Un volume che analizza le tante sfaccettature del Paese mediorientale a vent’anni dalla caduta di Saddam Hussein

Ultimo aggiornamento: 03/08/2023 12:59:56

Recensione di Riccardo Redaelli (a cura di) “L’Iraq contemporaneo”, Brioschi, Milano 2023

 

In Italia l’interesse per l’Iraq si era manifestato già ai tempi della prima guerra del Golfo, per ritornare durante l’invasione angloamericana del 2003 e poi ancora a metà degli anni 2010, quando lo Stato Islamico raggiunse la sua massima espansione. Da allora è in costante declino: un “disimpegno” che si spiega, da una parte, con la presenza del fattore “complessità”, che scoraggia il pubblico dal tentare di comprendere il Paese al di là delle emergenze, dall’altra con la scelta dei media di concentrarsi sulle emergenti traiettorie geopolitiche che stanno ridisegnando lo scenario mediorientale, dagli effetti della guerra russo-ucraina al ruolo delle medie e grandi potenze nella regione.   

 

Derubricato in maniera sbrigativa a Stato fallito, la “Terra dei due fiumi” partecipa invece, anche se sottotraccia, alle dinamiche del Medio Oriente contemporaneo. Al vecchio e al nuovo corso iracheno la casa editrice Brioschi dedica, in occasione del ventesimo anniversario della caduta del regime di Saddam Hussein, “L’Iraq contemporaneo”, un volume collettaneo a cura di Riccardo Redaelli, professore di Geopolitica e Storia dell’Asia all’Università Cattolica di Milano. Il lavoro racchiude contributi di analisti, storici e politologi che hanno a lungo studiato il Paese. L’Iraq contemporaneo si propone come uno strumento di sintesi e di approfondimento tanto per ricercatori e studenti quanto per il pubblico generalista. Attraverso il taglio e il campo di specializzazione di ciascun autore, i quattordici capitoli del volume spiegano in maniera semplice ma non semplicista le molteplici sfaccettature che caratterizzano l’Iraq in ogni ambito, dalla vita politica al ruolo geopolitico e sociale delle minoranze etnico religiose, dalle arti figurative alla letteratura.

 

Per una piena comprensione del presente, però, è necessario cominciare da lontano: il volume apre con una sezione storica, partendo dal concitato periodo della prima guerra mondiale, quando le truppe inglesi sbarcarono nel porto di al-Faw, all’imbocco del Golfo Persico, e risalirono il Paese fino a entrare a Baghdad nel marzo del 1917, ponendo fine alla secolare dominazione ottomana. Con l’unione dei tre vilayet di Bassora, Baghdad e Mosul, Londra diede vita al moderno Iraq, uno Stato-nazione che, però, è spesso tacciato di artificialità, una sorta di invenzione a tavolino degli occidentali. Questa percezione, come avverte Redaelli nell’introduzione, appare riduttiva e fuorviante, dal momento che andrebbe contestualizzata nel più ampio quadro del processo coloniale e delle dinamiche interne del Paese. Ampio spazio viene dedicato alla caduta della monarchia hashemita nel 1958 e all’ascesa al potere del partito Ba‘th nel 1968, quando il fragile ordinamento liberale crollò sotto i colpi di una “rivoluzione panaraba e socialista” che, prima con Ahmed Hasan al-Bakr e poi con Saddam Hussein, instaurò uno dei più brutali e longevi regimi totalitari del Medio Oriente.

 

L’invasione americana del 2003 introduce una serie di riflessioni di ordine sociale e (geo)politico che tuttora condizionano il “Nuovo Iraq” post-Saddam. Nonostante gli ambiziosi obiettivi dell’amministrazione statunitense, sedotta dall’ideale utopico della destra neoconservatrice di “esportare la democrazia”, il periodo di transizione fu costellato da gravi errori e inadempienze, che favorirono i conflitti settari tra la componente sunnita e quella sciita, la nascita di formazioni paramilitari e di gruppi salafiti-jihadisti, l’esacerbamento delle pratiche clientelari e dei fenomeni di corruzione. La fragilità dello Stato ha come diretta conseguenza l’estrema dipendenza di Baghdad dal ruolo dei Paesi esteri e da quello degli attori ibridi. A ciò si aggiunge la lunga e difficile lotta contro i miliziani dello Stato Islamico e le precarie condizioni economiche che hanno limitato il processo di sviluppo e cambiamento sociale.

 

La rigida separazione “settaria” tra i due gruppi religiosi rischia tuttavia di oscurare il più vasto mosaico culturale iracheno, ben descritto nell’undicesimo capitolo, che comprende anche le dimenticate comunità turcomanne, yazide, cristiane, caldee e assire. Discorso a parte per il movimento curdo, al quale viene dedicato un intero capitolo, che ripercorre le principali fasi della causa indipendentista – culminata con il (simbolico) referendum del 2017 – e le divergenze interne tra le due principali formazioni politiche del Kurdistan, il Partito Democratico e l’Unione Patriottica.  

 

La ricchezza del Paese non deve essere limitata solo alle componenti etnico o religiose: Baghdad è, nella mente di molti arabi, uno dei cuori pulsanti della civiltà islamica medievale, il cui fascino ha attirato l’attenzione degli occidentali al punto da trasformarsi in stereotipo da Mille e una Notte, alimentando le visioni orientaliste che suggestionarono la cultura europea almeno fino al XX secolo, e che costituirono uno dei sostrati dei progetti civilizzatori d’epoca coloniale. Il merito del volume è quello di ricostruire in dettaglio, oltre i luoghi comuni, il fermento culturale e spirituale della Baghdad abbaside, una vera e propria “città laboratorio” al cui interno convivevano geografi, prosatori, dotti del diritto islamico, poeti che inneggiavano all’amore e al vino e, soprattutto, filosofi che si interrogavano sul rapporto tra fede e ragione, tra rivelazione divina e sapere greco.

 

Ma la letteratura irachena non si è fermata ai fasti del Medioevo, anzi ha saputo reinventarsi nel corso del tempo. In particolare, la prosa ha subito una vera e propria metamorfosi dopo la caduta di Saddam, da cui l’espressione che dà nome a uno dei capitoli, il “romanzo del post-cambiamento”. Esso «tratteggia l’identità come una ferita aperta che tenta di rimarginarsi. Il dilemma identitario è fra le problematiche più importanti risvegliatesi dopo il crollo dell’impalcatura narrativa legata al nazionalismo iracheno. Non può, infatti, che essere l’affiorare di un nuovo concetto di identità, basata su una narrazione aperta all’incognita della storia, a rigenerare una cultura disastrata, colpita da innumerevoli sciagure provocate da una follia identitaria, avvezza al complotto e all’aggressività, e facile alla violenza» (p. 205).

   

La storia dell’arte moderna e quella archeologica del Paese sono oggetto di analisi degli ultimi due capitoli, corredati da suggestive immagini delle più importanti opere d’arte contemporanee, come il “Massacro di Sabra e Shatila” di Dyā’ ‘Āzzāwī, “I Guardiani della Mezzaluna Fertile” di Isma‘īl Fattāh e le fotografie d’epoca del Museo di Baghdad.    

 

Per concludere, l’“Iraq contemporaneo” riproduce in maniera molto accurata tutte le sfumature e le sfaccettature del “sistema Iraq” di ieri e di oggi. Nonostante l’affascinante vitalità artistica e intellettuale che ha saputo reinventarsi e creare nuove forme d’espressione negli ultimi decenni, permangono gli interrogativi sul futuro (geo)politico del Paese. Le contraddizioni e le fragilità interne sono lungi dall’essere risolte, mentre la classe politica non sembra capace di uscire dalla palude di corruzione e rivalità settarie. Pedina alla mercè delle potenze straniere, dagli Stati Uniti all’Iran, Baghdad è alla (disperata) ricerca di una coesione interna che le consentirebbe di rilanciarsi a livello regionale e di rivitalizzare la sua economia. «Obiettivi ambiziosi – osserva Redaelli – raggiungibili solo con una inversione di tendenza delle dinamiche politiche degli ultimi decenni che hanno esaltato il consociativismo, l’appropriazione neo-patrimonialista dello Stato, la retorica settaria usata strumentalmente per dotarsi di una piattaforma ideologica e l’asservimento a questo o quel paese estero come unica fonte di protezione e sostegno (p. 17) […] Senza un cambio di passo delle nuove, corrotte élite di potere interne, l’Iraq non troverà mai la strada per ritornare a essere un attore credibile sulla scena internazionale (p. 133)».

 

 

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