Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 12:09:39

Le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno sospeso, per il momento, l’operazione sulla città di Rafah, anche se Benny Gantz, ex Capo di Stato Maggiore e membro del gabinetto di guerra, ha dichiarato che l’offensiva verrà avviata entro il primo giorno di Ramadan, il 10 marzo, a meno che Hamas non si arrenda dopo aver liberato tutti gli ostaggi. Nel frattempo, le IDF stanno procedendo con i lavori di allargamento di una delle principali strade di Gaza, che attraversa la città da est a ovest, ossia dal confine con Israele alla costa mediterranea. L’obiettivo ufficiale è quello di facilitare le operazioni belliche e di innalzare gli standard di sicurezza per le truppe presenti, ma per il Wall Street Journal si tratta di uno dei «molteplici tentativi israeliani di riconfigurare la topografia della Striscia», con conseguenti ripercussioni dal punto di vista sociale e politico. La nuova via di transito, infatti, potrebbe trasformarsi in un corridoio militarizzato dotato di posti di blocco, impedendo di fatto il ritorno di almeno un milione di palestinesi nella parte settentrionale di Gaza e favorendo il ricollocamento degli sfollati nel Sinai egiziano. Come sostiene il quotidiano libanese L’Orient-Le Jour, un’infrastruttura del genere lascia presagire «un’occupazione» a lungo termine. 

 

L’inizio del Ramadan pone per il governo israeliano un problema di ordine interno, dato che centinaia di fedeli musulmani si recheranno alla Moschea di al-Aqsa, per gli ebrei il Monte del Tempio. Netanyahu, come osserva Al Monitor, dovrà trovare un difficile compromesso tra i suoi alleati di estrema destra come Itamar Ben Gvir, che vuole consentire l’ingresso soltanto agli arabi israeliani con più di settant’anni, e i politici più moderati come Gantz, contrari all’applicazione di restrizioni. Il quotidiano israeliano Haaretz boccia in toto la proposta di Ben Gvir, definendola «una delle decisioni più pericolose» che il governo potrebbe prendere. Secondo la testata, garantire il libero accesso ad al-Aqsa durante il Ramadan sarebbe un’un’ottima occasione per dimostrare la falsità della retorica di Hamas, che accusa Israele di islamofobia. Invece «questo governo, il peggiore nella storia di Israele, è controllato dall’ attivista del Monte del Tempio Itamar Ben-Gvir, e presieduto da un uomo di Stato fallito, la cui visione del mondo ha portato Israele sull’orlo di un abisso. Di conseguenza il governo non solo sta perdendo questa occasione, ma sta usando il Ramadan come un’opportunità per gettare ancora più benzina sul fuoco del conflitto con i palestinesi».  

 

Sul piano diplomatico proseguono (con molte difficoltà) le trattative sul rilascio degli ostaggi e l’attuazione di una tregua: il 23 febbraio si è tenuto a Parigi un nuovo incontro tra Cia, Mossad e rappresentanti egiziani e qatarioti. Come riferisce Al Monitor, gli israeliani al momento non sono intenzionati ad accettare la richiesta di Hamas di interrompere le operazioni militari nella Striscia e di liberare tremila prigionieri palestinesi in cambio degli ostaggi (esclusi i soldati maschi) detenuti dal 7 ottobre. Intanto, gli Stati Uniti hanno posto il veto sulla bozza di risoluzione del Consiglio di Sicurezza proposta dall’Algeria (sostenuta da tredici Paesi su quindici) per l’applicazione di un immediato cessate il fuoco, motivando il voto contrario con l’assenza all’interno del testo di un riferimento alla questione degli ostaggi. Washington ha presentato a sua volta una contro-bozza, anch’essa contenente la parola “cessate il fuoco”, senza però fornire una precisa indicazione temporale (“non appena sarà praticabile” l’espressione originale). Per l’inglese The Guardian questo dettaglio è dirimente, in quanto lascia a Israele piena libertà di decidere termini e tempistiche. Secondo il quotidiano francese Le Monde l’atteggiamento statunitense può essere riassunto in una semplice espressione: «prendere le distanze senza mai lasciare la mano d’Israele: ecco la manovra impossibile che sta facendo l’amministrazione Biden». In buona sostanza, gli Stati Uniti evitano di sostenere risoluzioni avanzate da un Paese fortemente antisraeliano come l’Algeria, ma al contempo mostrano un «cartellino giallo» a Tel Aviv, ricordandogli i limiti da non superare, inclusa l’offensiva terrestre su Rafah. Sono segnali di un lento cambio di approccio da parte dell’establishment americano, che all’inizio della crisi era saldamente allineato sulle posizioni di Netanyahu. Fornire sostegno totale a un leader politico del genere, «inaffidabile e pericoloso», è stato un grave errore da parte del presidente americano e potrebbe costargli molto caro, commenta New Republic. Solo Biden può correggere Biden, dal momento che l’alternativa, che si chiama Donald Trump, sarebbe ben peggiore e ancora più accomodante nei confronti di Netanyahu.

 

Il pericolo concreto, per il presidente in carica, è quello di perdere il voto degli americani musulmani, che hanno cominciato a dileggiarlo soprannominandolo “Genocide Joe” per le sue posizioni filoisraeliane: una critica che investe gran parte degli esponenti più in vista del Partito Democratico e della sinistra americana, da Bernie Sander ad Alexandria Ocasio-Cortez. Anche i musulmani liberali, come scrive l’intellettuale turco Mustafa Akyol su Foreign Policy, sono ormai disillusi dall’ipocrisia dell’Occidente, che su Gaza sa tradendo gli stessi principi di cui si vorrebbe l’araldo.

 

Inoltre, questa settimana sono iniziate all’Aia le udienze del processo avviato dalla Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) che si occupa di valutare le conseguenze legali dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi. Questo procedimento non va confuso con la causa intentata lo scorso dicembre in cui il Sudafrica accusava lo Stato ebraico di aver commesso un genocidio nella Striscia di Gaza a partire dal 7 ottobre. Come ricorda il Washington Post, il processo sull’occupazione israeliana è stato avviato alla fine del 2022, a seguito di una risoluzione emessa dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite: tra il 19  il 26 febbraio almeno 52 Stati deporranno elementi sulle politiche israeliane in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est.

 

Il miraggio dei due Stati 

 

La stampa internazionale, e in particolar modo la rivista statunitense Foreign Affairs, continua a riflettere sui possibili assetti del “giorno dopo”. Marc Lynch e Shibley Telhami bollano la soluzione a due Stati, riesumata da molti governi dopo il 7 ottobre, come un miraggio: non solo il progetto non è realizzabile, ma addirittura «maschera la realtà dello Stato singolo che quasi sicuramente si rafforzerà in seguito al conflitto. Sarebbe bello se israeliani e palestinesi potessero negoziare una spartizione pacifica della terra e della popolazione tra due Stati sovrani. Ma non possono». I primi, soprattutto con i loro partiti di (estrema) destra, hanno sabotato il piano ben prima del 7 ottobre; i secondi, invece, hanno preso le distanze dal corrotto e inefficiente governo di Abu Mazen avvicinandosi alla posizione dello Stato unico palestinese “dal fiume al mare” sostenuta da Hamas. «A prescindere da come finirà la guerra a Gaza – prosegue l’articolo – è improbabile che una soluzione a due Stati (oppure un’equa soluzione a uno Stato) venga posta in palio. Non si faranno passi avanti finché non si risolverà la questione dell’oscura realtà monostatuale che Israele ha consolidato. La politica americana, pertanto, non dovrebbe essere quella di concentrarsi su sforzi irrealistici per far riprendere discussioni su risultati irraggiungibili, quanto fissare chiaramente degli  standard legali e dei diritti umani da rispettare […]. Stabilendo dei confini legali per la situazione attuale, gli Stati Uniti riotterrebbero parte della credibilità che hanno perso nel Medio Oriente e nel Sud Globale. Allineando la realtà di oggi al diritto internazionale, Washington potrebbe iniziare a creare le condizioni per fa emergere un giorno uno scenario politico migliore. È tempo che gli Stati Uniti si assumano la responsabilità dell’approccio fallimentare che ha portato a questa guerra devastante. Decenni passati a esonerare Israele dagli standard internazionali, portando avanti nel frattempo discorsi vuoti e inefficaci su un irraggiungibile futuro a due Stati hanno gravemente danneggiato la posizione americana nel mondo».

 

Sempre su Foreign Affairs, Martin Indyk nota come l’amministrazione Biden, che pure ha rilanciato la soluzione a due Stati, non sembri crederci più di tanto: il presidente «ha mantenuto le politiche favorevoli ai coloni israeliani introdotte dal suo predecessore Donald Trump» e non ha onorato la promessa di riaprire il consolato statunitense per i palestinesi a Gerusalemme. Di fronte allo stallo dei negoziati e al rifiuto di Netanyahu di riconoscere lo Stato palestinese, Biden potrebbe ricorrere a un’altra strategia: proporre una nuova risoluzione Onu che aggiorni la n. 242 votata all’indomani della Guerra dei Sei Giorni del 1967 e che preveda il mutuo riconoscimento dei due Stati, la lotta al terrorismo e lo stop alla costruzione degli insediamenti dei coloni. «Se una risoluzione del genere venisse introdotta dagli Stati Uniti, sostenuta dall’Arabia Saudita e da altri Stati arabi, e passasse all’unanimità, Israele e l’Olp non avrebbero altra scelta che accettarla, proprio come hanno accettato la n. 242».      

 

Per il Washington Institute, la strategia americana deve lavorare sull’opinione pubblica israeliana operando una netta separazione tra chi si oppone a prescindere (o “in maniera ideologica”, come si scrive nell’articolo) alla nascita di uno Stato palestinese e chi lo fa per ragioni securitarie. Una possibile soluzione sarebbe quindi creare una Palestina demilitarizzata, seppur dotata di un robusto apparato di sicurezza che cooperi e comunichi con l’intelligence israeliana. Qui l’analisi non si concentrato sulla possibilità o meno di uno Stato palestinese ma sulle sue caratteristiche non: qualora dovesse rivelarsi inefficiente, si tornerebbe al punto di partenza, con «Hamas e altre violente formazioni estremiste» pronte a tornare alla ribalta.

 

Molto duro il parere dell’accademico e politico palestinese Ghassan Khatib, che su Arab News fa notare come la proliferazione degli scenari “del giorno dopo” sia è «davvero una gran perdita di tempo» per poi lanciare una stoccata: «è ironico che i politici europei e americani abbiano di colpo scoperto che la cura alla crisi attuale consiste nella creazione di uno Stato palestinese insieme a quello israeliano. Non importa che i palestinesi abbiano ripetuto questo concetto un sacco di volte […]. Non c’è nessuna credibilità nel richiedere la soluzione a due Stati mentre si tollera ancora la continua espansione degli insediamenti illegali palestinesi». Solo uno Stato arabo dotato delle stesse prerogative di Israele potrà funzionare; tuttavia, finché l’Occidente continuerà a “chiudere un occhio” sulla violenza degli israeliani, i palestinesi continueranno a cercare altri metodi per ottenere la loro libertà. Per Fareed Tamallah, giornalista e attivista palestinese, i dibattiti in occidente su un possibile riconoscimento dello Stato palestinese costituiscono una vera e propria «bufala»: non può esistere una Palestina demilitarizzata, i cui confini peraltro restano ancora da definire, insieme a Israele, che al contrario può contare su un esercito tecnologicamente avanzato e sulla bomba atomica.

 

La guerra colpisce anche l’economia israeliana [a cura di Claudio Fontana]

 

L’economia è un’altra vittima della guerra: nell’ultimo trimestre del 2023 il PIL israeliano si è contratto del 19,4% in termini annualizzati. Una diminuzione più grave di quanto immaginato dalla maggior parte delle previsioni, che risente del fatto che trecentomila riservisti hanno abbandonato i propri posti di lavoro per rispondere alla chiamata alle armi. Altri fattori hanno influenzato il calo del PIL di Israele. Tra questi l’Ufficio centrale delle statistiche israeliane ha citato le restrizioni di movimento imposte ai lavoratori palestinesi della Cisgiordania, che non possono più recarsi sul posto di lavoro all’interno di Israele. Una decisione che ha colpito in particolare il comparto dell’edilizia, che soffre la mancanza di mano d’opera. A ciò si aggiunge il mancato incasso degli affitti per le case degli sfollati e delle famiglie degli ostaggi, deciso dal governo israeliano lo scorso novembre.

 

Complessivamente l’economia israeliana ha comunque mantenuto per il 2023 una crescita del 2% rispetto all’anno precedente. Tuttavia, ha ricordato il Financial Times, nel 2022 il PIL dello Stato ebraico era aumentato del 6,5%. A ciò si aggiunge che dallo scoppio della guerra il 7 ottobre 2023, Tel Aviv ha aumentato la spesa pubblica dell’88%, mentre i consumi sono scesi del 27%. Rifacendosi ai dati della Banca centrale di Israele, che prevede un +2% del PIL per il 2024 e un +5% per il 2025, David Rosenberg (Haaretz) parla di una timida ripresa: apparentemente l’attività economica israeliana ha ripreso a funzionare quasi normalmente, ma in realtà, le conseguenze della guerra sull’economia sono profonde e le difficoltà sono tutt’altro che alle spalle.

 

La decisione di non permettere ai lavoratori palestinesi di entrare in Israele ha effetti gravi: «circa la metà dei cantieri edili si è fermata», mentre nel settore agricolo la mancanza di un numero compreso tra i 10 e i 20 mila lavoratori rende difficile completare i raccolti. Ecco perché l’estrema destra al governo in Israele è intenzionata a rimpiazzare i lavoratori palestinesi con l’arrivo di manovalanza da India, Uzbekistan e Sri Lanka, ha scritto Rosemberg.

 

A un livello più profondo la situazione è aggravata dal fatto che in questi casi la ripresa economica al termine delle ostilità è guidata generalmente da uno spirito di unità nazionale. Oggi, invece, Israele appare più diviso che mai: non solo stanno già riaffiorando le controversie legate alla riforma della giustizia, ma la figura di Netanyahu, e il suo rifiuto di indire elezioni anticipate, pesa sempre più. Inoltre, l’esenzione dal servizio militare concessa agli ebrei ultra-ortodossi è argomento sempre più divisivo, nell’attesa che la Corte Suprema si pronunci nuovamente sul tema. Secondo Anshel Pfeffer si tratta di una questione su cui potrebbe giocarsi la tenuta del governo: la coscrizione degli studenti delle yeshiva aprirebbe la crisi all’interno della coalizione, dove i voti dei partiti della destra religiosa sono fondamentali.

 

L’Autorità Nazionale Palestinese non se la passa meglio e naviga in gravissimi problemi economici, ha scritto il Wall Street Journal. Per anni l’ANP ha fatto affidamento sugli aiuti esteri e sulle entrate fiscali raccolte da Israele, ma dopo gli attacchi del 7 ottobre il governo di Tel Aviv ha sospeso questa possibilità. Perciò, ha dichiarato un funzionario palestinese di alto livello, l’istituzione di Ramallah «è sull’orlo del collasso finanziario». Una situazione che complica il piano americano di fare affidamento proprio sull’ANP per la gestione della Striscia di Gaza alla cessazione delle ostilità.

 

Continuano gli attacchi degli Houthi [a cura di Claudio Fontana]

 

Nell’attesa che Israele dia il via alla temuta offensiva su Rafah, la guerra continua ad avere ripercussioni sull’intera regione, tra bombardamenti, sabotaggi, accuse reciproche e smentite. Nonostante gli attacchi missilistici americani e inglesi, nel Mar Rosso gli Houthi continuano a colpire le navi di passaggio. Un missile ha danneggiato la M/V Sea Champion, che secondo il CENTCOM americano portava aiuti umanitari in Yemen. Gli Houthi hanno anche affermato di aver colpito e affondato la Rubymar nei pressi dello Stretto di Bab el-Mandeb. In realtà, le immagini ottenute dalla BBC mostrano che il bastimento è gravemente danneggiato, ma non è affondato. L’equipaggio ha comunque dovuto abbandonare la nave, e il rischio di un affondamento resta concreto. Giovedì, poi, un altro attacco degli Houthi ha danneggiato un mercantile di proprietà britannica e battente bandiera di Palau, mentre un drone ha cercato di colpire una nave militare americana. Dunque, nonostante i media britannici insistano ad affermare che, contrariamente a quanto dichiarato dagli Houthi, la Rubymar non è stata affondata , il dato politico è che dopo settimane di operazioni militari anglo-americane il movimento parte dell’Asse della Resistenza resta una minaccia concreta per il traffico marittimo. Un ulteriore punto interrogativo riguarda la capacità dell’Iran, il perno dell’Asse, di orientare le azioni dei suoi membri. Secondo le informazioni pubblicate dal Washington Post, infatti, Teheran starebbe privatamente indicando a Hezbollah e alle altre milizie alleate di non attaccare direttamente obiettivi americani nella regione. La Repubblica Islamica, infatti, intende «danneggiare gli interessi statunitensi e israeliani in Medio Oriente, ma teme di provocare un confronto diretto» da cui potrebbe uscire pesantemente ridimensionata (un atteggiamento in fondo speculare a quello di Washington, che non è interessata, poco prima dell’appuntamento elettorale di novembre, a una nuova guerra in Medio Oriente). Tuttavia, le azioni degli Houthi, che proseguono nei loro attacchi, e le dichiarazioni delle Kataib Hezbollah, che hanno promesso «colpi dolorosi e attacchi ad ampio raggio», evidenziano i limiti dell’influenza iraniana.

 

L’Iran, intanto, deve fare i conti anche con i continui attacchi e sabotaggi che subisce sul suo territorio. In passato a essere colpiti erano stati soprattutto persone e obiettivi legati al programma nucleare. Recentemente è esploso un gasdotto e il ministro del petrolio iraniano Javad Owji ha immediatamente accusato Israele. Come da prassi consolidata, lo Stato ebraico non ha commentato l’accaduto, che comunque si inserisce in un quadro di crescenti tensioni: nei giorni precedenti alle esplosioni il gruppo dissidente dei Mojahedin-e Khalq ha hackerato il sito del parlamento iraniano, mentre Teheran ha declinato la proposta di Rafael Mariano Grossi, capo dell’IAEA, di recarsi nel Paese per monitorare l’avanzamento del programma nucleare. Inoltre, l’Iran ha comunicato che le esportazioni di armi verso Paesi stranieri sono aumentate del 40% e secondo al-Monitor «centinaia di missili balistici sono stati trasferiti in Russia». Che si sia trattato di un sabotaggio o meno, ciò che è accaduto al gasdotto pone un serio problema all’Iran, ha scritto Amwaj Media: l’attacco evidenzia infatti la vulnerabilità del settore energetico iraniano e potrebbe provocare una scarsità di offerta di gas in un Paese che, nonostante le ampie riserve, potrebbe a breve diventare un importatore netto di gas per via degli elevatissimi consumi.

 

Avvicinandoci all’epicentro del conflitto, Siria e Libano continuano a essere colpite da Israele. Mercoledì, si legge sul New York Times, un edificio residenziale di Damasco è stato bombardato e due persone hanno perso la vita. In precedenza, un attacco nello stesso quartiere damasceno aveva preso di mira un sito utilizzato dai militari iraniani. In Libano, invece, sono quattordici i morti provocati da almeno due attacchi israeliani nel sud del Libano, nella zona di Saïda. In questo caso, a differenza di tutti i precedenti citati, Israele ha commentato l’attacco affermando di aver colpito un deposito di armi di Hezbollah. «La violenza transfrontaliera si è intensificata», ha scritto Le Monde.

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