Da Nagib Mahfuz a Muhammad al-Bisātī, la storia del potere, delle oppressioni, delle rivoluzioni passa attraverso le pagine dei grandi romanzi

Ultimo aggiornamento: 15/03/2024 12:04:45

Il giorno in cui fu assassinato il leader, si intitola il romanzo breve di Nagib Mahfuz che sviluppa un tema centrale nella storia recente del Paese, dal momento che vi si narra dell’assassinio ben reale del presidente-faraone. Un titolo che permette di fissare un primo dato: la figura del rais nella letteratura egiziana è legata alla morte (violenta). Ancora con l’assassinio di un leader si conclude il racconto Il leader di Muhammad al-Bisātī: qui il leader non è una precisa figura storica, è un non meglio definito “eroe della lotta per l’indipendenza” di un “Paese vicino” (arabo? africano?), protagonista paradigmatico della storia post-coloniale. Il numero dei leader morti metaforicamente supera tuttavia quello dei morti ammazzati, sottolinea Alwān, uno dei personaggi del romanzo di Mahfuz, che ne elenca alcuni: l’eroe della patria Mustafā Kāmil Pāshā, uno dei primi nazionalisti, martire della lotta e della malattia alla fine del XIX secolo e a cavallo del XX; Muhammad Farīd, suo erede politico e Sa‘d Zaghlūl, l’eroe della prima Rivoluzione, quella contro gli inglesi, del 1919, martire dell’esilio, o ancora Mustafā al-Nahhās, altra grande figura del nazionalismo egiziano, martire della persecuzione. E poi, conclude, c’è “Gamal, martire del 5 giugno”. La storia dunque trasforma gli eroi in martiri, e crea quella disposizione alla disperazione che è un vero e proprio tratto morale nazionale. “Siamo un popolo che prova più piacere nella sconfitta che nel successo. Una lunga serie di sconfitte ha depositato in noi un fondo di tristezza. Amiamo le canzoni patetiche, il teatro drammatico, gli eroi perdenti”. Come dare torto a Alwān? Attorno a Gamal Abdel Nasser, lo sconfitto del 5 giugno, questa disposizione trova la più alta espressione politica. Chi non ricorda le dimissioni offerte al Paese da Nasser dopo la sconfitta nella Guerra dei Sei giorni, le immense manifestazioni con cui tutto un popolo gli chiese di rimanere al potere? Rimani! fu allora lo slogan, speculare al Vattene! (Irhal, in arabo), delle manifestazioni anti-Mubarak nel 2011. La dialettica dell’azione politica non può che essere binaria: vattene/rimani (muori/vivi), la forma quella di un rituale collettivo (funebre o festoso). La morte del leader è motore dell’azione politica. I termini usati non sono neutri. Il rais, presidente (capo) è, sia in Mahfuz sia in Bisātī, za‘īm, leader. Il termine ha connotazione militare, deriva da za‘ama, “parlare per conto di”, farsi portavoce, capofila di un partito (il Wafd di Zaghlūl negli anni 1920) o di un gruppo (in Libano come noto la za‘āma è istituzionalizzata e regola la coesistenza tra le diverse minoranze). Nahhas nel 1935 si fa chiamare za‘īm al-umma, (leader della nazione-comunità, introducendo un registro religioso nella rivendicazione nazionale), Nasser, qualche decennio dopo, è za‘īm al-‘arab, leader di una nazione araba in cerca di unità. È il tradimento di una parola di cui lo za‘im si porta autoritariamente garante, di una promessa quasi messianica (e non la sconfitta politica o militare) a scatenare la violenza. In Mahfuz, Anwar Sadat è ucciso per il tradimento che rappresenta l’infitāh, la svolta politica liberista (in economia) e filoccidentale degli anni Settanta. E non è il carattere autoritario e abusivo del suo potere, ma ancora una volta il tradimento di una parola data (promesse di investimenti) a portare in Bisātī all’uccisione dell’anonimo za‘īm che incarna tutti i caudilli della seconda metà del Novecento. Lo za‘īm richiama su di sé una sorta di fervore religioso; è, come bene evidenzia Omar Saghi in un suo saggio sulla Trilogia di Mahfuz, “soggetto che si presume depositario di un sapere” che deve necessariamente manifestarsi sia sul piano della parola (vera) che dell’azione (efficace). E anche la dimensione affettiva dell’adesione si manifesta sul piano lessicale: non a caso il partito si confonde spesso con la jamā‘a, la banda, il gruppo, la massa. Poco importa che la figura del leader sia una figura debole (come lo è ora con tutta evidenza Abdel Fattah al-Sisi), espressione di un sistema (l’esercito, i diversi organi di sicurezza, spesso antagonisti e rivali): il consenso o il rifiuto continuano a manifestarsi secondo le modalità appena evocate, e faticano a emanciparsene. Il ruolo della manifestazione, della milyūnīya, è non per nulla centrale nella vita politica egiziana, ben più del voto. Una forma di azione politica che ha una forte connotazione passiva: allo za‘im (al principe, potremmo semplicemente dire) si chiede dapprima giustizia (non violare il patto sacro che lo vincola al suo popolo), soltanto in seconda istanza libertà. La misura dello zulm, dell’oppressione, è la mancata soddisfazione delle esigenze di un popolo che chiede prima di tutto e quasi esclusivamente pane, e solo secondariamente di poter esercitare (attivamente) la sua libertà. Anche se nelle manifestazioni della primavera di cinque anni fa quest’ultima esigenza appare con forza, e ne costituisce la vera, dirompente novità.

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