Intervento di Wael Garnaoui alla conferenza internazionale “Cambiare rotta. I migranti e l’Europa” del 28 settembre 2023

Ultimo aggiornamento: 14/03/2024 14:14:44

Ringrazio la Fondazione Oasis per avermi invitato all’Università Cattolica di Milano. Io parlerò dell’impatto dell’esternalizzazione delle frontiere sulla Tunisia, sui tunisini e sui migranti che arrivano in Tunisia. Cercherò di contestualizzare un po’ la situazione nel Paese. So che avete già affrontato il tema questa mattina, ma io vorrei proporre la mia opinione e la mia interpretazione. Nei primi otto mesi del 2023 in Italia sono arrivati clandestinamente 9.300 tunisini. Di questi, 2.500 sono donne e 680 bambini, mentre 1.000 persone sono disperse secondo il Forum tunisino per i Diritti economici e sociali. Secondo le statistiche dell’Osservatorio tunisino delle Migrazioni, il 40% dei tunisini tra i 15 e i 29 anni pensa di lasciare la Tunisia e prepara il suo progetto di migrazione. Da qualche anno inoltre è in atto una migrazione consistente di ingegneri, medici e tecnici sanitari tunisini. Interi villaggi hanno lasciato il Paese per raggiungere l’Europa, e molte persone sono morte in mare.

Dopo lo scioglimento del Parlamento tunisino, il presidente Kais Saied ha perso la legittimità politica di fronte ai sindacati e alla società civile, ma anche all’Unione europea e ai governi europei. La questione migratoria ha posto Saied in una situazione vantaggiosa, permettendogli di ritrovare una legittimità politica. Il presidente ha iniziato a discutere, a comunicare e ad avere incontri con i governi europei, tra cui quello italiano. L’Unione europea ha fatto pressioni sullo Stato tunisino affinché questi rafforzasse le politiche di esternalizzazione delle frontiere in Tunisia. Esternalizzare le frontiere significa esportarle, spingerle verso Paesi terzi. Ciò vuole dire che l’Africa settentrionale diventa la frontiera europea e che i centri di detenzione, i centri di espulsione e i centri di accoglienza degli immigrati vengono collocati in Tunisia anziché a Lampedusa, in Sicilia o in altre città italiane. Questo rafforzamento delle frontiere passa attraverso il ​​finanziamento delle forze dell’ordine e delle tecniche di repressione della mobilità dei tunisini e dei migranti che attraversano la Tunisia.

 

Quando si parla della politica di esternalizzazione delle frontiere, si parla generalmente di controllo dei migranti. Ma si dimentica l’altra faccia della medaglia: l’esternalizzazione ha un impatto enorme anche sulle popolazioni dell’Africa settentrionale e sulla Tunisia. Per esempio, l’isola di Kerkennah, una grande isola in Tunisia che conta tra i 50 e i 100mila abitanti, è stata chiusa ai tunisini. Per la prima volta nella storia della Tunisia, dei territori del Paese sono stati vietati agli stessi tunisini. Kerkennah è a 60 chilometri da Lampedusa, perciò i tunisini o i rifugiati passano da lì per andare in Italia. Nel porto di Sfax si commettono reati a sfondo razziale e arresti ai danni di chi va a Kerkennah; ci sono tunisini che non possono raggiungere i propri familiari sull’isola.

 

Inoltre, rafforzare le frontiere significa finanziare la polizia tunisina e militarizzare il Paese: è sempre più frequente vedere posti di blocco perché i tunisini sono diventati tutti migranti potenziali. Limitando la circolazione si creano una certa immobilità e un certo controllo delle persone anche all’interno del Paese.

 

Allo stesso tempo, l’esternalizzazione delle frontiere ha provocato un’invasione delle città tunisine da parte di rifugiati e richiedenti asilo provenienti dall’Africa sub-sahariana, dal Sudan, dal Senegal, dal Sahel e da altri Paesi. I flussi migratori provengono principalmente dall’Algeria, non dal lato libico. Questo è ciò che sta accadendo ultimamente, perché non si possono fermare le persone che sono in movimento: se chiudi un varco, i migranti apriranno un’altra rotta, è la natura dell’uomo. È la “pulsione viatoria”: non si può impedire alle persone di partire. Se impedisci loro di partire, partiranno ancora di più, certo non smetteranno. È una delle ipotesi che sostengo nella mia tesi di dottorato.

 

Ci sono dunque conseguenze sulle dinamiche sociali, sulla vita quotidiana delle città e sulle persone. Le persone temono di non poter lasciare la Tunisia e di rimanere bloccate insieme ai grandi flussi migratori di rifugiati nel bel mezzo della crisi economica che sta colpendo il Paese. L’esternalizzazione delle frontiere spinge le persone a emigrare clandestinamente. La causa della migrazione clandestina non è sempre una crisi economica, ma può essere anche il divieto di viaggiare. Quando si impedisce a qualcuno di avere un visto, la persona partirà clandestinamente. È quello che ho definito “il trauma della mobilità”: le persone sono traumatizzate perché per partire devono avere un visto, che è quasi impossibile da ottenere. E anche se soddisfano i criteri per averlo, non possono partire. L’idea di rimanere bloccati in Tunisia per tutta la vita crea in loro una sorta di ansia, di fobia, di trauma e anche di depressione. L’unica soluzione è fuggire, lasciare il Paese. Questo è il motivo per cui oggi tutti parlano di “harga”. “Harga” significa migrare clandestinamente, partire, fuggire, mentre “hajja” significa partire e non tornare. In questo modo un semplice desiderio di partire diventa desiderio di lasciare il Paese senza farvi ritorno.

 

Allo stesso tempo, l’esternalizzazione delle frontiere implica un maggiore controllo del mare da parte della polizia. La traversata diventa quindi molto pericolosa per i migranti tunisini o subsahariani: se attraversare il mare diventa più difficile, i migranti prenderanno strade più rischiose. Quest’anno sono 1.000 le persone disperse in mare. Ci sono quindi 1.000 famiglie che soffrono un lutto complicato. I genitori dei dispersi, per esempio. Ci sono mamme che hanno sintomi nuovi: non mangiano più pesce perché i pesci hanno mangiato i loro figli, o hanno un rapporto delicato con il mare e quando lo vedono sono traumatizzate. In Tunisia, la mattina ci svegliamo con le notizie dei morti in mare, perciò tutte le persone vedono la morte. In questo contesto l’unica soluzione è lasciare il Paese per non finire morti in mare. Tutti preparano la propria partenza sin dalla scuola superiore, ma ci sono sempre più restrizioni sui visti, sulla mobilità. Con le restrizioni aumenta il “desiderio di Occidente”, il desiderio di partire, di fuggire.

 

In questa politica c’è una grande ambivalenza. La migrazione è selettiva: da un lato, i medici, gli ingegneri e i tecnici sanitari partono per la Francia, i professori lasciano le proprie università alla volta dei Paesi del Golfo; dall’altro, i migranti clandestini che arrivano in Italia o in Francia vengono espulsi e trasferiti in Tunisia. Per un giovane non c’è cosa peggiore di essere espulso da un Paese, perché pensa di essere arrivato in paradiso e poi viene espulso.

 

L’esternalizzazione influisce anche sul rapporto tra i tunisini e i rifugiati. Dal 2011, ad esempio, c’è la questione della ricezione e dell’accoglienza dei profughi fuggiti dalla rivoluzione e poi dalla guerra civile libica. Dopo averli accolti, ora i tunisini li attaccano e li trattano in maniera razzista. L’esternalizzazione delle frontiere ha avuto un impatto anche sulla coscienza dei tunisini: improvvisamente sono diventati tutti razzisti nei confronti dei migranti e spesso si vedono conflitti nella città di Sfax, a Zarzis, nel sud della Tunisia… Allo stesso tempo questo discorso ha legittimato la violenza sui richiedenti asilo e i rifugiati, e anche da parte della polizia: si vede la polizia arrestare persone, prendere i barconi dei migranti, rubarli o gettarli in mare, e ormai anche i pescatori si permettono atti criminali. Su questo ci sono molte testimonianze: io, come tanti altri ricercatori tunisini, italiani e francesi, ho lavorato molto su questo tema.

 

L’altro lato della questione è quando i migranti arrivano a destinazione. Arrivano in Italia, per esempio, sognando una vita migliore. Dopotutto, i migranti non sono criminali o pazzi, sono persone che cercano una vita migliore che non è più possibile nel loro Paese, anche perché non sono più liberi di circolare. Il divieto di circolazione blocca tutti i loro interessi e la loro vita, a livello economico, sociale e culturale. Quando arrivano in Italia, i tunisini o i rifugiati si ritrovano in centri di detenzione in cui dominano il razzismo e la disumanità. Questo ci ricorda, per esempio, il caso di Anis Amri, responsabile dell’attacco terroristico di Berlino [del 19 dicembre 2016 NdR], sul quale ho lavorato. Amri aveva trascorso quattro anni in carcere in Italia: il suo sogno, il suo amore per l’Europa si è trasformato in odio per l’Occidente. È diventato un jihadista perché non ha potuto godere del comfort dell’Europa e di una vita migliore. L’esternalizzazione delle frontiere trasforma un desiderio in odio e vendetta.

 

In conclusione, la paura della reclusione e il trauma dell’immobilità hanno creato in Tunisia il desiderio di partire per l’Europa, in un contesto in cui il mare è circondato da frontiere. Di conseguenza, nei prossimi mesi avremo, credo, più morti e dispersi nel Mediterraneo. Da qualche anno l’Unione europea propone di bloccare le persone in un Paese e dare loro dei soldi per aiutare lo sviluppo, ciò che però non produce risultati concreti. Gli esseri umani hanno bisogno di muoversi per imparare e svilupparsi. Senza mobilità non si può creare un processo culturale, non si può sviluppare un Paese. Le soluzioni che bloccano il movimento, la “pulsione viatoria” presente già nel bambino – nell’istinto di camminare, per esempio – bloccano anche lo sviluppo. L’esternalizzazione si ripercuote su tutte le categorie della popolazione tunisina: ha delle conseguenze sull’economia, sul sentimento di alterità e sull’amore per gli altri. Crea un maggiore desiderio di partire e di lasciare il Paese, e crea delle conflittualità all’interno della Tunisia, politiche o anche sociali, che possono sfociare nella violenza.

 

Vi ringrazio per l’attenzione.

 

 

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
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