fratelli musulmani che tra i copti. Ci vorrà molto tempo perché la società egiziana curi queste piaghe, ma, rispetto ad altri Paesi del Medio Oriente (Iraq, Libano, Siria) l’Egitto ha il vantaggio di essere un Paese omogeneo, privo di fratture regionali o etnico-religiose. Non è nato dalla spartizione della regione dopo la caduta dell’Impero ottomano e questo è oggi un prezioso asso nella manica. Ciò non toglie che il drammatico episodio che abbiamo appena vissuto sarà forse considerato fra qualche anno la prima tappa dell’invenzione da parte di un popolo a maggioranza musulmana di un futuro post-islamista. Se questo venisse confermato, si tratterebbe per l’Egitto e per tutta la regione di una immensa buona notizia, che merita di meglio dei nostri giudizi affrettati. Articolo pubblicato su La Croix il 22 agosto 2013. Traduzione dal francese a cura della Fondazione Oasis