Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 12:08:05

La settimana scorsa il presidente americano Joe Biden aveva auspicato il raggiungimento di un cessate-il-fuoco a Gaza entro lunedì 4 marzo. Come abbiamo visto, però, alle dichiarazioni sono seguite azioni di più basso profilo: prima l’aviolancio di 30.000 pasti sulla Striscia di Gaza, in un’operazione simile a quella già messa in atto dalla Giordania, poi l’annuncio della costruzione di un molo galleggiante per favorire l’afflusso di aiuti umanitari. La triste ironia dell’Economist: mentre Israele sgancia bombe fabbricate dagli americani, gli americani sganciano pasti pronti. Una situazione peggiorata dal fatto che proprio nell’ultimo lancio di aiuti, avvenuto venerdì 8 marzo, alcuni paracaduti non si sono aperti. Risultato, per quanto ancora da verificare: altri cinque morti tra i palestinesi e diversi feriti.

 

Così, morte, traumi e distruzione continuano a segnare le vite dei palestinesi di Gaza e degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas. Anchal Vohra su Newlines Magazine si è soffermata sulle sofferenze psicologiche dei più giovani: «che cosa succede alla mente di un giovane quando vede degli estranei entrare nel suo spazio sicuro, la sua casa, e uccidere i suoi genitori? E quando si è rapiti e imprigionati in un tunnel buio molto al di sotto del suolo? E cosa provoca vedere i propri genitori indifesi e l’intero quartiere bombardato? O, se non si sta soffocando sotto le macerie, non avere acqua, né una casa, né un bagno, né medicine, né un’uscita verso una nazione vicina più sicura?». I traumi a cui questi giovani sono costretti si faranno purtroppo sentire ben oltre la fine delle ostilità. Che comunque non sembra vicina, nonostante i negoziati, pur con grandissima fatica, proseguano, nel disperato tentativo di fermare il conflitto prima dell’inizio del mese di Ramadan.

 

Sul tavolo c’è un accordo che prevede sei settimane di pausa nei combattimenti in cambio del rilascio di 35-40 israeliani detenuti da Hamas, ma per il movimento terrorista anche stilare la lista degli ostaggi è un grosso problema. In cambio Israele dovrebbe rilasciare centinaia di detenuti dalle carceri dello Stato ebraico, tra i quali i palestinesi vorrebbero inserire Marwan Barghouti, ciò che invece, ricorda il Times of Israel, Tel Aviv vuole assolutamente evitare. La storia di Barghouti è stata raccontata nel nuovo documentario “Tomorrow’s Freedom”: ne ha parlato con il figlio, Arab Barghouti, la giornalista della CNN Christiane Amanpour (video).

 

Sebbene si sia rifiutato di adottare un approccio muscolare per imporre a Israele la sua linea, come fece Reagan, il quale bloccò l’invio di armi allo Stato ebraico, Biden continua a spingere per la tregua. Secondo al-Monitor in questi giorni le pressioni si sono spostate su Hamas, complice il fatto che, anche secondo un quotidiano ultra critico nei confronti di Netanyahu, come Haaretz, il governo israeliano avrebbe questa volta accettato le condizioni negoziate con Stati Uniti, Egitto, e Qatar. Secondo Amos Harel però, è il leader di Hamas Yahya Sinwar ad avere piani differenti alla vigilia di Ramadan: «a causa del carattere religioso del periodo del Ramadan, Sinwar potrebbe sperare di scatenare una conflagrazione regionale, infiammando Gerusalemme e la Cisgiordania, e forse [scatenando] manifestazioni di massa nei Paesi arabi vicini. Sembra un’altra grande scommessa che si aggiunge a quella che la leadership di Hamas nella Striscia di Gaza ha fatto in ottobre». Sebben anche in Israele, scrive al-Jazeera, prenda sempre più forza il coro di chi chiede un cessate-il-fuoco, Sinwar potrebbe contare su un improbabile alleato: Itamar Ben-Gvir. I timori sono che il ministro per la Sicurezza Nazionale decida unilateralmente di alzare la posta, compiendo atti provocatori come recarsi al complesso di Al-Aqsa.

 

Sinwar si muove in un equilibrio molto fragile: rifiutare un cessate-il-fuoco significherebbe aumentare ulteriormente le pene della popolazione di Gaza, ciò che potrebbe risultare in una diminuzione della popolarità di cui gode Hamas tra i palestinesi. La situazione umanitaria è veramente insostenibile: il ministero della Sanità palestinese (controllato dal gruppo islamista) ha reso noto che 18 persone sono già morte di fame e sete, mentre le Nazioni Unite hanno dichiarato che la carestia è «quasi inevitabile» nella Striscia di Gaza. L’Onu si è pronunciato anche sulle accuse di stupri e violenze sessuali perpetuate da Hamas: un rapporto pubblicato lunedì ha affermato non soltanto di avere «chiare e convincenti» informazioni riguardo alle violenze sessuali compiute durante l’attacco del 7 ottobre 2023, ma anche di «torture sessuali» a cui sono stati assoggettati alcuni degli ostaggi. Sebbene, come ha ricordato il New York Times, il presidente israeliano Isaac Herzog abbia applaudito alla «chiarezza e integrità morale» del documento, questa condanna nei confronti di Hamas non è sufficiente a sanare i rapporti, che restano tesissimi, tra l’Onu e lo Stato ebraico. Lo dimostra il fatto che il ministro degli Esteri israeliano, Israel Katz, ha accusato il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, di sforzarsi di «dimenticare il report ed evitare di prendere le necessarie decisioni». Al centro delle tensioni c’è, come ha ricordato Le Monde, l’UNRWA, che Israele ha nuovamente accusato di impiegare «centinaia» di terroristi tra i suoi lavoratori.

 

Anche la vicepresidente americana Kamala Harris, la quale ha ricevuto alla Casa Bianca Benny Gantz (ne parliamo nel successivo paragrafo), ha chiesto che il cessate-il-fuoco venga accettato da tutte le parti in causa e ha accusato Israele di non fare abbastanza per l’ingresso di aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. Uno dei dati incontrovertibili che emergono da questi cinque mesi di guerra è l’incapacità degli Stati Uniti di portare Israele ad agire nel modo preferito da Washington. Se da un lato gli Stati Uniti non riescono più a indirizzare il corso degli eventi in Medio Oriente, dall’altro, ha osservato Gregg Carlstrom su Foreign Affairs, non è ancora emerso un vero ordine mediorientale post-americano. «La regione è in un interregno. Dimenticate i discorsi sull’unipolarismo o sul multipolarismo: il Medio Oriente è non-polare» e lo era già prima del 7 ottobre, ma fino a quel momento molti si erano illusi del contrario.

 

Tornando ai viaggi di questi giorni, Gantz non è stato l’unico a recarsi a Washington. Il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan è nella capitale americana per avviare colloqui approfonditi sullo stato delle relazioni tra Stati Uniti e Turchia e per parlare della guerra tra Israele e Hamas. Precedentemente è stato il turno del primo ministro del Qatar, Sheikh Mohammed bin Abdulrahman Al Thani, il quale durante gli incontri avuti con il segretario di Stato Antony Blinken ha riaffermato l’importanza del legame tra Doha e Washington e lavorato per il cessate-il-fuoco a Gaza. Ci sono stati anche movimenti nella direzione opposta: la Casa Bianca ha nuovamente mandato il suo inviato speciale Amos Hochstein in Libano, dove la situazione è sempre più tesa. Secondo il resoconto dell’Associated Press, infatti, almeno tre paramedici di Hezbollah sono morti in un attacco israeliano, mentre un lavoratore straniero è stato ucciso da un razzo lanciato dalle milizie del “Partito di Dio” verso lo Stato ebraico. Sul versante palestinese, invece, si registra il viaggio di Abu Mazen in Turchia, dove ha incontrato il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan per discutere dei piani per il “giorno dopo”. Il leader dell’AKP ha sottolineato l’importanza dell’unità all’interno del campo palestinese, necessaria per rendere credibile qualsiasi strategia per un futuro Stato palestinese. Uno degli elementi fondamentali del piano immaginato dagli Stati Uniti è il rafforzamento dell’Autorità Palestinese, che a sua volta passa dal consolidamento delle sue forze di sicurezza. Quest’ultimo, però, sembra essere un obiettivo difficilmente raggiungibile: l’Autorità Palestinese, con le sue forze, «non è pronta per andare a Gaza, e non lo sarà in breve tempo. Non hanno i numeri per farlo, e nemmeno la volontà e la conoscenza di Gaza», ha dichiarato un diplomatico occidentale al Washington Post. «Nonostante due decenni di riforme, le forze di sicurezza restano cronicamente sottofinanziate e largamente impopolari, mal equipaggiate per assumere le enormi responsabilità che i loro sostenitori occidentali stanno immaginando», hanno scritto i giornalisti del Post dopo aver avuto accesso a un centro di addestramento palestinese.

 

 

Israele:  la tenuta della coalizione messa a dura prova 

 

A differenza di Netanyahu, che non ha ancora ricevuto un invito alla Casa Bianca, Benny Gantz, che fino a prima del 7 ottobre era all’opposizione, è stato ricevuto a Washington, dove ha incontrato la vicepresidente Kamala Harris, il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, il segretario di Stato Antony Blinken e alcuni senatori. Netanyahu è furioso con Gantz: non solo per l’evidente smacco subito ma anche, come ha scritto Rina Bassist (al-Monitor), per essersi recato negli Stati Uniti senza avergli preventivamente chiesto il permesso. La frattura è confermata dalle dichiarazioni di John Kirby (portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale americana), il quale ha sottolineato che è stato Gantz a chiedere di essere ricevuto dagli americani. Era chiaro fin dal principio che la visita sarebbe stata interpretata come un colpo basso nei confronti di Netanyahu, ma evidentemente sia Gantz che le autorità di Washington hanno valutato che era il caso di procedere e lasciare, dunque, che tutta la disapprovazione dell’amministrazione americana nei confronti di Netanyahu emergesse pubblicamente. «Poche cose fanno piacere a Washington, in questi tempi complessi, come vedere Netanyahu e i suoi fare una scenata per il favoritismo mostrato nei confronti di Gantz», ha scritto Ben Caspit.

 

Se da un certo punto di vista era già chiaro quanto fosse fragile la coalizione di governo in Israele, dall’altro è certo che la visita di Gantz ha esasperato le tensioni. Il Financial Times si è soffermato su due aspetti in particolare. Primo: l’ambasciata israeliana a Washington ha ricevuto indicazioni di «boicottare gli incontri di Gantz». Una decisione che «mina lo status della più importante ambasciata israeliana e danneggia intenzionalmente la sua capacità di funzionare correttamente in un momento di sfide senza precedenti», ha scritto l’ex ambasciatrice Tova Herzl sul Times of Israel. Secondo: gli alleati di Netanyahu hanno accusato l’ex ministro della Difesa di agire come un cavallo di troia, e quindi di non fare gli interessi di Israele. Secondo il ministro dei Trasporti Miri Regev, membro del Likud e una delle collaboratrici più vicine a Netanyahu, la visita di Gantz è un «atto di sovversione».

 

In soccorso dell’ex ministro della Difesa è arrivato un editoriale del Jerusalem Post. Da un lato critica fortemente Harris per aver dato l’impressione che Israele è il solo responsabile della catastrofe a Gaza (al contrario del Times of Israel, che parla di un approccio bilanciato di Harris), ma dall’altro sostiene che l’attuale vicepresidente avrà un peso sempre maggiore nell’amministrazione americana e nel partito democratico. Gantz ha quindi fatto bene a incontrarla e a rinsaldare il rapporto con lei.

 

Secondo la ricostruzione del Wall Street Journal, sulla quale comunque concordano sostanzialmente tutti i media internazionali, la visita di Gantz «riflette le crescenti tensioni» tra i membri del Gabinetto di guerra di Israele, «che si contendono il potere politico». Intanto cresce il grado di apprezzamento di Gantz all’interno del Paese: secondo diversi sondaggi, come quelli citati dall’Associated Press, se si tenessero oggi le elezioni, Gantz otterrebbe un numero sufficiente di voti per diventare primo ministro. Al contrario, le percentuali di Netanyahu continuano a scendere, con buona parte della popolazione che lo ritiene responsabile di quanto avvenuto il 7 ottobre scorso. I problemi per Netanyahu non arrivano però soltanto dalla popolarità di Gantz e dalle sue imprese estere. Un capitolo a parte, forse decisivo, riguarda i rapporti con le forze religiose dell’estrema destra, che potrebbero provocare la caduta di Netanyahu. L’architetto dell’operazione potrebbe essere un altro membro del gabinetto di guerra: il ministro della Difesa Yoav Gallant. L’argomento di discussione è l’esenzione dalla coscrizione militare per gli ebrei ultraortodossi, che secondo un reportage del New York Times, che ne racconta il modo di vivere e la relazione con i laici israeliani, compongono ormai circa il 13% della popolazione (da 40.000 nel 1948, a più di un milione oggi). La crescita demografica di questo gruppo all’interno dello Stato ebraico ha fatto sì che i privilegi di cui gode, negoziati alle origini dello Stato di Israele, siano diventati secondo molti israeliani non solo ingiusti ma anche insostenibili. Attualmente i giovani studenti delle scuole rabbiniche sono esentati dal servizio militare, ma la Corte Suprema ha stabilito che entro fine mese una legge dovrà regolarizzare la situazione, in un senso o nell’altro. Tuttavia, ha scritto Anshel Pfeffer su Haaretz, al momento della formazione del governo nel 2022 Netanyahu promise ai partiti ultraortodossi che avrebbe promosso una legge per fissare una volta per tutte l’esenzione dal servizio militare per gli studenti delle yeshiva. Ora Gallant ha dichiarato che presenterà una legge di questo tipo solo nel caso in cui tutta la coalizione si dichiarerà favorevole. Il problema è che, a differenza di oggi, quando Netanyahu fece la promessa ai partiti della destra religiosa, il partito di Benny Gantz non faceva parte della coalizione. Dunque, se Gallant manterrà la sua parola, la legge avrà bisogno anche dell’approvazione di Gantz, ciò che secondo Pfeffer è «molto improbabile» avvenga. Se la legge non passerà entro la scadenza imposta dalla Corte suprema, il governo sarà costretto a interrompere i finanziamenti nei confronti di quelle yeshiva i cui studenti rifiutano di servire nell’esercito. Se ciò avvenisse, sarebbe molto difficile che i partiti religiosi che compongono la maggioranza di governo restino al loro posto.

 

 

La “sanzione economica” imposta dagli Houthi 

 

Le operazioni navali occidentali, di cui anche l’Italia è parte attiva come dimostrato dalle azioni della Duilio, non hanno fermato gli attacchi degli Houthi. Anzi, questa settimana gli attacchi missilistici del gruppo yemenita hanno provocato per la prima volta delle vittime tra il personale di bordo delle navi: sono almeno tre i morti provocati da un attacco, mentre quattro altre persone sono ferite, delle quali tre in condizioni critiche. Secondo il Pentagono, i bombardamenti della coalizione a guida occidentale hanno causato modifiche tattiche nelle azioni degli Houthi, ma stando ad alcuni funzionari americani «l’entità dei danni non è chiara perché gli Stati Uniti non hanno una valutazione dettagliata delle capacità del gruppo prima che venisse lanciata la campagna di bombardamenti». Anche Dan Shapiro, il più alto funzionario del Pentagono per quanto riguarda il Medio Oriente, ha dichiarato durante un’audizione congressuale che gli Stati Uniti sanno cosa distruggono, ma l’assenza di accurate informazioni di intelligence fa sì che Washington «non conosca pienamente il denominatore». Detto in altre parole: quante postazioni di lancio di missili e droni restano dopo averne distrutte alcune?

 

La nave su cui sono morti i tre marinai batte bandiera di Barbados ed è di proprietà liberiana, e l’attacco giunge a poca distanza dal tentativo degli Houthi di colpire il cacciatorpediniere americano USS Carney. Questa settimana, inoltre, è affondata la Rubymar, un vascello precedentemente colpito dagli Houthi (di cui avevamo parlato in una precedente puntata del Focus attualità). Uno dei problemi legati all’attacco alla Rubymar consiste nel fatto che trasportava fertilizzante che dopo l’attacco si è riversato in mare, assieme al carburante, ciò che mette a rischio «l’industria ittica, alcune delle più grandi barriere coralline del mondo e gli impianti di desalinizzazione che forniscono acqua potabile a milioni di persone». L’affondamento mette ulteriormente in luce i rischi connessi al passaggio nelle acque alla portata degli Houthi e potrebbe convincere altri armatori ad evitare questo tratto di mare strategico, ha scritto l’Associated Press. La strategia dei ribelli yemeniti si configura come «una nuova forma di internazionalizzazione del conflitto israelo-palestinese», sostiene Jim Krane in un report del Baker Institute. Dopo aver trascorso due giorni con i militari americani tra le basi in Siria, Giordania e nel Mar Rosso, Thomas Friedman (New York Times) è ancora più esplicito: gli Stati Uniti sono in guerra con l’Iran e le sue milizie, e manca “solo” un evento come il bombardamento delle caserme americane a Beirut nel 1983 per far sì che questo conflitto passi dalla fase di guerra nascosta a quella di ostilità aperte.

 

Ma soprattutto, si legge nelle conclusioni del report di Krane, la scelta degli Houthi di distinguere gli obiettivi in base alla loro nazionalità  (compito in realtà estremamente difficile, come ha illustrato il Financial Times), cercando di lasciare indenni le navi provenienti da Paesi “amici”, si configura di fatto come «una forma di sanzione economica per le destinazioni colpite, come l’Unione Europea».

 

Gli attacchi con missili e droni alle navi di passaggio non sembrano poi essere le uniche azioni messe in atto dagli Houthi: altri tre cavi sottomarini sono stati tranciati questa settimana causando danni al 25% del traffico dati che attraversa il Mar Rosso.

 

 

In Iran hanno vinto i conservatori. Ma quali conservatori? 

 

Venerdì scorso si sono tenute in Iran le elezioni per il rinnovo del Parlamento e dell’Assemblea degli Esperti. Come ampiamente previsto, la disaffezione degli iraniani nei confronti del sistema politico della Repubblica Islamica si è manifestata attraverso la diserzione delle urne: nonostante i seggi siano stati aperti per sei ore aggiuntive (come in realtà avviene spesso in Iran), l’affluenza è stata solo del 41%. Un record storico negativo. Un dato ancora più significativo è quello relativo alla capitale Teheran, dove solo il 24% degli aventi diritto ha espresso la propria preferenza. A questo si aggiunge il fatto che secondo i dati riportati da Reuters (più cauti rispetto a quelli di alcuni media iraniani) il 5% dei voti è risultato invalido. La disillusione nei confronti del sistema iraniano emerge non solo dai dati delle elezioni ma anche dalle dichiarazioni di alcuni giovani: «che senso ha votare quando so che il mio voto non cambierebbe nulla?», ha dichiarato un ventiduenne al Financial Times.

 

I risultati delle elezioni indicano l’assegnazione di 245 seggi su un totale di 290. I rimanenti non sono stati attribuiti perché i candidati non hanno raggiunto la soglia minima del 20% dei consensi. Sarà un ballottaggio ad aprile o maggio a decidere gli eletti in questi distretti, ma non vi è alcuna possibilità che questo possa incidere sull’orientamento politico del Parlamento. Almeno 200 dei 245 nuovi deputati sono stati infatti sostenuti da gruppi radicali e ultraconservatori.

 

Ciò non significa, tuttavia, che non sia cambiato nulla. Anche all’interno del campo conservatore ci sono vincitori e sconfitti: in particolare, la “vecchia guardia”, composta da figure come Mohammad-Reza Bahonar, è stata superata dalle figure radicali che sono salite alla ribalta negli ultimi 10 anni. Così, una figura storica come Mohammad-Bagher Ghalibaf, speaker del parlamento, ex membro dei Guardiani della Rivoluzione ed ex sindaco di Teheran, è arrivato soltanto quarto nel distretto della capitale, ciò che ne complica i piani per mantenere la prestigiosa carica all’interno del majles. Ancora più sorprendente la sconfitta di un conservatore tradizionale come Sadeq Larijani, attuale capo del Consiglio per il Discernimento ed ex capo della magistratura, il quale non è riuscito ad ottenere un posto nell’Assemblea degli Esperti, dove invece è stato eletto – come da pronostico – l’attuale presidente della Repubblica, Ebrahim Raisi. Il cambio generazionale all’interno delle fazioni radicali e ultraconservatrici è uno degli elementi chiave per comprendere che orientamento assumerà l’Iran. Nulla di incoraggiante all’orizzonte.

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