La battuta d’arresto dell’AKP alle elezioni municipali e l’exploit del CHP complicano i piani del presidente per un quarto mandato e rilanciano le speranze delle opposizioni anche a livello nazionale. Ma il Reis è ancora il leader incontrastato del Paese

Ultimo aggiornamento: 10/04/2024 17:01:11

Ogni volta che in Turchia si svolgono tornate elettorali – siano esse presidenziali, parlamentari, municipali o referendarie – si sente spesso ripetere che queste sono “libere e abbastanza corrette, ma al contempo non totalmente giuste”. Per questo la Turchia è considerata un Paese in cui vige il cosiddetto “autoritarismo competitivo”, cioè un sistema politico che, pur prevedendo elezioni libere e spazi politici per le opposizioni, di fatto altera la competizione favorendo, con il sostegno delle istituzioni e il ruolo dei media, la compagine politica al governo. Recep Tayyip Erdoğan e il suo partito Giustizia e Sviluppo (AKP) sono considerati gli artefici di questo lungo e progressivo processo di deriva autoritaria, iniziato con la repressione delle proteste di Gezi nel 2013, consolidatosi nel 2016 in seguito al tentato golpe dei militari, e infine costituzionalizzato dopo il referendum del 2017 con l’elezione a Presidente di Recep Tayyip Erdoğan. Quest’ultimo, ormai al potere da più di vent’anni, sembra quindi tenere saldamente le redini del governo e dello Stato.

 

Le elezioni municipali dello scorso 31 marzo hanno però mostrato un’inversione di tendenza. L’opposizione guidata dal CHP (Partito Popolare Repubblicano) è infatti riuscita in una triplice impresa: confermarsi nelle grandi città, ampliare il proprio consenso in aree sinora “estranee” come quelle dell’Anatolia e, soprattutto, superare per la prima volta l’AKP a livello nazionale. Il risultato appare ancora più eclatante se si considera che appena un anno fa, con un’economia in grande difficoltà e la ferita del terremoto ancora aperta, le elezioni presidenziali e parlamentari avevano riconfermato Erdoğan e il suo partito alla guida del Paese.  

 

Sarebbe di certo fuorviante paragonare due tipologie di elezione che hanno pesi specifici diversi. Ciononostante, risulta indispensabile analizzare i fattori che hanno portato a questo ribaltamento di fronte e che senza dubbio avranno un impatto sulle future dinamiche sociopolitiche della Turchia.  

 

Il significato dei numeri

 

Benché la portata della vittoria del CHP vada oltre il mero aspetto quantitativo, per analizzare cause e possibili conseguenze dei risultati occorre soffermarsi sulla loro dimensione numerica. Innanzitutto, il Partito Popolare Repubblicano non raggiungeva un tale livello di consensi dalla vittoria di Bulet Ecevit, che nel 1977, quando gli scontri tra i gruppi radicali di destra e sinistra erano all’ordine del giorno, ottenne il 37,77% delle preferenze. Per quanto riguarda le grandi municipalità, il partito è riuscito a riconquistare le tre principali metropoli del Paese: Istanbul (capitale economica e culturale della Turchia), Ankara e Izmir. Nelle prime due il CHP ha aumentato in maniera considerevole il proprio consenso rispetto al 2019. A Istanbul occorre anche segnalare la sua vittoria nel distretto di Beyoğlu (sponda europea) e in quello di Üskudar (sponda asiatica), dove è stata eletta una sindaca donna. A Izmir, da sempre roccaforte del secolarismo turco di stampo kemalista, si è invece registrata una flessione delle preferenze. Il dato risulta ancora più sorprendente a livello nazionale, se si considera che il Partito Popolare Repubblicano è riuscito a prevalere in centri come Bursa, Afyonkarahisar, Adıyaman, Giresun e Kastamonu, tradizionalmente bastioni dell’AKP. È significativo che i territori amministrati ora dal CHP corrispondono circa ai 2/3 della popolazione e ai 4/5 dell’economia della Turchia.

 

Da una prospettiva di genere, si può affermare che, in un Paese che conta solamente il 20% di rappresentanza femminile in parlamento, le elezioni abbiano rappresentato un importante passo in avanti, portando le città guidate da sindaci donna a 11 su 81. Il fenomeno è evidente soprattutto nella regione della Tracia, dove due terzi dei sindaci sono ora di sesso femminile.

 

Da parte sua, l’AKP è riuscito a mantenere il proprio vantaggio nell’Anatolia centrale, regione tradizionalmente conservatrice grazie alla quale Erdoğan ha costruito nel corso degli anni gran parte del proprio successo politico. L’azionista di maggioranza del governo è stato inoltre capace di riprendersi la regione di Hatay, gravemente devastata dal terremoto del 6 febbraio 2023, la cui popolazione aveva espresso forti critiche nei confronti del sindaco del CHP uscente, Lütfü Savaş. È però importante sottolineare come il calo dei consensi dell’AKP non sia dovuto soltanto a una strategia vincente del Partito Popolare Repubblicano, ma anche a una frattura interna alla destra-conservatrice. I dati mostrano in maniera evidente l’affermazione del YRP (Yeniden Refah Partisi, “Nuovo Partito del Benessere”), che con il suo 6,19% è riuscito non solo a diventare la terza forza politica del Paese, ma anche a strappare alcune roccaforti dell’AKP. Un risultato che supera persino quello del partito ultranazionalista (MHP), membro della compagine di governo, fermatosi al 4,98% delle preferenze. Considerando che appena un anno fa entrambe le formazioni avevano corso alle elezioni nazionali all’interno della coalizione governativa Alleanza del Popolo, si può dedurre che le componenti ultrareligiose e/o ultranazionaliste, abbiano voluto mandare un segnale al partito all’AKP, giudicando troppo “morbide” alcune sue politiche.

 

Si è invece riconfermato nelle aree a maggioranza curda il DEM. Il partito filo-curdo di sinistra continua a essere una forza nazionale nonostante sia stato costretto a cambiare ripetutamente nome a causa degli interventi giudiziari volti a interromperne le attività politiche.

 

Finalmente primavera per il CHP?

 

Come insegna la biografia di Erdoğan – “self-made man” nato e cresciuto a Istanbul nel quartiere popolare di Kasımpaşa, sulla sponda europea, poi divenuto sindaco di successo della sua città – le elezioni municipali giocano un ruolo cruciale per gli equilibri della Turchia. In primo luogo, governare bene a livello locale, e soprattutto in aree metropolitane con milioni di abitanti (la sola Istanbul è più popolosa di molti Paesi europei) può costituire un trampolino di (ri)lancio per figure e movimenti politici in cerca di affermazione o di rinnovamento. In secondo luogo, l’alta affluenza delle elezioni municipali contribuisce a rendere i risultati rilevanti anche in ottica nazionale. Da qui l’idea che “chi vince Istanbul vince tutto” e la convinzione, coltivata dal presidente in una logica maggioritaria, che una vittoria equivalga automaticamente a un pieno consenso popolare.

 

Di tutto ciò ha tentato di far tesoro il CHP, che già nel 2019 aveva strappato all’AKP le grandi città turche guidando una coalizione “multicolore”, che comprendeva la formazione nazionalista İyi Parti (Buon Partito) e il Partito Democratico dei Popoli (HDP), di orientamento filo-curdo e di sinistra. Forte di tale successo, il partito ha provato a ripetere una strategia analoga alle ultime elezioni presidenziali. Ciononostante, sotto la leadership di Kemal Kilicdaroğlu, leader dell’opposizione dal 2010, la coalizione di sei partiti “Alleanza Nazionale è apparsa troppo eterogena e troppo concentrata sull’opposizione a Erdoğan”, risultando incapace di offrire al proprio elettorato di riferimento proposte concrete e innovative.

 

In vista dell’ultimo appuntamento elettorale, l’opposizione ha operato diversi cambiamenti. In un contesto in cui la personalizzazione della politica è una costante, la nomina di Özgür Özel a leader dell’opposizione e la ricandidatura dei carismatici sindaci Ekrem Imamoğlu  (Istanbul) e Mansur Yavaş (Ankara) hanno giocato un ruolo fondamentale nel dar voce all’ala più riformista del partito. Ciò ha anche permesso di impostare la campagna elettorale facendo leva sulle vere problematiche del Paese e sul miglioramento delle condizioni dei centri urbani che hanno reso popolari i sindaci del CHP dal 2019 a oggi. Inoltre, l’allontanamento dai classici discorsi da partito “delle élite kemaliste e delle ville sull’Egeo” ha pagato su due livelli. In primo luogo, si è evitato lo scontro “noi verso loro” tipico di un contesto polarizzato dal punto di vista politico-identitario, terreno su cui Erdoğan si è sempre trovato a suo agio. In secondo luogo, il CHP, rivolgendosi all’elettorato urbano e giovane, sembra aver rinunciato all’approccio ideologico fondato sui capisaldi del kemalismo, da molti considerati superati o non più sufficienti per vincere. Come ci ha riferito Selin Gücüm, analista e consulente politica, l’obiettivo è piuttosto quello di «presentarsi come un partito sempre più vicino a istanze liberali e di stampo social-democratico». Infine, i risultati del 31 marzo dimostrano come il CHP, seppur privo del supporto dei partiti alleati alle scorse tornate elettorali (o forse proprio per questo), abbia saputo adottare una strategia più inclusiva. Dopo la disfatta dell’anno scorso, quando lo slogan era quello di “una nuova primavera”, il partito sembra ora aver avviato un processo di ristrutturazione interna e pare essere riuscito a rispondere alle aspettative di cambiamento del suo elettorato.

 

L’AKP e la sfida dei partiti minori

 

Indubbiamente, il CHP ha beneficiato degli elementi di debolezza dell’AKP, che vive da anni una costante emorragia di conensi. Tra i fattori che hanno determinato l’esito del voto spicca la questione economica. La pesante svalutazione della lira turca e un’inflazione che secondo i dati ufficiali ha raggiunto il 67% e non accenna a diminuire hanno peggiorato le condizioni di vita di una fascia sempre più ampia di turchi. Se un anno fa alcune misure assistenziali del governo avevano convinto molti elettori dell’AKP a rinnovare la fiducia a Erdoğan, le promesse non mantenute riguardo significativi miglioramenti dei salari minimi e delle pensioni per l’anno in corso sembrano aver giocato un ruolo decisivo. Non a caso, il calo dell’affluenza al 78% è probabilmente dovuto all’astensione di pensionati, disoccupati e lavoratori delusi dalla direzione intrapresa dal partito. Il divario tra promesse e realtà potrebbe fornire la chiave di lettura per spiegare sconfitte eclatanti come quella di Adıyaman, dove sui 30 punti percentuali persi aleggiano le accuse per un’iniqua distribuzione di aiuti post-terremoto.

 

Un altro fattore è costituito dallo scollamento tra il voto a Erdoğan e quello al partito. La personalizzazione della politica da parte del presidente continua a funzionare a livello nazionale, ma limita e oscura fortemente gli altri candidati dell’AKP, inibendone la capacità di incidere a livello locale. Emblematica la scelta del candidato di Istanbul Murat Kurum, ex ministro dell’ambiente che, proposto per risolvere i problemi della città, si è rivelato un mero uomo di fiducia del presidente privo di carisma, impacciato nei discorsi e incapace di ascoltare le istanze dei cittadini.

 

Infine, come ha dichiarato il leader del partito islamista YRP, «il risultato di queste elezioni è stato deciso dal comportamento di coloro che hanno continuato a commerciare liberamente con Israele e con gli assassini sionisti». Si tratta, in buona sostanza, di un “voto di protesta” della frangia più religiosa e tradizionalista dell’AKP, che sembra aver voluto punire la “decadenza” e l’“ambiguità morale” del partito.

 

La spinosa questione curda

 

Non si può non menzionare il peso numerico e simbolico del “voto curdo”, che rappresenta circa il 20% della popolazione del Paese. Anche in questo caso, l’approccio è stato diverso dalle due precedenti tornate. Contrariamente a quanto avvenuto nel 2019 e nel 2023, il partito di sinistra filo-curdo (ora rinominato DEM) ha deciso di non correre al fianco del CHP. Prendendo in esame il caso di Istanbul, dove il partito ha esitato sui candidati da presentare (inizialmente ha puntato sulla moglie di Demirtaş, celebre leader attualmente detenuto in carcere), si evince come molti elettori abbiano alla fine optato per il voto “sicuro” al CHP, con l’idea di non disperdere le preferenze a vantaggio di Erdoğan. Al contrario, la riaffermazione del partito nelle roccaforti a maggioranza curda nel Sud e nell’Est del Paese non è stata priva di conseguenze spinose. In queste zone, infatti, alcuni risultati sono stati contestati dalle autorità governative. A Van, città dell’Est del Paese, il consiglio elettorale locale non ha inizialmente accettato l’esito del voto, nominando come sindaco l’esponente dell’AKP, che aveva ottenuto la metà delle preferenze del candidato DEM, salvo poi ritornare sui propri passi in seguito alle proteste. Un fatto simile si è verificato in uno dei distretti di Urfa. Queste mosse hanno inizialmente fatto pensare a un ritorno della pratica dei “kayum”, ossia la sostituzione di funzionari e/o figure politiche che si opponevano al governo con uomini di fiducia calati dall’alto. Come ci ha riferito un attivista politico curdo della zona, «questa tattica ha funzionato molte volte, anche perché come spesso avviene gli altri partiti dell’opposizione hanno sempre esitato a mostrare reale sostegno alla causa curda per paura di essere additati dal governo come terroristi». Secondo la stessa fonte, ciò non sembra più sostenibile a causa di un’opposizione sempre più attenta e di un panorama politico in mutamento. Aggiungendosi alle campagne di diffamazione durante la campagna elettorale e alle pratiche istituzionali al limite dell’illecito che colpiscono il partito DEM, gli eventi dell’immediato post-elezioni dimostrano ancora una volta come la “questione curda” rimanga un nervo scoperto dello Stato turco, su cui l’opposizione potrebbe capitalizzare in futuro.

 

Il reale impatto sul futuro della Turchia

 

Erdoğan ha aperto il tradizionale discorso post-elettorale dalla sede del suo partito ad Ankara mostrandosi deluso per il risultato. Ha tuttavia dichiarato di accettare «la volontà del popolo», aggiungendo che, dal momento che «la Turchia ha davanti a sé un tesoro di oltre quattro anni», il suo partito non può «sprecare questo periodo con discussioni che faranno perdere tempo alla nazione e al Paese». Nel breve termine il responso delle urne impedisce all’AKP di emendare per la seconda volta la Costituzione e consentire a Erdoğan di ricandidarsi nuovamente nel 2028. Gli alleati parlamentari di Erdoğan non hanno neanche interesse a elezioni anticipate visto che, come ha affermato Ahmet Insel, politologo turco in esilio, il leader «ha perso la capacità di attrarre elettori al di fuori dei suoi ranghi». Inoltre, lo stesso presidente si è detto disponibile a «lavorare con i sindaci che hanno vinto» e ha invitato il suo partito a fare «autocritica». Oltre ai problemi economici del Paese, a stringere gli spazi di manovra del reis è anche la questione della successione, ulteriormente complicata dalla fusione completa tra la sua figura e il partito. Se davvero Erdoğan vorrà tenere fede alla promessa di aver «corso per l’ultima volta», non è ancora chiaro chi potrebbe eventualmente raccogliere il suo testimone e gestire un’eredità così pesante.

 

Per il momento, Erdoğan potrebbe giocare a fare lo statista internazionale, approfittando di una sua visita alla Casa Bianca prevista per il 9 maggio. In un’ottica di più lungo termine, però, se è vero che il presidente e il suo partito rimarranno saldi al potere sino al 2028, essi dovranno altresì fare i conti con l’orizzonte politico successivo. A tal proposito sono in molti a pensare che la questione della successione al Reis potrebbe creare uno spiraglio di vantaggio per l’opposizione, a partire dall’idea che «senza Erdoğan l’AKP può fare ben poco». Il partito cercherà inoltre di fare leva sui tradizionali temi securitari legati al terrorismo curdo e al PKK in Iraq e in Siria, in modo da incrementare il proprio sostegno a livello nazionale sfruttando il fenomeno del “rally ‘round the flag”. Tutto ciò avviene in un contesto internazionale sotto forte pressione a causa dei conflitti in Ucraina e a Gaza, nel quale la Turchia ha provato più volte a giocare un ruolo da protagonista, riuscendo per ora a raggiungere risultati che, seppur importanti, non sono stati in gradi di aprire la strada del dialogo.

 

La prospettiva internazionale è presente anche in Ekrem Imamoğlu, che subito dopo il voto ha dichiarato: «mentre celebriamo la nostra vittoria, inviamo un messaggio al mondo: il declino della democrazia è finito». In effetti, se da un lato l’autoritarismo competitivo è un tratto distintivo dello Stato, dall’altro la resilienza democratica continua a essere una caratteristica fondamentale della politica turca, soprattutto grazie allo spiccato attivismo della società civile. Ciò risulta valido tanto per Erdoğan, che ha sempre collegato legittimità e potere alla volontà popolare, quanto per l’opposizione, che vuole trarre il massimo profitto dal risultato elettorale. Nel corso di un’intervista, Bahar Baser, professoressa di Studi Mediorientali alla Durham University, ci ha riferito che «l’interpretazione di questi risultati conferma la perdurante fiducia nell’efficacia dei processi elettorali, nonostante le loro imperfezioni». Inoltre, gli eventi del 31 marzo «suggeriscono una rinnovata fiducia nella potenziale efficacia del tradizionale “check and balance”, nonostante i formidabili ostacoli che tali meccanismi devono affrontare a livello governativo».

 

Soprattutto per l’elettorato del CHP, che considera il voto un caposaldo del buon funzionamento del sistema-paese, la variabile democratica potrebbe quindi aver giocato un ruolo da non trascurare. Tuttavia, un autentico progresso in senso pluralista avrebbe bisogno di un complesso di riforme che vada oltre la semplice sostituzione del partito al potere. Come ha affermato ancora Bahar, «questo richiede un cambiamento fondamentale nella mentalità dello Stato, che promuova un ambiente capace di abbracciare la diversità e sostenere l’uguaglianza. Ma questa svolta non si è ancora materializzata nella storia della Turchia».

 

Alla luce di tali considerazioni, sarebbe sbagliato considerare queste elezioni locali come una cartina di tornasole delle dinamiche nazionali. Al contempo, è inevitabile che i risultati del 31 marzo costituiscano la base su cui i partiti definiranno le proprie strategie in vista delle prossime presidenziali del 2028.  Questo ci ricorda come, sebbene i numeri del 31 marzo abbiano restituito all’opposizione riconoscimento e vigore, a livello nazionale la leadership di Erdoğan rimane legalmente intatta per altri quattro anni. Inoltre, come notato da molti, le variazioni nel comportamento di voto sembrano confermare lo slittamento da una divisione “conservatori-islamisti contro laicisti-repubblicani” a una più ampia e complessa faglia tra “varie forme di pluralismi e ultranazionalismi”.

 

Pertanto, per mettere a frutto il consenso costruito nell’ultimo anno, il CHP dovrà adottare strategie di cambiamento di lungo periodo. Da un lato, il suo spazio politico sarà sempre più ristretto e il suo accesso alle risorse dello Stato sempre più limitato. Se per molti la riconferma del carismatico Ekrem Imamoğlu rappresenta oramai la sua definitiva consacrazione come futuro sfidante del presidente in carica, la condanna per diffamazione che pende sul suo capo rimane una questione spinosa che il CHP dovrà trattare con cautela. D’altro canto, il partito repubblicano dovrà dimostrare una maggiore vicinanza ai cittadini, evitando di adottare narrazioni divisive e polarizzanti. In tal senso, Imamoğlu sembra la figura più idonea a raggiungere l’elettorato maggiormente legato ai valori tradizionali, mentre quella di Yavaş agirebbe in maniera complementare, mantenendo la fiducia delle frange più fedeli alle radici nazionali e kemaliste. La ricetta del successo consiste dunque nel distanziarsi dalle tradizionali divisioni identitarie della Turchia, senza però dimenticarsi dei problemi più urgenti del Paese.

 

 

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