Il comunicato con cui le brigate al-Qassam hanno lanciato l’attacco del 7 ottobre permette di valutare gli obiettivi e la natura del movimento islamista palestinese

Ultimo aggiornamento: 15/03/2024 11:37:38

In che modo Hamas ha giustificato l’atroce attacco del 7 ottobre scorso e quali sono i suoi obiettivi? In seguito all’operazione “Diluvio di al-Aqsa”, i leader politici del movimento islamista palestinese sono abbondantemente intervenuti su diversi canali arabi per esporre le loro ragioni e sono soprattutto le loro parole a essere state commentate. Minore attenzione è stata invece dedicata alla registrazione audio con cui Muhammad Dayf, leader delle Brigate ‘Izz al-Din al-Qassam, il braccio militare di Hamas, ha annunciato l’aggressione. Analizzare questo documento, che Oasis ha tradotto integralmente dall’originale arabo, è tuttavia utile per diversi motivi.

 

Innanzitutto, perché esso è stato elaborato dagli esecutori materiali dell’attacco. Vi è infatti più di un dubbio sulla partecipazione effettiva della leadership politica di Hamas all’ideazione dell’operazione del 7 ottobre. Qualcuno ipotizza addirittura che essa non fosse neppure informata del progetto. Nella celebre intervista fattagli dall’emittente saudita al-Arabiya, il capo di Hamas all’estero Khaled Meshaal aveva tra l’altro affermato che le scelte strategiche di Hamas vengono discusse dall’ufficio politico, ma che sono le brigate al-Qassam a prendere le decisioni sul campo.

 

In secondo luogo, le ragioni e gli obiettivi dell’attacco addotti dal comunicato consentono una valutazione più accurata delle aspettative di Hamas e del suo braccio militare, anche al di là delle finalità di altri attori regionali, a partire dall’Iran, con i quali il movimento palestinese si è verosimilmente coordinato. Nel documento ricorrono i temi già ampiamente ripetuti dalla dirigenza del movimento islamista: all’origine dell’operazione vi sarebbero la persistente occupazione della Palestina da parte dell’«entità sionista», l’espulsione e l’uccisione dei palestinesi, la distruzione delle loro case e la confisca delle loro proprietà, l’inerzia e il silenzio della comunità internazionale, la violazione e la profanazione dello spazio sacro della moschea di al-Aqsa, la detenzione di migliaia di prigionieri in condizioni disumane. Ma il proclama annuncia anche che questo stato di cose è finito e invita alla sollevazione i palestinesi di Gerusalemme e della Cisgiordania, oltre a quelli che vivono in Israele (il messaggio audio parla del Negev, della Galilea, del Triangolo e di Haifa, Giaffa, Acri, Lod e Ramla, tutte città israeliane con una consistente popolazione araba). Vi è poi un appello specificamente rivolto ai fratelli della “resistenza islamica” in Libano, Iran, Yemen, Iraq e Siria, il celebre “Asse della Resistenza” guidato da Teheran, che precede quello indirizzato a tutti gli altri Paesi arabi e islamici.

 

Da questi riferimenti si capisce che il braccio militare di Hamas puntava evidentemente a innescare un’insurrezione generalizzata, che al momento non si è verificata. Nelle sue apparizioni televisive, anche la leadership politica del movimento ha peraltro lasciato trasparire un certo disappunto di fronte all’inazione degli alleati regionali. Come ha messo in luce la studiosa americana di jihadismo Nelly Lahoud, questo elemento suggerisce un parallelo tra Hamas e al-Qaida, nonostante la diversità delle due organizzazioni. Con gli attacchi dell’11 Settembre, anche Osama Bin Laden mirava a sfatare il mito della potenza americana e mettere in moto un’insurrezione islamica globale, ma l’attacco statunitense in Afghanistan e l’assenza di una mobilitazione da parte musulmana hanno vanificato i suoi piani. Su una scala più ridotta, anche Hamas intendeva dimostrare la fine dell’invincibilità israeliana, galvanizzando la popolazione palestinese e le piazze arabe e islamiche, ma la mancata sollevazione, l’attendismo dei suoi alleati e la brutale ritorsione israeliana hanno probabilmente complicato i calcoli del movimento. Negli ultimi giorni, le dichiarazioni contraddittorie di diversi dirigenti di Hamas – il 24 ottobre Ghazi Hamad ha ribadito che l’obiettivo rimane la cancellazione definitiva dello Stato d’Israele, il 1° novembre il capo del movimento Ismail Haniyeh ha più cautamente (e opportunisticamente) aperto a negoziati che portino alla soluzione dei due Stati – segnalano le difficoltà dell’organizzazione e l’assenza di una linea politica chiara e condivisa. Resta da vedere come si muoverà Hezbollah, e il discorso di Hassan Nasrallah annunciato per il 3 novembre dirà qualcosa in proposito, ma è evidente che gli obiettivi strategici di Hamas e degli altri membri dell’“Asse della Resistenza” possono convergere, ma non coincidono.

 

Un’ultima considerazione riguarda lo stile del comunicato. È vero che la violenza indiscriminata con cui gli assalitori hanno colpito il 7 ottobre ha fatto venir meno alcune differenze tra Hamas e l’ISIS, ma il linguaggio utilizzato dall’annuncio del “Diluvio di al-Aqsa” mette in risalto anche significative divergenze tra i due gruppi. Organizzazione marcatamente salafita, lo Stato Islamico è attento a esibire la conformità dottrinaria delle sue idee e delle sue azioni, che vengono puntualmente giustificate da citazioni, certo selettive e decontestualizzate, del Corano, della Sunna e di autori classici particolarmente autorevoli. Il vocabolario religioso è ovviamente ben presente nel comunicato delle Brigate al-Qassam, che contiene diversi rinvii al Corano, menziona a più riprese il soccorso che Dio fornirà attraverso i suoi angeli e insiste sull’importanza della moschea di al-Aqsa. Ma i riferimenti islamici sono trattati in modo diverso dalle due organizzazioni, a partire dall’immagine stessa del Diluvio che ha dato il nome all’attacco di Hamas, un tema tipicamente millenaristico molto utilizzato anche dall’ISIS. Il secondo numero di Dabiq, la rivista in lingua inglese dello Stato Islamico, portava esattamente questo titolo (The Flood) e al suo interno si trovava un lungo e dettagliato parallelo tra la vicenda di Noè, raccontata anche dal Corano, e la condizione attuale dell’umanità. Nel proclama di Hamas non mancano i toni apocalittici – i palestinesi sono invitati a «incendiare la terra sotto i piedi degli occupanti usurpatori» –, ma l’allusione al diluvio non è inquadrata in una cornice dottrinaria rigorosa e il nemico non viene identificato secondo la classica dicotomia teologica impiegata dai movimenti salafiti (credente/infedele), bensì in termini più chiaramente politici (l’occupante criminale). Soprattutto, contrasta con il lessico delle organizzazioni jihadiste salafite il richiamo alle violazioni del diritto internazionale e ai diritti umani, due istituti che ISIS rifiuta categoricamente come un mero prodotto dell’Occidente idolatra. Questo non significa che Hamas abbia davvero a cuore la legalità internazionale, ma tale commistione tra retorica religiosa e linguaggio secolare è un indicatore della sua appartenenza alla galassia dei Fratelli musulmani, l’organizzazione islamista da cui è nato il movimento palestinese, più che a quella salafita.

 

In realtà, il comunicato presenta anche una preoccupante similitudine con i documenti di altre organizzazioni islamiste radicali. Esso invita infatti tutti coloro che possiedono un fucile a tirarlo fuori, e incoraggia chi ne sia sprovvisto a ricorrere alla mannaia, all’ascia, alla scure, oppure a bottiglie molotov, o ancora ad autocarri o automobili, un armamentario che ricorda molto da vicino i mezzi suggeriti da molti manuali jihadisti per colpire il nemico.

 

Anche se non ha prodotto i risultati forse auspicati dalle Brigate al-Qassam, il “diluvio” scatenato il 7 ottobre è purtroppo tutt’altro che metaforico. Il ciclo della violenza è partito e i suoi esiti sono già catastrofici.

 

 

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