Il principio della libertà religiosa fu faticosamente guadagnato in età moderna, attraverso lotte sanguinose e prove di violenza. Ma la tolleranza fu ottenuta sacrificando il discorso della verità. Una più sicura fondazione può venire dalla considerazione della dignità della persona, su cui si è concentrato il Vaticano II.

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:10:56

Da quando gli uomini vivono gli uni accanto agli altri, cioè da sempre, hanno avuto il problema di “accettarsi” o “tollerarsi” reciprocamente. Tuttavia, senza risalire ai primordi dell’umanità e accontentandoci di dare uno sguardo alle vicende della cristianità in età moderna, si può facilmente dire che la tolleranza, in materia religiosa, appare come un fenomeno carsico, nel senso che, a favore dei cristiani o contro i cristiani, all’interno della cristianità medesima tra fazioni diverse e, all’esterno, nell’atteggiamento dei cristiani riguardo alle altre religioni, si sono alternate pratiche esplicite di tolleranza ad altrettanti atteggiamenti di esplicita e violenta intolleranza. È peraltro fuori discussione, a mio modesto avviso, che l’età moderna si presenti come un momento particolarmente interessante, proprio perché critico e al tempo stesso costruttivo, per ciò che concerne la maturazione dei temi della tolleranza e della libertà religiosa. Tuttavia, prima di immetterci nel travaglio che vide maturare queste idee, occorre premettere qualche considerazione generale, di semplice richiamo, ad alcuni tratti caratteristici dell’età moderna. Nel passaggio dalla respublica christiana alla nascita degli Stati nazionali ci troviamo di fronte a un quadro storico complesso, contrassegnato da mutamenti profondi. All’inizio dell’età moderna cambiano altresì i paradigmi metodologici del sapere, perché la scienza, fin qui basata principalmente, se non esclusivamente, sulle autorità, comincia a essere costruita in modo sempre più decisivo sull’osservazione e l’esperienza, la quale si offre come il terreno di verifica sicura delle ipotetiche teorie astratte. Dal punto di vista religioso viene meno anche il sentimento di una comune appartenenza di fede, infatti, la Riforma, ormai incontenibile all’altezza della convocazione del Concilio di Trento (1545-1563), genera reazioni alterne di adesione e di netto rifiuto. Inoltre la religione, a qualsiasi confessione si appartenga, tende a essere interpretata come un fattore sociale e civile, che facilita la coesione e la convivenza pacifica, dunque essa rappresenta un ingrediente politico rilevante di cui occorre tenere conto per servirsene nel modo più opportuno. Infine, dal punto di vista più strettamente politico, le mire egemoniche delle dinastie all’interno dei singoli Stati (per esempio, in Francia, i Guisa, cattolici, e i Borbone, protestanti), e le mire espansionistiche degli Stati, guidati da aspirazioni di protagonismo sullo scacchiere politico del tempo, determinarono tensioni all’interno dei singoli Stati nascenti e tra i diversi Stati, rendendo sempre più auspicabile un equilibrio che si rivelò, d’altra parte, sempre instabile, con la conseguenza delle consuete incertezze nella vita di tutti i giorni per milioni di persone. Questo è lo sfondo generale, anche se sommariamente tratteggiato, sul quale si collocano i temi della tolleranza e della libertà religiosa in età moderna. Vale la pena di fare ancora un’annotazione di carattere generale circa la differenza che intercorre tra “tolleranza” e “libertà religiosa”. Credo sia condivisibile la seguente considerazione. In età moderna la “tolleranza” sembra essere una specie di concessione, fatta dal potere costituito, a qualche minoranza e a tempo determinato, trovando appunto tale atteggiamento di tolleranza la propria legittimazione o il proprio fondamento legittimante solo nella concessione da parte del potere civile1. La “tolleranza”, così intesa2, non si radica stabilmente nel valore della persona, ma nella disposizione di chi, di volta in volta, governa; invece, la “libertà religiosa” fa appello, come tale, alla persona stessa, al principio della libertà di coscienza che si radica nel valore insopprimibile e immodificabile di ogni singolo portatore della medesima dignità, vale a dire di ogni singola persona. Questa idea di libertà religiosa sarà guadagnata lentamente e faticosamente attraverso tutto il dibattito culturale dell’età moderna, dibattito d’idee che s’impastò realisticamente con lotte di sangue e prove di violenza. Alla fine, tale idea di libertà religiosa sarà il risultato sintetico in cui convergeranno vedute e conquiste ideali di matrice diversa e di provenienza assai diversificata. Non è neppure difficile sostenere che l’idea di libertà religiosa, centrata sulla dignità della persona, cui giunse la Chiesa cattolica, attorno al Concilio Vaticano II, per quanto sia stata anche estrinsecamente sollecitata dal travaglio di pensiero dell’età moderna e dalle diverse correnti del liberalismo ottocentesco, presenti una radice metodologica che la differenzia dal semplice risultato cui pervenne la modernità nel suo insieme. Infatti, la libertà religiosa, proposta dalla dichiarazione Dignitatis humanae, ci appare guadagnata, in tutta la sua concretezza, senza minimamente tradire il criterio della verità oggettiva quale termine intrinsecamente correlativo e costitutivo della stessa esigenza di libertà oggettivamente radicata nella dignità della persona. Invece, come vedremo, tale correlazione sperimentò di fatto parecchi smarrimenti e sospensioni nel decorso del pensiero laico moderno, polemicamente staccatosi dalle prospettive offerte e tenute vive dalla rivelazione cristiana3. 1. Tra le diverse forze ideali, che contribuirono a fare raggiungere l’idea di libertà religiosa di cui si è detto, si annovera senz’altro l’umanesimo rinascimentale. Il primo degli autori importanti da questo punto di vista è Erasmo da Rotterdam. È sua ferma convinzione che i disordini, i litigi, gli scontri armati, gli omicidi e le stragi siano qualcosa di assolutamente non degno dell’uomo: chi si comporta così non merita nemmeno l’appellativo di “uomo”. Infatti, il buon senso e la retta ragione ci insegnano benevolenza, rispetto e intesa tra gli uomini. Tuttavia, dice Erasmo, se proprio non bastasse l’appello alla recta ratio, quello stato di guerra di tutti contro tutti è assolutamente inconciliabile con la dottrina o meglio la filosofia di Cristo, insomma il Vangelo. Per quanto riguarda il Vangelo occorre, però, individuare in esso le verità fondamentali, evitando di fare diventare oggetto di discussione (e quindi di contesa) molti altri aspetti che sono secondari, altrimenti si finisce per ritenere eretici tutti quelli che si scostano da come potremmo pensarla noi: «Una volta si considerava eretico chi dissentiva dai Vangeli, dagli articoli della fede o da verità che godevano di pari autorità. Ora, se qualcuno dissente leggermente da Tommaso [d’Aquino], è chiamato eretico […]. Tutto ciò che non piace, ciò che essi non comprendono, è un’eresia. Parlare un linguaggio corretto, è un’eresia. Tutto ciò che loro stessi non fanno, è un’eresia. Riconosco che è un grave crimine quello di corrompere la fede, ma bisogna evitare di fare di qualsiasi questione una questione di fede»4. Insomma, per Erasmo, summa nostrae religionis est pax et unanimitas. Questa unanimità, questo accordo tra le religioni va cercato il più possibile. Certo che, se non fosse possibile tornare a un’unica religione, quella cattolica, occorrerebbe, per il principio del minor male, tollerare anche una religione diversa. 2. A metà del XVI secolo si raggiunse con la pace di Augusta (1555) un compromesso in senso territorialista, nel senso che venne introdotto il principio del cuius regio eius et religio, che, a Westfalia (1648), fu ulteriormente ribadito e allargato. Molte delle riflessioni sul tema della tolleranza in età moderna si incrociano con questo principio, nel senso che per lo più lo fanno proprio e mirano a giustificarlo. In questa linea si muovono anche i cosiddetti politiques francesi, benché in Francia quel principio non sia mai stato recepito come tale, né mai avrebbe potuto esserlo, vista la diversa conformazione e struttura politica della Francia, rispetto al pulviscolo di principati, ducati e città libere, tipico della Germania. Nondimeno tale principio fu sempre tenuto presente anche dai pensatori francesi, soprattutto coloro che, per ragioni per lo più politiche, furono propensi al discorso della tolleranza. È il caso, per esempio, di Michel de L’Hospital, consigliere e uomo di Stato accanto a Caterina de’ Medici, reggente al posto del figlio Carlo IX, dal 1560. Pur condividendo e proponendo il principio fondamentale che regge tutta la politica in età moderna: une foy, une loy, un roy, L’Hospital ispira il suo pensiero ai criteri della moderazione e della tolleranza. L’ideale sarebbe quello di avere un’unica religione vera in tutto il Regno di Francia, tuttavia, con spirito autenticamente realistico, condividendo l’appello ovvero l’Esortazione ai Prìncipi dello stesso Pasquier, anch’egli lotta per garantire l’unità della nazione, nonostante la presenza di due confessioni cristiane diverse: i cattolici e gli ugonotti. Realisticamente egli richiama questo principio di buon senso ovvero di prudenza politica: «Quando non si può fare tutto ciò che si vuole, occorre fare ciò che si può»5. Lo stesso Jean Bodin, nella sua Repubblica (1576), condivide questi princìpi pratici di tolleranza. La religione è quanto di più sacrosanto ci sia per garantire la coesione e la convivenza sociale, perciò summa ratio est quae pro religione facit. Essa va difesa da tutte le discussioni e le sottigliezze inutili. Il principe convinto che la sua religione sia quella vera non deve imporla in nessun modo con la forza, ma deve impegnarsi a convincere con il buon esempio e senza dissimulazione. 3. La linea dell’umanesimo erasmiano, per nulla assente – come si è visto – da molte considerazioni di L’Hospital e Bodin, riemerge in tutta la sua virulenza con la difesa che Sebastiano Castellione intraprese a favore di Michele Serveto. Nel 1553, su condanna di Calvino, il medico spagnolo Serveto fu messo al rogo alle porte di Ginevra. I suoi libri contenevano dottrine eterodosse, tanto dal punto di vista cattolico, quanto dal punto di vista protestante. Nello scritto De haereticis, an sint presequendi gli argomenti di Castellione sono ancora sostanzialmente quelli di Erasmo: ci sono questioni inutili che dividono i credenti tra di loro, mentre non ci si impegna a vivere bene gli insegnamenti di Cristo, emendando la propria vita. Questioni come queste: dove sia Cristo ora, che cosa stia facendo, come possa sedere alla destra del Padre, sono superflue – reputa Castellione –, ma noi inorgogliti dalla scienza o da una presunta scienza, diventiamo superbi e intolleranti. Bisogna dunque abbandonare questa ricerca speculativa oziosa e controproducente, per dedicarsi alle virtù cristiane, mantenendo le principali verità della fede. Su questa via egli cita un numero assai ingente di autori cristiani, tanto cattolici quanto protestanti, dai cui scritti ricava le argomentazioni a favore della tolleranza in materia religiosa. Castellione è un dotto, un erudito, un filologo che scommette ancora sulla forza del dialogo e sulle capacità comunicative di cui dispone l’umanità. L’uomo è infatti dotato di logos cioè di sermo, parola-discorso, nel quale si riflette la natura stessa di Dio, cioè la razionalità che pervade di sé tutte le cose, l’ordine della natura e il mondo razionale umano. Questa fiducia nelle capacità della ragione deriva certamente a Castellione da Erasmo, ma anche dalla sua conoscenza dello stoicismo antico. Tale insistenza sui temi della ragione ha reso possibile vedere in Castellione un precursore, in qualche modo, del razionalismo moderno e dell’illuminismo. Proprio in virtù di questo atteggiamento razionalistico, la differenza tra eterodossia e ortodossia va attenuandosi, mentre prende sempre più corpo l’idea di una tolleranza basata sull’indifferenza dei contenuti dottrinali. 4. Un altro ganglio fondamentale relativo alla questione della tolleranza, anzi della libertà religiosa, è rappresentato dalle evoluzioni interne allo stesso calvinismo. Fin dagli inizi si sopportò a mala pena la tesi rigorosa della predestinazione divina assoluta. Molte furono le spinte critiche ed eversive in nome della libertà dell’uomo contro ogni forma di determinismo, specie in materia soteriologica. Tra gli autori che nei Paesi Bassi reagirono a tale dottrina incontriamo Dirk Volkertszoon Coornhert, il quale svolse tutta la sua attività di pensatore in vista dell’affermazione della libertà. Tale sua rivendicazione della libertà in materia religiosa è rivolta particolarmente contro ogni possibile ingerenza da parte del potere politico. Proprio perché nessuno ha potere sulla coscienza dell’uomo, è vietata e non è ammissibile qualsiasi imposizione in materia religiosa. Le questioni di fede devono essere oggetto di libero dibatto in ambito pubblico, senz’alcuna ingerenza politica, proprio perché il potere politico non è dotato di una spada spirituale, vale a dire dell’arma della Sacra Scrittura, bensì di quella temporale adatta a dirimere (tramite il potere punitivo della legge e la forza pubblica) i crimini comuni, come gli omicidi, i furti, la falsa testimonianza ecc. In particolare Coornhert polemizzò con Giusto Lipsio, che nel suo scritto Politicorum libri sex aveva sostenuto la tesi classica dell’una religio in uno regno. La tolleranza nei confronti di più confessioni è necessaria, secondo Coornhert, perché solo essa garantisce il libero confronto e la ricerca della verità in campo religioso. Sempre al calvinismo e agli sviluppi critici dell’arminianesimo si legano anche due visioni politiche che si confrontarono tra loro nel secolo XVII: l’altusianesimo e la prospettiva di Grozio. In effetti Altusio e Grozio furono due pensatori a confronto, in quanto contemporanei, a cavallo tra XVI e XVII secolo, essendo il primo un calvinista rigoroso, mentre il secondo fu un seguace dell’arminianesimo. L’impostazione della Politica (1603) di Altusio prevede, quale finalità dell’uomo politico, «la simbiosi santa, giusta, vantaggiosa e felice, e una vita che non manchi di nulla di ciò che è vantaggioso e utile»6. La suprema autorità deve stabilire e autorizzare nel suo regno una sola vera religione e non deve tollerare, «in nessun modo nel regno l’ateismo, l’epicureismo e il libertinismo, cioè l’empietà e l’irreligiosità manifesta»7. Tuttavia, in caso di confessione diversa da quella del principe, occorre tollerare i dissidenti, permettendo loro l’esercizio della confessione disapprovata. Nel 1614 usciva la terza edizione dell’Altusio, proprio mentre Grozio lavorava al De imperio summarum potestatum circa sacra (opera uscita postuma), nella quale la critica ravvisa tratti di volontarismo medievale e una posizione che riconosce ancora troppo potere d’intervento al sovrano nell’esercizio pubblico della religione. Invece, nel De iure belli ac pacis (1625), Grozio appare ormai partigiano convinto della tolleranza religiosa, contro l’intransigenza del calvinismo che aveva celebrato la propria vittoria (di Pirro) nel Sinodo di Dordrecht del 1618-1619. Infatti Grozio ritiene che si comportino contro ragione e contro il Vangelo coloro che pensano di poter infierire sui cristiani di diversa appartenenza confessionale. Il diritto naturale garantisce la tolleranza tra le diverse confessioni. Contestualmente, occorre però notare anche che con Grozio inizia a farsi strada un concetto di “religione naturale” che fa da pendant perfetto a quello di “diritto naturale”, come si evince facilmente dal suo scritto De vera religione (1627). 5. A tale concetto di religione naturale che si attiene a poche verità fondamentali (esistenza di Dio, destinazione eterna dell’uomo, valore morale delle azioni umane) si appellano due grandi pensatori sassoni della Scuola moderna del diritto naturale: Samuel Pufendorf e Christian Thomasius. Anche per loro i doveri principali della religione naturale costituiscono il fondamento del principio di tolleranza in materia religiosa. In ogni caso notiamo che Thomasius sarà il primo esponente filosofo di questa scuola a pretendere la tolleranza anche per il pensiero ateo. Diritto naturale e religione naturale si rafforzeranno reciprocamente nell’evoluzione del razionalismo continentale che si farà paladino della tolleranza, dal Trattato teologico-politico (1670) di Spinoza, attraverso l’Epistola sulla tolleranza (1685) di Locke e il Cristianesimo senza misteri (1695) di Toland, per sfociare, con i temi classici del deismo e dell’illuminismo, nel Trattato sulla tolleranza (1763) di Voltaire. 6. Un altro centro importante di elaborazione di idee in vista della libertà religiosa è costituito dal mondo dell’Europa dell’Est: Polonia, Transilvania e Moravia, dove una particolare congiuntura politica rese possibile la presenza simultanea di religioni e confessioni diverse. La Confederazione di Varsavia del 1573 garantì agli aristocratici, per lo più ricchi proprietari terrieri, di professare nelle loro terre la religione che avessero voluto. Convissero così, ufficialmente, per lungo tempo in quelle terre quattro religioni diverse: cattolica, luterana, calvinista e antitrinitaria. Quest’ultima ebbe due centri importanti, Claudiopoli (l’odierna Cluj in Romania) e Racovia (Raków in Polonia). Gli antitrinitari o unitariani diedero luogo, per secessione dall’Ecclesia maior calvinista, all’Ecclesia minor Fratrum Polonorum. Si diede anche un connubio stretto a quei tempi e in quelle regioni tra gli interessi sociali dell’anabattismo e quelli degli unitariani; tra l’altro gli appartenenti a questi movimenti religiosi vennero ugualmente rifiutati dai cattolici (ma anche dai protestanti) nel periodo d’oro della controriforma polacca, sotto Sigismondo III Vasa († 1632). Essi trovarono accoglienza nella terra franca dei Paesi Bassi, dove diversi dei loro esponenti avevano studiato intrattenendo forti legami con gli arminiani. Dalla loro oppressione venne la chiara richiesta della netta distinzione tra Chiesa e Stato. A Irenopoli, leggi Amsterdam, fu possibile stampare la famosa Bibliotheca Fratrum Polonorum. 7. Com’è noto, il principio della libertà religiosa fu accolto in tutte le Carte dei diritti, a cominciare da quella della Virginia (1776) e, dopo la Rivoluzione francese, anche nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789). La letteratura sulla nascita delle carte costituzionali degli Stati moderni ha abbondantemente messo in luce il diverso contesto storico in cui trovò spazio il riconoscimento di tale diritto. Si è giustamente osservato come per l’Inghilterra, più che del riconoscimento di un diritto naturale universale, si sia trattato dell’affermazione di un diritto da garantire ai cittadini britannici a tutti gli effetti, sullo sfondo di una mentalità molto conservatrice, a differenza di quanto accadde per gli Stati Uniti d’America, dove lo Stato riconobbe in assoluto, fin dall’origine, il valore universale dei diritti umani, a cominciare da quello della libertà di religione. Altra ancora fu l’affermazione della libertà religiosa sul territorio del continente europeo, dove essa fu rivendicata in modo fortemente polemico contro l’organizzazione statuale precedente, caratterizzata da condizioni di privilegio in una temperie politica assolutistica. Tali risultati vennero raggiunti attraverso la maturazione del pensiero moderno sul diritto naturale e la progressiva affermazione della mentalità democratica, ma, com’è noto, le affermazioni di principio relative a tolleranza e libertà religiosa furono ben presto contraddette da recrudescenze che compromisero ancora una volta la dignità della persona e le sue libertà. Orientandomi alla conclusione, metto in evidenza, in primo luogo, una scaletta di riferimento, quella legata alla dialettica moderna, già accennata, tra diritto naturale e religione naturale. Con l’umanesimo si comincia a semplificare estremamente il concetto di cristianesimo: la questione della verità, assunta con sobrietà, porta poco alla volta alla relativizzazione e, conseguentemente, all’insignificanza di alcuni contenuti dottrinali irrinunciabilmente cristiani. Qui, sulla scorta degli studi di Henri de Lubac8, sarebbe da ricordare anche il ruolo esercitato dalla cosiddetta Seconda scolastica (secondo lui, a cominciare dal Gaetano) nei confronti del concetto di “natura pura”, isolato e contrapposto a quello del “soprannaturale”, il cui ambito avrebbe finito con il risultare aggiuntivo e superfluo rispetto alla condizione semplicemente naturale dell’uomo. Effettivamente la Seconda scolastica dei secoli XVI e XVII avallò tale mentalità, sulla cui base fu poi possibile appoggiare il concetto moderno di religione naturale che si offrì come sostegno ai discorsi di tolleranza in materia religiosa. La successiva ondata di pensiero, propria del più schietto razionalismo e dell’illuminismo, comportò l’identificazione della religione con un semplice cristianesimo naturale, vale a dire, paradossalmente, un cristianesimo senza Cristo. Così, anche da questo punto di vista (oltre a quello più strettamente connesso allo smarrimento della ricerca metafisica, relativa in particolare al concetto di “persona”), la tolleranza fu guadagnata in età moderna sacrificando il discorso della verità. Per affermare una religione naturale astratta, che consentisse l’accordo di tutti eliminando l’intolleranza, si divenne intolleranti nei confronti delle uniche tradizioni religiose realisticamente esistenti e vitali. In secondo luogo, osservo che la maturazione del tema della libertà religiosa andò di pari passo in età moderna con l’affermazione sempre più netta della laicità dello Stato. Tale idea, assunta nei suoi connotati “moderni”, fu ereditata dal liberalismo ottocentesco, che la spinse fino all’ipotesi, puramente ideale e storicamente irrealizzabile, di una separazione netta e assoluta tra Stato e Chiesa, dove lo Stato non sarebbe soltanto “imparziale” nei confronti delle diverse confessioni religiose9, ma si profilerebbe come puramente “indifferente”, ben al di là di una necessaria e realistica “neutralità collaborativa”10. Questa riduzione della religione a fatto puramente individuale e irrilevante dal punto di vista pubblico compromette ancora una volta la reale densità concreta del principio della libertà religiosa, che invece deve essere fatto valere secondo tutta la concretezza storica del suo radicarsi nella dignità della persona, assunta in tutta la rete delle sue relazioni volte alla propria indispensabile cooperazione sociale. In terzo luogo, affermo che la libertà religiosa, in quanto ontologicamente radicata nella struttura della persona creata da Dio, è un valore stabile e inalienabile. Tuttavia, quanto alla sua realizzazione concreta, essa è sempre da capo affidata alla fragilità dell’uomo che ha, nei riguardi di tale sua dotazione, l’obbligo morale del riconoscimento e dell’attuazione. Perciò la libertà religiosa ha sempre bisogno di essere consapevolmente chiarita, illustrata, trasmessa e attuata con i mezzi propri dell’uomo, mezzi fragili che richiedono sempre il massimo delle sue cure. Custodiamo, infatti, questo tesoro in vasi d’argilla (cfr. 2Cor. 4, 7). 1 Vedi, sul versante del diritto, G. Dalla Torre, Europa. Quale laicità?, San Paolo, Cinisello Balsamo 2003, p. 53: «Nessun solido fondamento avranno i diritti fondamentali se concepiti come diritti concessi dal legislatore umano, come diritti definiti tali dal legislatore umano, e non come spettanze della persona che ad essa derivano dalla propria dignità di creatura». 2 Voglio dire la “tolleranza”, intesa, sul versante politico, quale significativa funzione della “Ragion di Stato”. 3 Alla luce di questa differenza di fondo, e dunque secondo un’ermeneutica della continuità, propongo d’intendere anche gli interventi magisteriali di Gregorio XVI, Pio IX e Leone XIII. Cfr. R. Sigmond, Chiesa e Stato nel magistero supremo della Chiesa dell’ultimo secolo, in R. Spiazzi (a cura di), Enciclopedia moderna del cristianesimo, vol. IV, Edizioni Paoline, s.l. 1960, pp. 539-564. In breve: «il criterio delle libertà politiche è costituito sempre dalla verità oggettiva, e non dall’autonomia della volontà individuale o collettiva», ibid., p. 545. 4 Erasmi Opus epistolarum, a cura di P.S. Allen, 12 voll., Clarendon, Oxford 1910-1958, vol. IV, n. 1033, p. 106, 236-241, con tagli, lettera del 19 ottobre 1519 ad Alberto di Brandeburgo. 5 Memoires de Messire Philippes de Mornay Seigneur du Plessis-Mornay, 2 voll., La Forest, par Jean Bureau, s.l. 1624-1625, vol. I, p. 22. 6 Althusius, Politica, I, 3 in Id., La politica elaborata organicamente con metodo, e illustrata con esempi sacri e profani, a cura e con un saggio introduttivo di C. Malandrino, 2 voll., Claudiana, Torino 2009, vol. I, p. 221. 7 Ibid., XXVIII, 52, vol. II, pp. 1233-1235. 8 Mi riferisco in particolare a H. de Lubac, Surnaturel: études historiques, Aubier, Paris 1946; Id., Augustinisme et théologie moderne, Aubier, Paris 1965; Id., Le Mystère du surnaturel, Aubier, Paris 1965. 9 Cfr. Isabel Trujillo, Laicità e neutralità-imparzialità, in G. Dalla Torre (a cura di), Lessico della laicità, Studium, Roma 2007, pp. 239-247, in particolare p. 241, dove si parla dell’imparzialità come criterio per ammettere al foro della ragione pubblica le idee candidate a risolvere un problema di cooperazione. 10 Cfr. Dalla Torre, Europa, cit., pp. 36, 72.