Nel Medio Oriente allargato è in corso uno scontro tra fazioni complicato dalla grande disponibilità di idrocarburi. Infatti, mentre a livello interno la rendita petrolifera ha un effetto stabilizzatore, non altrettanto avviene sul piano regionale

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:02:38

Nel Medio Oriente allargato è in corso uno scontro tra fazioni complicato dalla grande disponibilità di idrocarburi. Infatti, mentre a livello interno la rendita petrolifera ha un effetto stabilizzatore, non altrettanto avviene sul piano regionale. In passato, l’abbondanza di risorse finanziarie ha incoraggiato la corsa agli armamenti e la conflittualità dell’area. Oggi, il calo del prezzo dei combustibili fossili e il crollo del turismo dovuto alla pandemia di coronavirus non portano necessariamente a una pacificazione.

 

Il mondo arabo è in preda a una guerra civile di dimensione regionale. Siamo abituati a considerare le vicende politiche ed economiche separatamente per ciascun Paese arabo: in quest’ottica vediamo quattro Paesi in cui si combatte attivamente tra diverse fazioni politiche: la Siria, l’Iraq, lo Yemen e la Libia. Ma questa visione è parziale perché ignora la dimensione regionale della politica araba, drammaticamente evidenziata dalla Primavera araba e dai suoi seguiti. In Medio Oriente, gli sviluppi politici in un Paese non sono indipendenti e isolabili dagli sviluppi politici nel resto della regione. In una certa misura questo vale anche per altre aree, America Latina, Africa o Europa. Nella regione araba gli sviluppi in un Paese hanno conseguenze immediate per gli equilibri politici negli altri Paesi, i quali conseguentemente non possono essere indifferenti e reagiscono intervenendo negli affari interni dei loro vicini.

 

Al tempo della Primavera araba, l’Arabia Saudita, con il supporto degli altri Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, è intervenuta apertamente per porre fine al movimento di democratizzazione in atto in Bahrain e salvare la locale dinastia sunnita. L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti sono intervenuti, meno apertamente ma non timidamente, per rovesciare la presidenza di Mohammed Morsi in Egitto (sostenuta dal Qatar) e portare al potere il loro cliente, il generale al-Sisi. Sempre l’Arabia Saudita e gli Emirati sono intervenuti attivamente anche in Siria, Yemen e Libia.

 

In nessuno di questi tre casi hanno avuto molto successo. In Siria, la strana alleanza tra l’Iran e la Russia è riuscita a mantenere al potere Bashar al-Assad, che oggi controlla la maggior parte del Paese, anche se a prezzo della distruzione dello stesso e dell’esodo all’estero di milioni di siriani. In Yemen, l’avventata decisione dell’Arabia Saudita di intervenire direttamente nel conflitto non ha portato all’estromissione dal potere degli Houthi alleati dell’Iran, ma solo a una stabilizzazione delle ostilità, dalle quali gli Emirati hanno preferito sfilarsi, lasciando soli i sauditi. Anche in questo caso, i costi in termini di vite umane e distruzione di un Paese già poverissimo sono incalcolabili. In Libia, il sostegno aperto al generale Haftar, nonostante il concorso della Russia e della Francia, non ha portato all’estromissione del governo di Tripoli riconosciuto dall’ONU ma, al contrario, ha aperto le porte all’intervento della Turchia.

In tutta la regione l’Iran continua, nonostante l’imposizione delle nuove sanzioni da parte degli Stati Uniti e la quasi completa interruzione delle esportazioni di petrolio, a sostenere attivamente le rivolte sciite in Bahrain, in Yemen e nella stessa Arabia Saudita. L’Iran sostiene Hezbollah in Libano, che costituisce uno Stato nello Stato con una propria forza armata e si oppone al superamento della lottizzazione politica su base confessionale, che ha condotto il Paese acontinua a leggere

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