È morto all’età di 96 anni uno dei predicatori musulmani più influenti ma anche più controversi degli ultimi decenni. La sua vita incarna tutte le fasi dell’attivismo islamico contemporaneo, dalla lotta anti-coloniale alle Rivoluzioni arabe e al declino che ne è seguito

Ultimo aggiornamento: 14/03/2024 15:17:31

Lo shaykh Yousef al-Qaradawi, morto il 26 settembre in Qatar all’età di 96 anni, è stato uno dei più influenti predicatori musulmani degli ultimi decenni. Nato nel 1926 in un paese nel Delta del Nilo, si era formato ad al-Azhar prima di lasciare l’Egitto nel 1961 a causa della sua appartenenza ai Fratelli musulmani, messi fuori legge e perseguitati dal regime di Nasser. Il suo esilio a  Doha, dove stringerà un rapporto molto solido con la dinastia regnante, sarà in realtà la sua fortuna: nel piccolo emirato del Golfo lo shaykh contribuisce infatti alla nascita e allo sviluppo dell’università islamica locale e soprattutto, dal 1996 in avanti, diventa una presenza fissa su al-Jazeera, raggiungendo una fama mondiale grazie al programma al-Sharī‘a wa’l-hayāt (“la sharī‘a e la vita”), in cui dispensa indicazioni su ciò che è lecito o non è lecito per un musulmano. Sarà questo ruolo a valergli il soprannome di global mufti.

 

Autore molto prolifico (lascia più di 100 libri) e apprezzato per il suo stile accessibile, il suo pensiero si colloca nel solco della riflessione dei grandi protagonisti del riformismo islamico tardo-ottocentesco, Jamal al-Din al-Afghani, Muhammad ‘Abduh, Rashid Rida, e del fondatore dei Fratelli musulmani Hasan al-Banna. Come i primi, credeva nella necessità di ripensare l’Islam e la sua giurisprudenza alla luce delle nuove circostanze create dalla modernità, ma come il secondo vedeva nell’Islam un sistema di vita onnicomprensivo ed esclusivo, ovunque assediato da nemici contro i quali combattere, dal colonialismo alla secolarizzazione, e chiamato a riaffermare il proprio primato politico-religioso. Il suo pensiero si colloca nel solco dei protagonisti del riformismo islamico tardo-ottocentesco e del fondatore dei Fratelli musulmani Hasan al-Banna 

Tutta la sua opera oscilla tra questi due orientamenti, con il risultato di suscitare valutazioni opposte a seconda dei punti di vista. Qualcuno lo esalta come grande rinnovatore e “guida sapientissima”; per altri è stato un pericoloso estremista, se non un terrorista. Nei suoi testi e nei suoi pronunciamenti non mancano argomenti a sostegno di entrambe le tesi. Ha promosso la partecipazione della donna alla vita delle società musulmane, ma ha anche legittimato le operazioni suicide contro i civili israeliani, suggerito implicitamente la pena di morte per i musulmani “secolaristi” favorevoli a qualche forma di separazione tra Islam e politica e invitato i musulmani a unirsi al jihad contro il presidente siriano al-Assad.

Volendo tentare una sintesi, si può dire che è stato un integralista riformista, per quanto qualche studioso abbia voluto includerlo tra i pensatori musulmani liberali. In termini islamici il suo approccio è stato identificato con la wasatiyya, una parola araba che indica il giusto mezzo tra due estremi e che lui ha contribuito a rendere popolare.

 

In due occasioni ha rifiutato di diventare la guida generale dei Fratelli musulmani, ma è rimasto uno dei loro ideologi di riferimento, incarnando l’evoluzione e i limiti di questo movimento e più in generale di tutta la galassia dell’Islam politico (un termine che lui contestava). Negli anni ’60 e ’70 proponeva la “soluzione islamica” – che è anche il titolo di uno dei suoi numerosi libri – come rimedio ai mali delle società musulmane e militava per l’instaurazione di uno Stato islamico. A partire dagli anni ’80 è stato tra i teorici del concetto di Stato civile, legittimando la cittadinanza paritaria tra musulmani e non-musulmani (in particolare i cristiani copti in Egitto) e la democrazia. In ognuno di questi ambiti ha innovato rispetto alla tradizione precedente, ma senza riuscire davvero a tracciare una via islamica alla modernità politica. Come molti riformisti sunniti, per esempio, ha insistito sul carattere non-teocratico dello Stato nell’Islam, arrivando ad ammettere il principio della sovranità popolare e quindi di una democrazia parlamentare fondata su elezioni. Ma ha anche specificato che lo Stato deve avere una natura islamica, e che questa va preservata affidando a un corpo di esperti religiosi (gli ‘ulamā’) il compito di vigilare sulla conformità della legislazione statale alla sharī‘a, un meccanismo non molto lontano dalla soluzione khomeinista. Allo stesso modo si è espresso a favore del superamento della condizione di subordinazione che la giurisprudenza tradizionale prevede per cristiani ed ebrei all’interno della città islamica, ma la sua idea di cittadinanza paritaria è rimasta legata a una visione comunitaria dell’appartenenza religiosa invece che fondarsi sulle libertà (compresa quella religiosa e di coscienza) di cui gli individui sono titolari in quanto persone. È rimasto celebre un suo intervento nel quale ha dichiarato che senza pena di morte per l’apostata l’Islam sarebbe finito da tempo, non esattamente l’approccio più adeguato alla questione della libertà religiosa.

 

Anche il suo apporto all’evoluzione dell’Islam europeo è segnato da una certa ambiguità. Qaradawi è stato tra gli ideatori e i promotori della “giurisprudenza delle minoranze”, una dottrina che punta a rispondere, attraverso un approccio pragmatico e conciliante, ai bisogni dei musulmani che vivono in società non-musulmane. Questa flessibilità, che ha trovato espressione istituzionale nel Consiglio europeo per la Ricerca e la Fatwa, fondato nel 1997 a Dublino e presieduto fino al 2018 dallo shaykh, ha in realtà una funzione strumentale: facilitare l’integrazione dei musulmani per consentire la loro azione missionaria. Un esempio di tale prospettiva è la celebre fatwa del Consiglio che autorizza, in deroga alla legge islamica, l’accesso ai mutui per l’acquisto della casa di proprietà: una misura difesa come necessaria da Qaradawi per permettere ai musulmani di condurre una vita veramente islamica, guadagnandosi il rispetto delle altre persone e operando per la diffusione dell’Islam in Occidente.

 

Le contraddizioni insite nella riflessione politica di Qaradawi sono diventate particolarmente evidenti dopo il 2011, quando i partiti islamisti arrivati al potere in Egitto e in Tunisia sulla scia delle rivoluzioni arabe hanno avuto la possibilità di mettere in pratica, con risultati tra il modesto e il disastroso, i modelli di Stato elaborati dallo shaykh e da altri teorici islamisti. Le celebrazioni con cui l’Unione Mondiale degli Ulema, un’organizzazione creata da Qaradawi nel 2004, ha accolto la rinascita dell’emirato talebano nell’agosto del 2021 sono un ulteriore segno delle incongruenze del pensiero politico islamista. Qaradawi è stato tra gli ideatori e i promotori della “giurisprudenza delle minoranze” Nel contesto delle Rivoluzioni arabe, lo stesso Qaradawi, ormai ottuagenario, è sembrato più che mai sulla cresta dell’onda. Schieratosi convintamente contro i regimi autoritari arabi, lo shaykh fece ritorno al Cairo nel febbraio del 2011, pronunciando in Piazza Tahrir, davanti a due milioni di persone, un celebre sermone indirizzato a tutti «i figli dell’Egitto», musulmani e copti. Durante la loro breve e fallimentare esperienza di governo, i Fratelli musulmani avrebbero voluto insediarlo come Grande Imam della moschea di al-Azhar al posto di un Ahmad al-Tayyeb molto tiepido verso i loro progetti. Fu il colpo di Stato del generale al-Sisi contro il presidente Morsi, legittimato dallo stesso Grande Imam in carica oltre che dal Patriarca copto Tawadros, a mettere fine alle loro ambizioni. La risposta di Qaradawi arrivò tramite una fatwa che condannava sia l’intervento di al-Sisi che la posizione di al-Tayyeb.

 

Risale a quello stesso periodo l’inizio di un conflitto geopolitico e religioso allo stesso tempo, di cui Qaradawi è stato parte in causa, e che ha visto contrapporsi da un lato Qatar e Turchia, grandi sponsor, per affinità ideologica e interesse politico, del progetto della Fratellanza musulmana e dall’altro il fronte costituito principalmente da Arabia Saudita, Emirati Arabi, Egitto e Bahrein, i quali considerano i Fratelli musulmani una minaccia esistenziale. In tutti questi quattro Paesi Qaradawi è finito insieme ad altri islamisti nella lista di persone accusate di terrorismo. In Egitto, lo shaykh è stato anche condannato all’ergastolo in contumacia e sua figlia Ola ha trascorso diversi mesi in carcere il 2017 e il 2021.

 

Negli ultimi due anni le tensioni politiche tra gli Stati del Medio Oriente si sono stemperate, ma Qaradawi è rimasta una figura fortemente divisiva, mentre i Fratelli musulmani, duramente repressi in diversi Paesi arabi e sempre più isolati a livello internazionale, stanno vivendo una delle crisi più profonde della loro storia. L’uscita di scena di Qaradawi proprio in questa fase storica assume così un forte valore simbolico. Nato due anni dopo l’abolizione del califfato ottomano e due anni prima della fondazione della Fratellanza musulmana, lo shaykh ha fatto parte di una generazione che ha attraversato tutte le fasi dell’attivismo islamico contemporaneo, dalla lotta anti-coloniale, alla repressione dei regimi nazionalisti, al “risveglio” post-1967, fino al fugace trionfo nella turbolenta fase aperta dalle Rivoluzioni arabe e al declino che ne è seguito.

 

Attento alle possibilità offerte dalle nuove tecnologie, in particolare le televisioni satellitari e internet, e capace, attraverso l’Unione Mondiale degli Ulema e il Consiglio europeo della Fatwa, di dare una forma istituzionale al suo pensiero, Qaradawi lascia in ogni caso un segno profondo nella cultura islamica contemporanea. La sua eredità è controversa, ma molti musulmani, magari inconsapevolmente, oggi parlano la sua lingua.

 

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