Molti dei migranti naufragati e affogati in giugno al largo della Grecia sono probabilmente arrivati in Libia volando dalla Siria. Non è l’aspetto centrale di questa triste vicenda, ma dice molto dell’attuale incapacità europea di governare il fenomeno

Ultimo aggiornamento: 15/03/2024 11:15:05

C’è un elemento nel funesto naufragio avvenuto al largo del Peloponneso che è passato abbastanza inosservato nella stampa italiana: la geografia. A bordo del peschereccio partito dalla Cirenaica e inabissatosi nelle acque del mar Ionio, non c’erano soltanto egiziani o palestinesi, ma anche bengalesi, pachistani, afghani e siriani. Come erano arrivati in Libia? Non certo via terra. Ecco un elemento che, nell’epoca del GPS e dell’eclissi della spazialità, rischia di sfuggire a molti.

 

Facciamo allora un passo indietro. Dal Pakistan o dall’Afghanistan non è difficile entrare in Iran, più o meno ignorati dalle autorità. Tra Iran e Iraq il confine è notoriamente poroso, per non parlare di quello tra Iraq e Siria, che fu completamente abolito da ISIS non più di qualche anno fa. Insomma, arrivare a Damasco dal subcontinente indiano è una questione relativamente semplice, naturalmente per quanto possa esserlo muoversi clandestinamente e alla mercè delle angherie dei trafficanti e (spesso) delle autorità. Fino a qualche anno fa, la strada dell’Asia portava poi dalla Siria in Turchia, ma al momento questa rotta è stata bloccata, un po’ per i fondi che l’Unione Europea versa ad Erdoğan a questo scopo, ma anche e soprattutto per il malcontento della popolazione turca. Anche alle recenti elezioni presidenziali il tema ha tenuto banco e persino Erdoğan, che negli anni ha accolto più di tre milioni di siriani scommettendo sulla caduta imminente di Asad, è stato costretto a una parziale retromarcia sulla questione, incalzato non solo dalle opposizioni, ma anche dai suoi stessi alleati.

 

Chiusa la strada verso nord, ai migranti non resta dunque che dirigersi verso sud, puntando a ricongiungersi alla cosiddetta rotta centro-mediterranea che dal Sahara conduce in Libia o in Tunisia e di lì in Italia o in Grecia. Soltanto che tra la Siria e le coste africane c’è un ostacolo in apparenza insormontabile: Israele. Lo Stato ebraico ha anch’esso i suoi problemi d’immigrazione clandestina, principalmente dall’Africa. Ma per ovvie ragioni di sicurezza non permette alcun movimento sul confine siro-libanese (due Paesi con cui è tuttora in guerra) e sorveglia molto strettamente la frontiera con la Giordania, compresa la piccola striscia di Eilat sul Mar Rosso che taglia in due il mondo arabo, impedendo il passaggio via terra dal Sinai egiziano alla Penisola arabica e al Levante.

 

A risolvere il problema ci ha pensato però una linea aerea, Cham Wings (“Ali del Levante”), con sede a Damasco. Aprendo il sito Internet, l’apparenza è quella di una qualsiasi compagnia aerea, con tanto di programma fedeltà e offerte speciali. Le destinazioni servite sono del tutto logiche partendo dalla Siria: il Golfo soprattutto, Iran, Iraq, Pakistan, Mosca, Yerevan. Senonché la compagnia opera anche dei voli charter e due di questi servono regolarmente gli aeroporti di Benina (Bengasi) e Labraq (Beida) in Cirenaica, a tre/quattro ore circa di strada dal porto di Tobruk.

 

Commentando la tragedia di Pilo, Jalel Harchaoui, tra i maggiori esperti di Libia, ha scritto su Twitter: «Nonostante l’ampiezza di questo orrore, vedrete che i voli di Cham Wings su Benina e Labraq continueranno con la stessa frequenza in costante crescita. In che altro modo pensate che pachistani e bengalesi siano finiti nel peschereccio che è salpato da Tobruk?». Sempre secondo lo studioso algerino, la compagnia aerea è di fatto posseduta da Maher al-Asad, fratello di Bashar. Nulla di sorprendente vista la condizione attuale della Siria, la cui economia è nelle mani di una ristrettissima élite che si arricchisce con traffici illeciti, oltre ai migranti la droga sintetica Captagon, che sta mietendo vittime in tutto il Medio Oriente.

 

Ovviamente la vicenda di Cham Wings è soltanto una tessera, e neppure la più importante, in un mosaico molto più ampio. Anche se si interrompesse il traffico di esseri umani che passa per l’aeroporto siriano, le partenze dalla Libia non si arresterebbero. Con il Sahel nelle condizioni attuali, con la Tunisia sull’orlo del tracollo, con il Sudan sprofondato nella guerra civile, chiunque può se ne va, spesso è una questione di vita e di morte. E se anche l’Egitto dovesse collassare (un’eventualità esclusa nel breve periodo, ma non a lungo termine), l’esodo assumerebbe proporzioni bibliche. Senza contare che la rotta aerea siriana non è certamente la sola. Per esempio, per quanto riguarda il Pakistan, si parla di voli regolari verso l’Egitto o la Libia, dove i migranti sono presi in carico dai trafficanti. Ciò non toglie che la storia della compagnia low-cost ci consegni alcune interessanti lezioni: sul regime siriano, sui suoi alleati e sull’economia delle migrazioni, che non è fatta solo di scafisti (loro sono i “pesci piccoli”).

 

Soprattutto però questa vicenda dimostra che la migrazione è un fenomeno globale, con cui si ritrovano a fare i conti tutti gli Stati. L’interesse dell’Europa e del nostro Paese in particolare è di governare questo fenomeno. Come ha ricordato recentemente il Cardinal Zuppi, non ha senso contrapporre il sostegno alla natalità e l’apertura alle migrazioni. Una cosa non esclude l’altra. Anche se le politiche messe in atto o annunciate in Italia invertissero la tendenza in atto (e come non augurarselo?), gli effetti non si vedranno prima di due decenni. Perciò la scelta al momento è soltanto tra chi vogliamo che governi il flusso dei migranti: l’Italia e l’Unione Europea o Cham Wings e Maher al-Asad? Non decidere è già una decisione. Nel frattempo, la compagnia damascena continua a volare. Senza confini, come recita il suo slogan.

 

 

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