“La Libia non è un capitolo chiuso per la Chiesa, viviamo un momento difficile assieme al Paese”, ci dice il vescovo di Tripoli George Bugeja

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:08:27

Tripoli, Libia. È venerdì a Tripoli. Eppure, nella chiesa di San Francesco, nel centrale quartiere di Dahra svuotatosi per la giornata della preghiera e del riposo islamici, si celebra in anticipo di due giorni la Pentecoste. I fedeli, per la maggior parte africani e filippini, non potrebbero infatti venire la domenica, giorno lavorativo, ci spiega S.E. Mons. George Bugeja, francescano maltese di Gozo e da meno di un anno Vicario apostolico coadiutore: insomma vescovo facente funzione in un territorio di frontiera per la Chiesa cattolica. Il Paese è attraversato da scontri tra milizie e forze armate che sostengono due governi diversi e rivali, uno a Tripoli l'altro a Tobruk. Il vuoto di potere è sfruttato dallo Stato Islamico, e quello istituzionale gonfia i numeri dei migranti che partono da queste coste verso l'Europa. Molti passano anche dalla parrocchia di S.E. Bugeja. Venerdì mattina è anche giornata di cresime. Nella vasta chiesa di chiara fattura fascista sembra d’essere in uno Stato del Sud degli Stati Uniti più che in una cittadina del Nord Africa in preda alla guerra. Ad accogliere i fedeli ci sono ragazzi di colore. Indossano una fascia con la scritta "usher", in inglese, usciere. Il coro intona gospel. I fedeli sono lavoratori africani, in arrivo da diversi Paesi. Nel cortile interno le nigeriane hanno allestito banchetti in cui vendono stoffe colorate, spezie, pesce secco; in una saletta un altro gruppo celebra un fidanzamento sulle note di un organetto. La Libia non è un capitolo chiuso per la Chiesa, viviamo un momento difficile assieme al Paese, spiega a Oasis il vescovo Bugeja, nel "venerdì di Pentecoste". Chi sono i cristiani in Libia? Come cattolici ci sono i filippini e gli africani di diversi Paesi: Nigeria, Ghana, Sierra Leone… altri arrivano da nazioni francofone. La messa di questa mattina era in inglese e c'erano gli africani. Prima, alle 9.00, vengono i filippini, per la maggior parte infermieri che lavorano nelle cliniche e negli ospedali privati. La messa è celebrata il venerdì: è un compromesso per permettere a chi lavora di partecipare. Di solito ci sono circa 400 persone. L’intera comunità arriva a 3.000 individui, ma molti stanno partendo con programmi di rimpatrio. È il caso dei filippini. Non ci sono libici cattolici. Qual è il suo rapporto con le istituzioni locali religiose e politiche? Nella situazione in cui è il Paese, non ho avuto l’opportunità di avere qualche contatto con queste istituzioni. È da parte loro che dovrebbe arrivare l’invito. Oltre alla sua chiesa di San Francesco, ce ne sono altre a Tripoli? La moschea di piazza Algeria – centrale piazza della capitale libica, ndr – era la cattedrale fino all’arrivo di Muammar Gheddafi. La chiesa di Santa Maria degli Angeli, costruita dagli italiani nella città vecchia, è gestita dagli anglicani. Due anni prima della caduta di Gheddafi il governo libico l’aveva proposta a noi. È una bella chiesa, con i simboli francescani. Il vescovo Giovanni Martinelli l’ha poi data agli anglicani che non avevano un luogo di culto. Prima di Gheddafi, a Tripoli c’erano 39 chiese. L'ex presidente le ha chiuse tutte, tranne quella in cui ci troviamo. C’è preoccupazione per la sicurezza della comunità? La questione della sicurezza è molto delicata. Abbiamo una comunità di cristiani a Sebha – città nel Sud della Libia, ndr - composta di africani. Lì c’è un fratello laico che ci aiuta, ci sono catechisti nei dintorni della città. Non possiamo però celebrare l’eucaristia: due anni fa, nella città hanno sparato a un sacerdote che era andato lì, a un altro è stata rubata l’automobile nel mezzo del deserto. Tra i fedeli africani c'è anche chi di passaggio tenta di raggiungere l'Europa? Noi non incoraggiamo a prendere il rischio di attraversare il Mediterraneo. Non si può incoraggiare nessuno a rischiare la vita. Quando scopriamo che qualcuno ha intenzione di partire, proviamo a dissuaderlo. Proviamo ad aiutare chi è arrivato attraverso Caritas Libia, c’è inoltre un dottore che viene qui da noi regolarmente, ci sono infermieri. Ci sono nel Paese altri sacerdoti, istituti religiosi? Nel febbraio scorso mi è stato affidato anche il vicariato apostolico di Bengasi, ma ancora non posso fare la spola tra le due città per questioni di sicurezza. C’è una chiesa a Bengasi nel quartiere di Suq al-Hut, si trova in una zona di combattimento e mi hanno detto che fino a poco tempo fa lì c’era lo Stato Islamico. C’è un sacerdote nella zona, ma per il momento non sta in città. Non ci sono chiese in altre città. Quali sente essere i compiti principali della sua missione in Libia? Al momento, curare pastoralmente le persone che vengono qui, incoraggiarle per quanto sia possibile, vivere la Parola, essere cordiali, perdonare e amare. Per me questo è importante, perché da parte nostra non conta quanto si fa ma come lo si fa. Pensa che sia una missione di resistenza? Non penso che la Libia sia un capitolo chiuso per la Chiesa, anche se ci sono difficoltà, più a Bengasi che a Tripoli. Prima della rivoluzione, con la presenza di ambasciate, la Chiesa era più attiva, per la partecipazione dei residenti non libici. In prospettiva, in futuro, il ritorno della stabilità porterà alla riapertura delle ambasciate, a nuovi contratti per i lavoratori che poi avranno bisogno di una guida spirituale. Questo è un momento particolare che viviamo assieme al Paese. Dà raccomandazioni ai suoi parrocchiani per quanto riguarda la sicurezza? No, è tutto affidato al buon senso di ciascuno. [@rollascolari]