La guerra a Gaza ha visto per la prima volta il coinvolgimento congiunto di Stati e movimenti che orbitano intorno a Teheran. Ma la compattezza di quest’alleanza rimane limitata, dal momento che i suoi componenti devono faticosamente conciliare obiettivi particolari e imperativi strategici iraniani

Ultimo aggiornamento: 15/03/2024 10:35:37

Da quando il 7 ottobre 2023 Hamas ha attaccato Israele si sente insistentemente parlare dell’Asse della Resistenza composto da Iran, Hezbollah, Siria, milizie e irachene e Houthi yemeniti. Tuttavia, le sue origini sono più antiche e affondano nelle dinamiche ideologiche e geopolitiche che hanno interessato il Medio Oriente tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Duemila.

 

Il 29 gennaio 2002, nel suo discorso sullo stato dell’Unione, il presidente degli Stati Uniti George W. Bush usò la famigerata definizione “Asse del Male” (Axis of Evil) per indicare quegli Stati ostili a Washington e che erano ritenuti responsabili degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. All’inizio, quest’espressione – che rievocava l’Asse della Seconda guerra mondiale tra l’Italia fascista, la Germania nazista e l’Impero giapponese – identificava la Repubblica Islamica iraniana, l’Iraq di Saddam Hussein e la Corea del Nord della dinastia Kim. Nei mesi successivi, grazie alla popolarità che ricevette dalla stampa internazionale, l’elenco si trasformò in una vera e propria lista nera, ribattezzata “Stati canaglia” (questa la traduzione italiana dell’originale Rogue States), nella quale venne aggiunto un blocco di Paesi afroasiatici a maggioranza musulmana (Libia, Sudan, Siria, Afghanistan) e uno sudamericano di stampo socialista (Cuba e Venezuela). Negli ultimi anni l’Iran e i suoi alleati non solo hanno orgogliosamente rivendicato l’appartenenza a questo fronte antiamericano, ma hanno rivalutato il senso della parola “Asse”, riqualificandone il significato da stigma a virtù: non più un fronte dei “malvagi”, ma della “Resistenza” – mehvar–e moqâvemat in persiano, mihwar al-muqāwama in arabo –, da intendersi come totale opposizione all’imperialismo occidentale e all’esistenza dello Stato di Israele. Per comprendere questa peculiare alleanza e il suo progetto politico occorre esaminare una per una le sue varie anime da una prospettiva storica, analizzandone le interazioni.  

 

L’Iran dall’esportazione della rivoluzione alla “Mezzaluna sciita”

 

La Repubblica Islamica iraniana rappresenta naturalmente il perno dell’Asse sotto diversi punti di vista: politico, economico, militare e soprattutto ideologico. Quest’ultimo è direttamente collegato alla Rivoluzione del 1979 che rovesciò la monarchia Pahlavi, instaurando un sistema di governo che integrava alcuni meccanismi della democrazia parlamentare con la teoria del “governo dei giurisperiti” (velayet-e faqih) elaborata dall’ayatollah Ruhollah Khomeini. In questo modo, Teheran si presentava come una “terza via” di governo, alternativa tanto al modello americano quanto a quello sovietico e, sul piano regionale, sia alle monarchie sunnite che ai regimi nazionalisti e socialisti che avevano dominato il panorama mediorientale durante gli anni Cinquanta e Sessanta. Nel 1980 fu proprio l’aggressione contro l’Iran di uno di questi – l’Iraq di Saddam Hussein, leader del partito panarabo Ba‘th – a persuadere l’establishment della Repubblica Islamica della necessità di mettere in pratica il progetto di “esportare la rivoluzione”, per usare le parole di Khomeini, al di fuori del Paese, con l’obiettivo di porre fine alla “sindrome dell’assedio” che raffigurava l’Iran circondato da Paesi ostili. A causa dell’aggressione irachena, il progetto rispondeva anzitutto a un’esigenza di tipo securitario, ma non solo: da un punto di vista geopolitico poteva essere considerato come il disegno proprio di una grande potenza, dai caratteri quasi imperiali, volto a ridisegnare gli equilibri di forza del Medio Oriente e del mondo musulmano. Oltre a queste due motivazioni, vi era una forte propulsione ideologica e culturale: promuovere una rivoluzione compiuta, capace di fornire un “sistema modello” funzionante, che rimettesse l’Islam al centro dello Stato. Questo modello avrebbe oltretutto garantito una parvenza di rappresentatività popolare, specialmente per le comunità sciite che nel mondo arabo vivevano ai margini della vita politica, e talvolta anche di quella sociale. Dopo un primo intervento in Afghanistan, gli iraniani rivolsero la loro attenzione al Libano, Paese multiconfessionale coinvolto dalla metà degli anni Settanta in una guerra civile che vedeva contrapposti falangi cristiane e fedayyin palestinesi, il che rappresentò un’ottima occasione per stabilire un avamposto nel Levante. All’inizio degli anni Ottanta militari iraniani si recarono nel Paese e contribuirono a fondare quella che sarebbe diventata una delle anime più note dell’Asse: Hezbollah. Nel 1988, terminata la guerra con l’Iraq, il successore di Khomeini, l’ayatollah ‘Ali Khamenei, incaricò il comandante Qasem Soleimani di organizzare una forza militare specializzata in operazioni all’estero: nacquero le niru-ye qods (“Forze Gerusalemme”), divisione affiliata al corpo paramilitare dei Guardiani della Rivoluzione (IRGC; Sepahi Pasdaran). Nel corso degli anni Novanta Soleimani pose le basi per la creazione di un quadro di coordinamento militare con gli alleati regionali, dalla Siria di Assad alle milizie di Hezbollah, che si erano legati all’Iran. Da una postura meramente difensiva il network diretto da Teheran si era trasformato in una vera e propria alleanza strategica che si contrapponeva tanto all’Occidente quanto alle repubbliche laiche e alle monarchie sunnite, al punto che re ‘Abdallah di Giordania nel 2004 avrebbe la sua preoccupazione per l’emergere di una «Mezzaluna sciita», ossia la sfera di influenza a guida iraniana, che si estendeva da Beirut al Golfo Persico.   

 

Hezbollah, l’alleato imprescindibile

 

Il “Partito di Dio” libanese (Hizbullāh) è il fondamento su cui si basa l’intera strategia iraniana, in quanto rappresenta un modello di successo da esportare e replicare nel resto della “Mezzaluna sciita” e soprattutto serve a Teheran da deterrente nei confronti di Israele. La sua natura ibrida non solo lo ha reso una milizia capace di compiere significative operazioni belliche contro il nemico per eccellenza, lo Stato ebraico appunto, ma anche un attore statuale informale, che di fatto amministra il territorio sostituendosi alle istituzioni, soprattutto nelle regioni meridionali del Libano. Ufficialmente la formazione venne fondata nel 1982, anno in cui le Forze di Difesa Israeliane invasero il Paese dei Cedri, ma fu solo qualche tempo dopo, verso il 1985, che il gruppo si affermò come uno degli attori chiave della guerra civile libanese. A quel periodo risale la teorizzazione della sua ideologia (divulgata sotto forma di “lettera” sul giornale al-Safir) derivata dall’esperienza della Repubblica Islamica iraniana e dagli insegnamenti del chierico Muhammad Husayn Fadlallah. La lettera conteneva una visione manichea del mondo, diviso tra bene (la umma islamica) e male (Israele e l’Occidente): «non abbiamo altra scelta che contenere l’aggressione con il sacrificio […] diciamolo chiaramente, i figli di Hezbollah sanno chi sono i loro principali nemici: i Falangisti, Israele, la Francia e gli Stati Uniti». La realtà, però, era molto più complessa: nei primi anni di vita l’organizzazione fu coinvolta in un aspro scontro militare con Amal, un altro gruppo armato e in seguito partito politico vero e proprio, anch’esso sciita, fondato dall’imam Musa al-Sadr (cugino del leader iracheno Muqtada al-Sadr, di cui si parlerà più avanti). Anche le relazioni con la Siria risultavano problematiche: il presidente Hafiz al-Assad, anch’egli coinvolto nella guerra civile libanese e alleato di Amal, cercò di contenere a più riprese l’espansione di Hezbollah. Tra gli anni Novanta e i primi Duemila si aprì una nuova fase per il “Partito di Dio”: la definitiva vittoria su Amal e la normalizzazione delle relazioni con Damasco, la de-escalation sancita dagli accordi di Taif del 1989 e il ritiro delle Forze di Difesa Israeliane dal Libano meridionale nel 2000 permisero di focalizzare l’attenzione su questioni di ordine sociale ed economico. Hezbollah, ricevuti consistenti finanziamenti dall’Iran, si fece carico di garantire i servizi un tempo forniti dallo Stato, dall’allaccio della corrente all’erogazione di acqua potabile, dalla nettezza urbana all’assistenza medica nei quartieri a maggioranza sciita della capitale. L’ambito militare rimase comunque un elemento centrale della strategia: lo sviluppo di nuove tattiche, l’impiego di nuove armi – dai razzi Katiusha agli ordigni esplosivi improvvisati (IED) – e il perdurare del confronto, seppur occasionale, con le IDF al fronte servirono a presentare il movimento come campione della causa palestinese e della lotta al sionismo.

 

L’amalgama tra ideologia, welfare e warfare fu la chiave del successo di Hezbollah, che gli permise di ritagliarsi un ampio consenso tra la popolazione e di diventare sempre più influente all’interno della politica libanese: alle elezioni generali del 1992 il partito si aggiudicò otto seggi in parlamento e nelle tornate successive si attestò intorno al 10% delle preferenze. L’assassinio dell’ex premier Rafiq Hariri, compiuto il 14 febbraio 2005 con ogni probabilità da uomini legati al regime siriano, segnò un momento cruciale per la storia libanese: la successiva reazione popolare, nota come Rivoluzione dei Cedri, e la reazione della Comunità Internazionale obbligarono Damasco a ritirare le sue truppe dal Paese, permettendo a Hezbollah, che pure era stato accusato di essere coinvolto nell’attentato, di riempire il vuoto politico lasciato dai siriani e di incrementare ulteriormente la propria influenza; quello stesso anno, infatti, Hezbollah partecipò alla formazione di un governo nazionale per la prima volta nella sua storia.

 

L’aumento delle tensioni con Israele innescò il 12 luglio 2006 un nuovo confronto militare che si protrasse per oltre un mese, conclusosi con un cessate il fuoco promosso dalle Nazioni Unite e con il ripristino dello statu quo. La “Guerra del 2006” rappresentò comunque una vittoria morale per Hezbollah, che, contenendo i danni provocati dagli attacchi del più numeroso e meglio equipaggiato esercito israeliano, aveva dimostrato notevoli capacità belliche. Già negli ultimi giorni del conflitto la sua immagine era in ascesa sia in Libano che nel resto della regione: le organizzazioni palestinesi riconobbero il successo di Hezbollah, e lo stesso fecero in Egitto i Fratelli musulmani. Anche gli sciiti iracheni celebrarono la vittoria con manifestazioni nella capitale Baghdad. I risultati della guerra del 2006, secondo la visione iraniana, dimostravano che Teheran aveva contribuito in maniera determinante a creare un soggetto politico maturo, abile nel condurre la guerra contro Israele ma anche attento alle questioni sociali, dimostrando la validità del progetto geopolitico della Mezzaluna sciita. Inoltre, sempre secondo questo punto di vista, veniva ribadita l’efficacia del concetto di “Resistenza”: lo sviluppo dell’arsenale di Hezbollah svolgeva infatti un ruolo di deterrenza, con l’obiettivo di scoraggiare Israele dall’intraprendere nuove operazioni militari contro i membri dell’Asse. Inoltre, il confronto con lo Stato ebraico spinse Hezbollah ad intensificare i suoi legami con il gruppo palestinese Hamas, avviando una cooperazione militare.

 

Hezbollah disponeva comunque di ampi margini di manovra nella pianificazione delle campagne militari e nella ri-definizione del suo apparato dottrinario, come dimostra la pubblicazione, nel 2009, di un nuovo manifesto che rivedeva e aggiornava l’ideologia originale. Uno dei passaggi più rilevanti del testo, che lo differenziava dalla Lettera del 1985, riguardava il riconoscimento esplicito di appartenere a un gruppo transnazionale della Resistenza che comprendeva Iran e Siria. Ma la nuova teoria venne ben presto superata dagli eventi: nel 2011, sull’onda della Primavera Araba, la Siria sprofondò in una lunga guerra civile, e mutarono i rapporti di forza tra i due alleati.   

 

La Siria, l’alleato storico

 

Se Hezbollah rappresenta, fin dalla nascita, un prodotto dell’influenza iraniana in Libano, completamente diversa è la condizione del regime siriano, entrato nell’orbita di Teheran sulla base di una singolare convergenza di interessi e vedute. Per comprendere questo processo occorre fare un passo indietro e tornare al 1970, anno in cui il colonnello di confessione alawita – comunità eterodossa dello sciismo, fino ad allora ai margini della vita sociale e politica del Paese – Hafiz al-Assad salì al potere con un colpo di Stato incruento, diventando nel giro di pochi mesi presidente del Paese e segretario del partito di regime, il Ba‘th. Quest’ultimo nel decennio precedente aveva cercato a più riprese di realizzare, insieme all’Egitto di Nasser e all’Iraq di Ahmed Hasan al-Bakr e Saddam Hussein, il vecchio sogno di unificare il mondo arabo in unico grande Stato retto da un’economia di stampo socialista. Questi tentativi non solo si rivelarono del tutto fallimentari, ma contribuirono ad approfondire le divergenze già presenti tra i Comandi Regionali del Ba‘th siriano e iracheno. Pur accomunati dalla stessa ideologia, nel corso degli anni Settanta Damasco e Baghdad entrarono in competizione su una serie di questioni, dall’approvvigionamento idrico alle istanze indipendentiste della minoranza curda. Proprio per contenere Saddam, nel 1979 Assad strinse un’inedita alleanza con la neonata Repubblica Islamica dell’ayatollah Khomeini, in palese contraddizione con l’agenda arabista del Ba‘th.

 

Sarebbe tuttavia errato affermare che Assad si alleò con Teheran soltanto per un mero calcolo geopolitico. Certamente la Siria, grazie alla “sponda” iraniana, sarebbe riuscita a controbilanciare meglio il peso politico dei suoi (ex) partner, il vicino Iraq e l’Egitto di Sadat, quest’ultimo ormai lontano dal panarabismo nasseriano. L’alleanza con Teheran aveva giustificazioni anche di natura ideologica, in quanto entrambi gli Stati si (ri)trovarono accomunati dalla lotta all’imperialismo, dalla marcata postura antioccidentale e antiamericana e dall’ostilità nei confronti dello Stato ebraico. A tutto ciò occorre aggiungere l’elemento religioso: con l’ascesa di Assad l’esercito e gli apparati statuali vennero controllati dai suoi uomini fidati, gran parte dei quali di confessione alawita, ciò che conferì una connotazione filo-sciita all’establishment damasceno. Pur mai compromettendo l’alleanza, le relazioni tra i due Paesi sono state caratterizzate però da alcune divergenze: con lo scoppio della guerra tra Iraq e Iran, il governo siriano dovette occultare il suo sostegno agli iraniani per evitare tensioni con le altre cancellerie arabe che sostenevano Saddam. Nel contesto della guerra civile libanese, come visto sopra, Siria e Iran scelsero di sostenere due fazioni sciite diverse, Amal e Hezbollah. Infine, con la dissoluzione del blocco sovietico Assad cominciò a stemperare la retorica antioccidentale. Anche Bashar al-Assad, figlio di Hafiz e suo erede politico, proseguì nei primi anni Duemila questo riavvicinamento con i Paese europei. Tuttavia, l’intervento americano in Iraq e il ritiro dei siriani dal Libano a seguito dell’affaire Hariri rafforzarono di nuovo la partnership con l’Iran, diminuendo al contempo quella con i Paesi arabi, in particolare le monarchie del Golfo.    

 

L’Iraq post Saddam e la materializzazione della “Mezzaluna sciita”

 

Se la Siria baathista degli Assad si era caratterizzata per la sua matrice confessionale filo-sciita, completamente diverso fu il discorso per l’Iraq baathista di Saddam Hussein, che nella retorica ufficiale del partito instaurò un binomio indissolubile tra la visione panarabista e il credo sunnita. Nel corso degli anni Ottanta i gruppi sciiti presenti nel Paese – tra cui il partito Da‘wa di Muhammad Baqir al-Sadr – furono duramente repressi, e i loro esponenti ripararono in Iran, ponendosi sotto la protezione della Repubblica Islamica. L’invasione angloamericana dell’Iraq nel 2003 e la caduta del regime di Saddam consentirono alla comunità sciita di uscire da decenni di emarginazione politica e di partecipare da protagonista al nuovo corso del Paese. Questo, nei piani statunitensi avrebbe dovuto essere basato sui principi della laicità, della democrazia e del federalismo; in realtà, l’intero processo di costruzione nazionale fu costellato da una serie di errori e inefficienze, provocando così un vuoto politico che fu presto colmato dall’attività dei leader politici e religiosi sciiti iracheni. Tra questi si distinse l’Ayatollah di Najaf ‘Ali al-Sistani, che elaborò un progetto politico di cittadinanza alternativo sia a quello americano sia alla dottrina khomeinista del velayet-e faqih. Ma a beneficiare maggiormente del nuovo contesto fu l’Iran, che approfittò del caos post-2003 per estendere la sua influenza nel Paese, finanziando e sostenendo movimenti e gruppi armati, tra cui il partito Da ‘wa, il Supremo Consiglio Islamico Iracheno (ISCI) e le sue milizie (le brigate Badr). Nel 2014, poi, in seguito all’appello di al-Sistani di combattere i miliziani dell’ISIS, nacquero le Forze di Mobilitazione Popolare. Le milizie che le componevano, molte delle quali fedeli a Teheran, risultarono fondamentali nel respingere con le armi l’avanzata dello Stato Islamico. Proprio la lotta contro il gruppo salafita jihadista permise alle milizie legate a Teheran di accrescere il proprio peso nel Paese sia a livello militare che politico, non di rado avocando a sé ruoli e funzioni propri dello Stato. In questo modo l’Iraq divenne la tessera che completava il progetto di una “Mezzaluna” che si estendeva ininterrottamente dall’Iran fino alle sponde mediterranee del Levante.

 

La guerra civile siriana e l’esperimento della coalizione militare

 

La Primavera Araba del 2011 rappresentò la seconda occasione, dopo l’invasione dell’Iraq, per mettere Teheran, Hezbollah e le milizie sciite alleate alla prova di un’operazione militare su vasta scala. Il regime di Damasco, all’epoca considerato uno dei più stabili nella regione, si dimostrò incapace di contenere l’ondata di proteste che lo aveva investito, subendo la defezione di parte dell’esercito, che si unì alle fila dell’opposizione. Di fronte all’avanzata dei ribelli, Teheran ricorse al consolidato modus operandi e inviò nel Paese esponenti del corpo dei Guardiani della Rivoluzione: la caduta di Assad e la conseguente formazione di un governo laico filoccidentale o, in alternativa, di uno islamista legato alla Fratellanza Musulmana avrebbe rappresentato una minaccia per la Repubblica Islamica, oltre a vanificare il progetto geopolitico della “Mezzaluna”. Già durante la prima fase del conflitto l’IRGC costruì una ramificata e variegata coalizione multinazionale pan-sciita composta da milizie iraniane, irachene e afghane che operarono al fianco dell’esercito nazionale siriano. Per attuare questa strategia risultò essenziale il ruolo di Baghdad che, in virtù della sua collocazione geografica a metà tra Siria e Iran, facilitò la logistica bellica assicurando un continuo flusso di uomini e armi.

 

Anche Hezbollah divenne parte della coalizione: a giustificazione dell’intervento, nel 2013 il leader Hassan Nasrallah dichiarò, nel corso di una apparizione televisiva, che il suo movimento si era attivato per proteggere l’Asse della Resistenza dagli attacchi degli americani, degli israeliani e dei takfiri, ossia i jihadisti sunniti che accusavano di miscredenza i loro correligionari. Il contributo degli alleati risultò in ogni caso determinante per salvare il regime, che così poté riconquistare gran parte dei territori occupati dall’opposizione e dalle formazioni jihadiste. Tuttavia, l’effetto collaterale dell’intervento dell’Asse fu la definitiva disgregazione dello Stato siriano e la frammentazione territoriale: non di rado Hezbollah e le milizie sciite operarono in autonomia, talvolta senza nemmeno coordinarsi con l’esercito regolare. La crescente debolezza del potere statuale permise a questi attori di ritagliarsi aree di influenza sempre più estese all’interno del Paese, svolgendo servizio di ordine pubblico e agendo da intermediari tra le comunità locali e il governo centrale.

 

Gli Houthi: da movimento locale a portabandiera dell’Asse  

 

Oltre al Levante, l’onda d’urto delle Primavere Arabe interessò anche la penisola arabica, in particolar modo lo Yemen, Stato in cui dal 2004 era in atto una guerra civile tra il governo centrale del presidente Ali Abdullah al-Saleh e il gruppo armato degli Ansar Allah, i “partigiani di Dio”, meglio noti come Houthi, dal cognome di uno dei loro fondatori. Gli Houthi nascono all’interno dello zaydismo, un ramo dello sciismo che, pur rappresentando il 30-40% della popolazione yemenita, ha svolto un ruolo molto rilevante nella storia del Paese: erano zayditi gli imam che avevano esercitato il governo del territorio per più di un millennio, dal IX secolo d.C. fino al 1962, quando un colpo di Stato portò alla nascita di una repubblica laica e nazionalista. La rivoluzione iraniana accelerò la trasformazione della comunità sciita yemenita da gruppo poco influente ad attore rivelante nella vita sociale e politica del Paese. Alcuni esponenti zayditi, tra cui Hussein al-Houthi, coltivarono l’idea di ripristinare l’imamato in reazione alla diffusione prima del socialismo e poi del sunnismo salafita patrocinato dalla vicina Arabia Saudita. L’avanzata del salafismo nel Paese e le divergenze con alcune tribù spinse Hussein a fondare nel 1997 un gruppo che prese il nome della sua famiglia. In ambito ideologico, Hussein estese la visione del movimento all’intero mondo arabo, identificando in Israele e negli Stati Uniti il nemico dell’Islam; visione che però mantenne sempre dei contorni molto generici e piuttosto vaghi su questioni di ordine regionale e internazionale. In ambito nazionale, invece, Badr al-Din al-Houthi, padre di Hussain e successore di quest’ultimo dopo la sua morte nel 2004, diede un’importante contributo alla dottrina del movimento: per far fronte all’avanzata del salafismo di Riyad, Badr al-Din difese il principio della discendenza diretta dal Profeta rivendicato da alcune famiglie (note come sāda) e il governo dell’imamato, ma introdusse un’importante revisione dottrinale: l’imam poteva, e se necessario doveva, essere affiancato da un’altra figura, eletta democraticamente, capace di assicurare il cosiddetto ihtisāb, la “buona amministrazione”.

 

La visione pro-sciismo e quella pro-sunnismo dominarono lo scenario politico yemenita fino a degenerare nel 2004 in un lungo conflitto civile. Alla fine degli anni Duemila la guerra cominciò ad assumere una dimensione regionale, con l’Arabia Saudita che sostenne con decisione il governo centrale. L’Iran, nonostante avesse ospitato negli anni precedenti alcuni Houthi (incluso lo stesso Badr el-Din), all’inizio non si dimostrò interessato alla situazione yemenita. Tuttavia, la situazione geopolitica che andava configurandosi obbligò Teheran a un mutamento di strategia. A seguito dell’ondata di proteste anti-Saleh sorte sulla scia delle Primavere Arabe, l’Arabia Saudita aumentò il suo impegno militare in Yemen nel timore che la caduta del governo potesse generare caos e instabilità nella regione. A sua volta l’Iran, in risposta all’interventismo saudita e all’ascesa di Al-Qaeda nella Penisola Arabica, rafforzò, coadiuvato dalle milizie di Hezbollah, la cooperazione militare con gli Houthi. Ad esempio, Abdelmalik Houthi, figlio di Badr el-Din e importante figura militare del movimento, ufficializzò nel 2017 l’istituzione di un nuovo organo militare e di intelligence, il Consiglio del Jihad, ispirato agli omonimi apparati di Hezbollah e della Repubblica Islamica con cui coordinava strategie e operazioni belliche.  

 

Questi, a dimostrazione della loro forza politica e militare, nel gennaio 2015 avevano intanto formato un comitato rivoluzionario e messo in atto un golpe, costringendo il presidente Hadi, succeduto a Saleh nel 2012, a rassegnare le dimissioni. La relazione tra Iran e Houthi è stata caratterizzata da un basso livello di interdipendenza: Teheran, focalizzata sulla sua agenda regionale (la competizione geopolitica con l’Arabia Saudita), non aveva né l’interesse né le risorse necessarie per controllare in toto il movimento yemenita, interessato principalmente alle dinamiche interne del Paese. Ciononostante, i “partigiani di Dio” hanno dimostrato la loro sintonia con gli obiettivi dell’Asse, al punto da adottare un motto ispirato alla propaganda iraniana: «Dio è il più grande, morte all’America, morte a Israele, la maledizione sugli ebrei e la vittoria all’Islam».  

 

L’islamizzazione della causa palestinese: il legame con il Movimento per il Jihad Islamico e Hamas

 

Sin dalla Rivoluzione del 1979 Teheran ha fatto propria la questione palestinese, stabilendo un’articolata rete di contatti con le organizzazioni politico-militari palestinesi. Il capo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina Yasser Arafat, che aveva stretto contatti con i rivoluzionari iraniani già prima della caduta dello Shah, fu infatti il primo leader arabo a riconoscere la Repubblica Islamica e a compiere una visita ufficiale a Teheran il 17 febbraio 1979. In quell’occasione gli iraniani, con un gesto dal forte valore simbolico, consegnarono la sede dell’ex ambasciata israeliana al corpo diplomatico palestinese. In maniera simile al Ba‘th siriano, la “Resistenza” antisraeliana riuscì a creare un forte legame tra il nazionalista laico Arafat e la teocrazia islamica khomeinista. Per via della sua lunga collaborazione con l’OLP, l’Iran cominciò a sostituirsi all’Egitto – che con gli Accordi di Camp David aveva riconosciuto lo Stato ebraico e si era riavvicinato alla politica statunitense – nel ruolo di campione della causa palestinese. La “comunione di intenti” non riuscì ad appianare le differenze che emersero tra i due attori nel corso della guerra tra Iran e Iraq, quando Arafat prese le difese di Saddam Hussein rivendicando la sua appartenenza al panarabismo. A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta l’alleanza con l’OLP cominciò ad affievolirsi a causa della crescente incompatibilità ideologica, degli ottimi rapporti tra Arafat e le monarchie sunnite del Golfo avversarie di Teheran e, infine, del riconoscimento dello Stato ebraico da parte dell’OLP. Ciò convinse l’Iran a intensificare le relazioni con i gruppi di matrice sunnita contrari all’esistenza stessa d’Israele. Il primo fu il “Movimento per il Jihad Islamico in Palestina” il cui leader, Fathi Shaqaqi, considerava la Rivoluzione del 1979 come un revival non solo dello sciismo, ma dell’intero mondo islamico, che avrebbe dovuto unirsi nella liberazione della Palestina. Sulla base dell’esempio delle Forze al-Quds e soprattutto del modello Hezbollah, anche il movimento si dotò di un proprio braccio armato, le “Brigate Gerusalemme” (Sarāya al-Quds). Un’operazione analoga fu compiuta dal “Movimento Islamico di Resistenza” (Hamas), emanazione palestinese della Fratellanza Musulmana fondato nel 1987. Nel manifesto ideologico pubblicato il 18 agosto 1988 il gruppo considerava la liberazione della Palestina come dovere di ogni musulmano, a prescindere dalle appartenenze confessionali e dalle distinzioni etniche, allineandosi in questo modo alla visione khomeinista. A partire dagli Accordi di Oslo, l’alleanza tra Iran, Hezbollah, Hamas e Movimento per il Jihad Islamico in Palestina si trasformò in un consolidato network detto “Fronte del Rifiuto” (Jabhat al-Rafd), termine che indicava quegli attori arabi e musulmani che si erano rifiutati, appunto, di scendere a patti con il “nemico sionista” e con il suo protettore americano: la Seconda Intifada, il ritiro delle IDF dal sud del Libano nel 2000 e da Gaza nel 2005 e infine l’affermazione di Hamas nella Striscia nel 2007 furono considerati successi ascrivibili all’impegno congiunto delle varie componenti dell’Asse. Ciò non significava però che esse fossero perfettamente allineate. In ambito strategico, ad esempio, il concetto della “resistenza” è stato interpretato in maniera differente: per Hezbollah esso ha assunto significati plurimi in base alle circostanze del momento, inteso sia come liberazione del Libano dalle truppe israeliane sia come lotta contro le milizie salafite jihadiste; per Hamas, invece, la resistenza è stata sempre associata alla lotta popolare di liberazione della Palestina.

 

Fu la guerra civile siriana a provocare però una vera e propria frattura in seno all’Asse: Hamas, che all’epoca era ospitato in Siria, si schierò come tutti i movimenti islamisti sunniti contro il regime di Assad e trasferì il suo quartiere generale da Damasco a Doha, criticando Hezbollah e l’Iran per l’appoggio ad Assad. Per tutta risposta, Teheran reagì tagliando i fondi all’organizzazione palestinese. A quel punto Hamas uscì di fatto dall’Asse e si riavvicinò alla Fratellanza Musulmana in Egitto, che allora era in forte ascesa a seguito della rivoluzione egiziana che aveva portato un suo membro, Mohammed Morsi, alla presidenza della repubblica. Lo strappo venne gradualmente ricucito a partire dal 2017, favorito da una serie di circostanze: la destituzione di Morsi, il fallimento della rivoluzione egiziana e la chiusura della frontiera tra l’Egitto e la Striscia di Gaza ad opera del nuovo presidente al-Sisi; l’ascesa di nuove figure di Hamas, come quella di Yahya Sinwar, leader del movimento a Gaza e fautore di una strategia militare più aggressiva nei confronti di Israele. Questo riavvicinamento si è ulteriormente rafforzato a partire dal 2020, anno della firma degli Accordi di Abramo, che ha di fatto assegnato all’Asse il ruolo di campione della causa palestinese, contrapponendosi a diversi Paesi arabi sunniti che, al contrario, hanno normalizzato le relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico.

 

Il “Diluvio di al-Aqsa” e l’unificazione dei fronti

 

Con l’avvio dell’operazione “Diluvio di al-Aqsa” del 7 ottobre 2023, per la prima volta ciascun componente dell’Asse della Resistenza è stato coinvolto, in maniera più o meno diretta, nel confronto militare con Israele e i suoi alleati: Hamas e gli altri gruppi armati di Gaza hanno lanciato l’attacco a Israele, Hezbollah ha minacciato di aprire un fronte al confine nord dello Stato ebraico, la Siria ha offerto supporto logistico agli iraniani e le milizie sciite irachene hanno attaccato basi militari americane in Iraq, mentre gli Houthi sono intervenuti perturbando i commerci nel Mar Rosso. Questa “unificazione dei fronti”, per usare le parole di Nasrallah, rappresenta la nuova strategia globale dell’Asse che, grazie al consolidato coordinamento (e talvolta cooperazione) fra i suoi membri – come nel caso della partnership avviata da Hezbollah con gli Houthi e Hamas già durante i primi anni Duemila –  appare in grado di minacciare Israele e l’Occidente sia in maniera diretta, attraverso operazioni militari, che indiretta, come le azioni di sabotaggio, la chiusura di rotte commerciali e la sospensione del processo di normalizzazione tra lo Stato ebraico e l’Arabia Saudita.

 

Allo stesso tempo, però, il “Diluvio di al-Aqsa” ha messo in evidenza i limiti del network, i cui componenti devono faticosamente conciliare gli obiettivi strategico-militari dell’Asse con gli interessi nazionali e le esigenze socioeconomiche dei singoli contesti locali. Hezbollah, nonostante i minacciosi proclami di Nasrallah, non ha ancora dichiarato il suo formale ingresso nel conflitto; le milizie irachene sembrano non avere il potenziale per sostenere una guerra su vasta scala. Lo stesso discorso si applica alla Siria di Assad, troppo debole per giocare un ruolo efficace; inoltre, Damasco guarda con diffidenza Hamas, che ai tempi delle Primavere Arabe aveva sostenuto la causa dei ribelli anti-Assad. Infine l’Iran, con il ruolo di regista occulto del conflitto, dimostra una certa cautela nello sfidare apertamente lo Stato ebraico: oltre ai possibili contraccolpi sullo scenario geopolitico regionale, la Repubblica Islamica deve fare i conti con i costi che deriverebbero da un impegno militare diretto, dal momento che il Paese sta attraversando una complicata fase socioeconomica, così come i suoi alleati libanese, siriano e iracheno. Non solo l’ambito socioeconomico, ma anche quello militare presenta evidenti criticità: l’assassinio nel gennaio 2020 di Soleimani, storico “architetto” dell’alleanza, e nel dicembre 2023 di Razi Mousavi, esponente di spicco delle forze Quds in Siria, dimostrano come Israele sia in grado di colpire, in maniera quasi “chirurgica”, i punti nevralgici del comando militare iraniano.   

       

Per concludere, si può osservare che l’Asse ha dimostrato la sua massima efficacia durante i periodi di instabilità regionale: dall’Iraq post-Saddam alle guerre civili in Siria e Yemen, Teheran ha saputo sfruttare le dinamiche dei singoli conflitti per legare a sé attori dotati di peculiarità ideologiche e organizzative, come la radicale contrapposizione all’Occidente e la natura ibrida tipica degli attori non statuali, e includerli in una più ampia strategia regionale. Tuttavia i membri dell’Asse, pur dimostrando una notevole abilità nel destabilizzare lo scenario geopolitico mediorientale, non sembrano in grado di imporre un ordine regionale alternativo.

 

 

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