Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 11:50:34

Le dimissioni del primo ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese, Mohammad Shtayyeh, non sono state interpretate dalla stampa araba come un cambiamento decisivo. Il quotidiano panarabo al-‘Arab, ad esempio, scrive a chiare lettere che, a prescindere da chi verrà nominato, qualsiasi «candidato deve avere credibilità, deve essere visto come una persona indipendente e capace, soprattutto nell’ambito delle finanze e della sicurezza, cose non solo necessarie per gli obiettivi interni palestinesi, ma anche per la ricostituzione del dopoguerra di Gaza». Infatti, «nel lungo termine, una Autorità in grado di compiere riforme serve anche alla realizzazione della soluzione a due Stati, fosse anche solo per compiere dei passi verso quella direzione, a meno che non ne risulti un altro Stato fallito in una regione in cui abbondano esempi di destabilizzazione». Al momento, però, «in assenza di evidenti segnali che indichino grandi cambiamenti nell’organo esecutivo, la fiducia della gente nei confronti dell’ANP resterà bassa». Il tentativo, sostenuto e incoraggiato dall’amministrazione americana, di riformare l’Autorità Nazionale Palestinese ed estendere la sua autorità anche alla Striscia di Gaza non è giudicato fattibile da Tariq al-Hamid, giornalista saudita di al-Sharq al-Awsat: «detto sinceramente, non credo che “Hamas” sia pronta a lasciare il governo di Gaza così facilmente, nonostante quanto riportato sui media da alcune persone vicine alla Fratellanza Musulmana». Occorre poi capire che cosa si intende quando si parla di Hamas: il gruppo militare di stanza a Gaza oppure quello politico avente base a Doha? E qui entrano in gioco gli attori stranieri, come gli iraniani e la Fratellanza, pronti a fare il loro ingresso una volta che cadrà Yahya Sinwar, il “morto che cammina”. Per questo motivo nemmeno una Hamas sconfitta e divisa al suo interno potrà accettare di buon grado il passaggio di consegne con l’Autorità Nazionale di Abu Mazen. 

 

A proposito di Hamas, giovedì 29 febbraio il capo politico del movimento Ismail Hanyeh ha lanciato un messaggio dal canale televisivo di Al Jazeera: ha innanzitutto ribadito l’efferatezza dei crimini di cui si è macchiata “l’entità sionista”, affermando che l’unico risultato delle sue operazioni militari «è stato quello di uccidere donne, bambini e anziani e di provocare distruzioni. Se proseguirà l’offensiva su Rafah, allora il crimine sarà completo». Ha poi richiamato al senso di responsabilità i «Paesi arabi fraterni», in particolar modo i “Paesi del collare”, ossia limitrofi ai Territori Occupati (Libano, Siria, Giordania ed Egitto), e più in generale l’intera umma islamica a proteggere la Palestina e rompere «la congiura della morte per fame» in atto nel nord della Striscia. Hanyeh invita i palestinesi a radunarsi il primo giorno di Ramadan nella moschea di al-Aqsa. A tal proposito precisa: «Il “Diluvio di al-Aqsa” era pensato per Gerusalemme e per la Moschea di al-Aqsa, e il suo scopo finale è ancora questo. Tuttavia, oggi l’occupante si illude di essere in grado di svuotare la battaglia di al-Aqsa del suo significato originale con l’ennesima occupazione della moschea dopo venti settimane di assedio». Operazione che è stata possibile anche alla collaborazione degli «estremisti liturgici della Torah» che insieme ai soldati hanno messo in atto una «guerra religiosa contro il nostro popolo issando sui loro carri armati le bandiere con il presunto Tempio» di Salomone.

 

Mentre la leadership di Hamas cerca di mobilitare i palestinesi con la sua retorica, la stampa araba continua a esaminare i piani di pace del “giorno dopo”. Per la testata di proprietà qatariota al-‘Arabi al-Jadid, la tanto discussa soluzione a due Stati non è altro che la realizzazione della visione americana in Medio Oriente, e cioè una nuova architettura securitaria fondata sul «grande Israele»: «le capitali arabe si trovano all’interno di una complessa intelaiatura strategica, securitaria ed economica che si intreccia con Israele, al punto che diventa impossibile il distacco», dando così vita al «matrimonio tra il denaro arabo e l’intelligenza israeliana». Altrettanto severo il giudizio sugli europei, e in particolar modo dei tedeschi, le cui posizioni rappresentano una «copia carbone» di quelle di Netanyahu. Per Yusuf al-Dini, giornalista di al-Sharq al-Awsat, la «grande sfida oggi non è data dagli slogan pomposi sulla creazione dello Stato, sullo stop alla guerra o sui timori della sicurezza, ma soltanto sulla necessità di ritornare al diritto internazionale e ai valori fondamentali dei civili, perché senza questo lavoro preliminare il “giorno dopo” diventa una «perdita di tempo» e di «fiducia nel diritto internazionale». 

 

 L’Islam politico e la “cultura del principe”  [a cura di Chiara Pellegrino]

 

Come ciclicamente accade, la stampa araba è tornata a discutere di Islam politico. Su al-‘Arabi al-Jadid, quotidiano panarabo londinese finanziato dal Qatar, Mohammad Abu Rumman, professore di Scienze politiche all’Università della Giordania, invita gli intellettuali dei Fratelli musulmani ad aprire un dibattito «radicale sugli obiettivi e gli scopi del gruppo, e [intraprendere] una revisione dei suoi percorsi». Si tratta «di trovare una formula, delle idee e una cultura nuove, che si adattino alle profonde trasformazioni avvenute nel mondo nel corso di un secolo», commenta l’editorialista. Iniziare un processo di revisione è possibile, perché «l’organizzazione non è sacra e gli insegnamenti di Hasan al-Banna non sono parola rivelata». Alcuni tentativi in questo senso erano già stati fatti negli anni addietro da alcuni leader di spicco del gruppo, ma sempre senza successo. Erano riflessioni tra pochi eletti, che non arrivavano mai a coinvolgere i membri del gruppo. Una buona ragione per aprire una riflessione oggi è il venir meno «delle ragioni, delle condizioni e dei contesti che hanno portato all’istituzione della Fratellanza. Inizialmente, il gruppo è nato come progetto socio-culturale in risposta alla dichiarazione di Kemal Atatürk sul califfato [ne decretò l’abolizione] da un lato, e al diffondersi dell’ondata di occidentalizzazione tra la classe media e gli intellettuali dall’altro. Il progetto iniziale non prevedeva un rinnovamento giurisprudenziale o intellettuale». Oggi, spiega Abu Rumman, nella Fratellanza la dimensione politica ha finito per prevalere su quella religiosa e sociale, ed è venuta meno «l’ossessione per l’occidentalizzazione nella sua forma tradizionale». L’«Islam sociale» quindi non è più prerogativa esclusiva della Fratellanza, perché molti altri gruppi hanno iniziato a occuparsi di queste tematiche, soprattutto quelli di sinistra. Sul piano politico, la questione è chiara, spiega ancora il politologo: «Negli ultimi anni, la maggior parte dei rami della Fratellanza ha adottato il principio della separazione tra predicazione (da‘wa) e politica, e ha abbandonato le proposte tradizionali (l’istituzione di uno Stato islamico, e [lo slogan] “l’Islam è la soluzione”). Ha presentato programmi di carattere economico e politico che si discostavano molto dai grandi classici islamisti e dalle promesse storiche di istituire lo Stato islamico». Questi movimenti però hanno fallito perché non sono riusciti a cogliere il disagio popolare e offrire soluzioni realistiche e convincenti, perciò hanno perso sempre più terreno. Oggi, spiega Abu Rumman, ci troviamo nella fase «post-Islam politico», con diversi movimenti islamisti che hanno già avviato un processo di revisione. Come sta accadendo con i Fratelli musulmani giordani, per esempio, che hanno iniziato un percorso di riorganizzazione staccandosi dalla Fratellanza centrale rappresentata ormai da un’élite «che preferisce andarsene, dividersi e allontanarsi, oppure nascondersi nell’ombra accontentandosi di essere semplicemente presenti nell’organizzazione senza incidere».

 

Al momento, tuttavia, i Fratelli musulmani hanno un problema più urgente della propria riorganizzazione: la sopravvivenza. Ora che hanno perso un valido alleato quale è stato per molti anni la Turchia, devono cercare altri Paesi che siano disposti ad accoglierli, scrive al-Habib al-Aswad su al-‘Arab. E non può continuare a essere il Qatar, che «vuole cancellare la vecchia immagine del suo legame con l’Islam politico a causa dei problemi che ciò gli ha creato con i Paesi della regione». La guerra a Gaza ha dimostrato l’incapacità del Qatar di governare Hamas e costringerlo a rilasciare i prigionieri israeliani, ciò che ha generato grande fastidio nell’amministrazione statunitense. Oltre ad aver perso il sostegno di due Paesi per loro fondamentali, gli islamisti hanno perso anche due personalità importanti con la morte nel 2022 di Yusuf al-Qaradawi (Chi è Qaradawi? ne abbiamo parlato qua) e l’incarcerazione di Rashid Ghannouchi. Secondo l’editorialista, il Paese candidato a diventare il nuovo centro dell’Islam politico è la Libia, con la guida di Sadiq al-Ghariani, uno dei volti più noti dell’islamismo libico, ex Gran Mufti del Paese e membro dell’Unione mondiale degli Ulema di Doha. A far propendere per questa ipotesi è stato un incontro che si è svolto nei giorni scorsi in Libia tra al-Ghariani e al-Burhan, il generale capo dell’esercito nazionale sudanese, che da aprile 2023 è in guerra contro le Forze di Supporto Rapido, sostenute dagli Emirati (anti-islamisti). 

 

Alcune novità arrivano anche dalla galassia islamista della Tunisia, dove è nato un nuovo partito, “Al-‘Amal wa-l Injāz” (letteralmente “Lavoro e risultati”), fondato da Abdellatif Mekki, ex membro del partito islamista Ennahda ed ex ministro della Salute, a cui ha aderito un gruppo di altri fuoriusciti di Ennahda. Al momento però non è chiaro se questo partito sarà «un’alternativa a Ennahda, o una delle sue facciate». Come scrive al-‘Arab, esso nasce come forma di contestazione della leadership decennale di Ghannouchi, «che detiene il monopolio del processo decisionale a discapito delle istituzioni [del partito] e trascura la dimensione sociale a vantaggio dell’azione politica, scegliendo l’opzione dell’escalation con l’autorità, come se questo fosse in sé un obbiettivo». Questa settimana il neo-costituito partito ha tenuto il suo primo congresso a Tunisi, per «delineare la propria identità e gli aspetti che lo contraddistinguono dal “movimento madre”, e stabilire il suo approccio politico, sociale ed economico». Fin da subito l’iniziativa ha dato adito a critiche, come quella rivolta dal giornalista tunisino Mukhtar al-Dababy, per il quale il nuovo partito presenta un vizio di forma: «Si sta dirigendo verso le stesse buche in cui era inciampata Ennahda nonostante voglia prenderne le distanze». Il nuovo partito «non prende le distanze dall’esperienza di Ennahda e dalla critica rivoltale dall’interno stesso della famiglia islamista di aver svuotato il “progetto islamico” delle sue varie dimensioni, trasformandolo in una facciata politica il cui obiettivo è raggiungere il potere senza tener conto di altri importanti obiettivi strategici legati alla costruzione culturale e alla trasformazione dei valori della società con l’obiettivo di “islamizzarla”, o alla lotta sul fronte della giustizia sociale». Nel pensiero islamista odierno, spiega l’editorialista, la politica è l’elemento dominante, mentre le questioni socio-economiche sono tangenziali e spesso vengono menzionate a latere dei discorsi per non incorrere nelle critiche della base e dei gruppi di sinistra, ma non per un reale convincimento.

 

L’altra critica sollevata dal giornalista è l’elitarismo che caratterizza la leadership dei movimenti islamisti, i quali considerano i membri del partito «persone comuni, che non comprendono i misteri della leadership e non possiedono le chiavi dei suoi segreti». Questo fa sì che i leader restino alla guida dei partiti per un tempo indeterminato, generando di fatto delle dittature. È vero che sulla carta il congresso stabilisce la durata dei mandati, scrive l’editorialista, ma è facile aggirarne le norme approvando semplicemente degli emendamenti sulla base del detto di Ghannouchi: «Il congresso è padrone di sé stesso». Per gli islamisti, conclude al-Dababy, «è difficile abbandonare la cultura del principe, che è una cultura di riverenza e sottomissione, per una cultura diversa, in cui il capo del partito si trasforma in qualcosa di simile al direttore generale di un’azienda, che può essere licenziato se non porta profitti sufficienti». Anche Abdellatif Mekki corre questo rischio: una volta incardinato, «la cultura del principe lo porterà nella storia riproducendo la stessa tragedia».

 

Mentre in Tunisia un nuovo partito islamista fa concorrenza ad Ennahda, in Marocco un movimento islamista di vecchia data, al-‘Adl wa-l Ihsan (Giustizia e Carità), svela in un documento di 200 pagine il suo progetto politico. È curioso che questo accada dopo quattro decenni di attività del movimento e più di 10 anni dopo la morte del suo fondatore, Abdessalam Yassine, commenta Kamal ‘Abdel Latif su al-‘Arabi al-Jadid. Il documento, presentato il 6 febbraio scorso, «presta particolare attenzione alle procedure e ai dettagli relativi al campo della pratica politica» e lascia intendere che il movimento «sta compiendo i primi passi per superare la dimensione della predicazione (da‘wa)», tant’è vero che il documento reca «molti vocaboli afferenti all’azione politica e giuridica». Il movimento ha una lunga tradizione di contestazione della monarchia marocchina e ora, scrive ‘Abdel Latif, si prefigge di «affrontare la stagnazione della scena politica marocchina, i fallimenti delle politiche pubbliche, gli abusi del governo e chiedere la rottura con la tirannia e la costruzione di uno Stato civile». Il suo progetto politico mira «a costruire la persona, erigere una società civile fraterna e radicare i valori islamici stabilendo il concetto di cittadinanza. L’obiettivo alla base del progetto è costruire un sistema di consultazione (shura), realizzare la giustizia e preservare la dignità, realizzare la libertà e consolidare l’unità e la cooperazione». Tutti discorsi che ricordano quelli di Ennahda, commenta l’editorialista, e che denotano l’incapacità del movimento di superare la letteratura classica che circola nei gruppi dell’Islam politico, nonostante al-‘Adl wa-l Ihsan abbia al suo attivo una grande esperienza sul campo, con le comunità studentesche nelle università marocchine e con gli uomini e le donne comuni.

 

 

Tags