Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 12:12:52

Ora, purtroppo, lo si può dire senza indugi: nonostante gli sforzi diplomatici di alcuni Paesi, il conflitto a Gaza si è allargato a tutto il Medio Oriente. Solo che questo non è avvenuto nelle modalità e nelle zone che tutti si aspettavano. Il protagonista della nuova escalation è l’Iran, che in questi giorni ha bombardato prima il Kurdistan iracheno e la Siria, poi il Pakistan. In quest’ultimo caso, l’attacco iraniano ha dato adito a una risposta da parte di Islamabad, che a sua volta ha colpito all’interno della Repubblica Islamica.

 

Il primo attacco ha riguardato Iraq e Siria. I Guardiani della Rivoluzione (IRGC) hanno colpito Erbil, capitale del Kurdistan iracheno. L’attacco è avvenuto molto vicino al Consolato americano, facendo inizialmente temere che fosse proprio la struttura diplomatica l’obiettivo degli iraniani. Questa versione è stata poi smentita dai diretti interessati. L’attacco ha però provocato il ferimento di 6 persone e la morte di 4, tra cui l’uomo d’affari curdo Peshraw Dizayee. Questi, come ha ricordato al-Jazeera, è molto vicino al clan dei Barzani che controlla il Kurdistan iracheno. Secondo l’agenzia di stampa iraniana Tasnim, Dizayee avrebbe inoltre relazioni privilegiate con il mondo israeliano. A differenza della lettura dei fatti fornita dai curdi, i pasdaran hanno affermato di aver colpito una base del Mossad che ospitava attività terroristiche anti-iraniane. In particolare, il luogo sarebbe stato utilizzato per pianificare l’attentato a Kerman (Iran) che all’inizio di gennaio ha provocato 86 morti. Un altro attacco ha invece colpito quelli che secondo l’IRGC sono obiettivi dello Stato Islamico in Siria, nella zona di Idlib. Kifa Mahmod, ex consigliare di Massoud Barzani, ha dichiarato al New York Times che l’Iran sta soltanto cercando di «coprire i propri fallimenti securitari» per l’attentato a Kerman, e i missili lanciati da Teheran sono finiti su una casa privata uccidendo dei civili. Anche Qassim al-Araji, consigliere per la sicurezza nazionale del primo ministro iracheno, ha definito «infondata» l’accusa che il sito fosse legato all’intelligence israeliana. Baghdad ha reagito richiamando per consultazioni l’ambasciatore iracheno in Iran e convocando l’incaricato d’affari iraniano in Iraq. Ma quale sarebbe il collegamento tra l’attentato terroristico di Kerman, rivendicato da ISKP (branca afgana dello Stato islamico), e un’ipotetica base del Mossad nel Kurdistan iracheno? Con questa azione i vertici iraniani stanno adottando la linea secondo cui i veri responsabili dell’attentato di inizio gennaio sarebbero i servizi segreti israeliani. Più precisamente, secondo Amwaj Media «il motivo per cui i Guardiani della Rivoluzione hanno preso di mira la Siria [e l’Iraq] invece dell’Afghanistan, dove almeno uno degli attentatori di Kerman sarebbe stato reclutato, è che i membri dello Stato Islamico nella Provincia del Khorasan avrebbero ricevuto un addestramento a Idlib e sarebbero poi stati trasferiti in Afghanistan dagli Stati Uniti». Naturalmente nessuna prova è stata fornita da parte iraniana.

 

Gli attacchi iraniani, tuttavia, non sono stati indirizzati soltanto verso occidente. Non senza sorpresa l’Iran ha lanciato un bombardamento con missili e droni anche in Pakistan, nella regione del Baluchistan. L’obiettivo iraniano in questa azione è invece stato il gruppo estremista sunnita Jaish al-Adl, organizzazione terroristica che, come ricorda Associated Press, in passato ha agito contro l’Iran (lo scorso maggio sei guardie di frontiera iraniane sono morte negli scontri con i militanti). Secondo le autorità pakistane, il bombardamento compiuto da Teheran ha portato alla morte di due bambini. Il ministero degli Esteri di Islamabad ha dichiarato che «questo atto illegale è completamente inaccettabile e non ha alcuna giustificazione. Il Pakistan si riserva il diritto di rispondere». Dalle parole ai fatti in poche ore: l’aviazione pakistana ha lanciato un attacco aereo in Iran, nella provincia di Sistan e Baluchistan. Gli aerei pakistani sono penetrati per circa 50 km oltre il confine senza che la contraerea iraniana entrasse in azione, e hanno colpito i gruppi indipendentisti baluci dell’Esercito di Liberazione del Baluchistan e del Fronte di Liberazione del Baluchistan. Secondo le autorità iraniane sono dieci le vittime dell’attacco. Al-Monitor ha sottolineato che i gruppi come Jaish al-Adl e gli indipendentisti baluci hanno provocato negli ultimi due decenni centinaia di morti tra personale militare, funzionari governativi e civili non-baluci residenti nella regione. D’altro canto, la campagna di repressione portata avanti dalle autorità nella regione si è caratterizzata anche per «sparizioni forzate e uccisioni extra-giudiziali» (per saperne di più vi consigliamo questo libro). Non solo: uno degli obiettivi dei gruppi indipendentisti baluci sono i progetti cinesi della Belt and Road Initiative, e in particolare quelli che vanno sotto il nome di CPEC (China-Pakistan Economic Corridor), un progetto da 58 miliardi che corre in gran parte proprio all’interno della regione del Baluchistan, ricca di minerali. Non stupisce, dunque, che Pechino abbia invitato alla moderazione i due Paesi, entrambi suoi partner, ma abbia anche offerto una mediazione, come si legge sul sito del Nikkei.

 

Apparentemente l’Iran ha colpito dunque un gruppo terrorista sunnita con un passato di attacchi agli iraniani. Il sospetto di Teheran, poi, è che il Pakistan permetta a gruppi come Jaish al-Adl di agire sul suo territorio su indicazione dei sauditi, che potrebbero utilizzare la fazione radicale sunnita per fare pressioni sull’Iran. Dal canto suo il Pakistan avrebbe colpito invece gruppi indipendentisti baluci che l’Iran a sua volta ospiterebbe per premere su Islamabad. Se così fosse, non ci sarebbe dunque un diretto collegamento tra questi eventi e il conflitto in corso a Gaza. Tuttavia, da Davos il ministro degli Esteri iraniano Amir-Abdollahian ha affermato che «se il genocidio a Gaza si ferma, questo porterà poi alla fine delle altre crisi e attacchi nella regione», lasciando intendere – al contrario – che qualche forma di collegamento, seppur indiretta, ci sia.

 

Ad ogni modo la situazione, che per ora sembra essersi tranquillizzata, è gravida di pericoli sia per il Pakistan che per l’Iran. Per Islamabad aprire un conflitto con l’Iran significherebbe avere non solo un fronte instabile a est (India) e uno a ovest (Afghanistan talebano), ma anche uno a sud ovest, lungo i circa 900 km di confine con l’Iran, ciò che complicherebbe significativamente la gestione della sicurezza da parte del Pakistan, ha affermato Kamran Bokhari (New Lines Institute). D’altro canto, anche per Teheran l’escalation con il Pakistan sarebbe difficilmente sostenibile: la Repubblica Islamica è già impegnata su diversi fronti nella regione, primo fra tutti in Siria, e difficilmente potrebbe reggere l’urto del Pakistan, che non solo è una potenza atomica, ma ha anche una forza militare convenzionale superiore a quella iraniana.

 

Dunque cosa ha veramente spinto l’Iran ad agire direttamente e non come spesso accade nascondendosi dietro all’intervento delle milizie di cui si serve nella regione? Secondo il ricercatore Amidreza Azizi la scelta ha a che fare anche con la pressione che dall’interno del regime viene esercitata sui vertici iraniani: una risposta era necessaria dopo l’assassinio di Rezi Mousavi in Siria per mano di Israele e dopo l’attacco a Kerman. Inoltre, attaccando il Kurdistan iracheno, Teheran cerca di ottenere due obiettivi: esercitare pressione su Erbil, affinché si allinei al governo centrale iracheno, vicino alle posizioni iraniane, e mantenere credibilità e deterrenza nella regione. Per Abdolrasool Divsallar c’è in realtà poco di nuovo nelle azioni degli ayatollah: la «deterrenza attraverso la punizione» è la strategia che l’Iran adotta dal 2018, e la scelta degli obiettivi mostra ancora una volta che, per il momento, l’Iran sceglie di non coinvolgersi direttamente nel conflitto in corso a Gaza.

 

L’impressione generale, ad ogni modo, è che in questa fase chiunque si sente legittimato a portare avanti le proprie agende anche con l’uso della forza militare. La Turchia sembra fornire un’ulteriore dimostrazione: negli ultimi giorni l’aviazione turca ha attaccato 114 obiettivi legati ai curdi del PKK in Siria e Iraq, ma il presidente Erdoğan minaccia di andare ben oltre ai raid. Nei prossimi mesi, ha detto il leader dell’AKP, potrebbe avere luogo l’annunciata operazione di terra in Siria contro le Forze Democratiche Siriane a guida curda (sostenute dagli americani).

 

Gli Houthi continuano ad attaccare le navi. Nonostante i bombardamenti americani

 

Un altro segnale dell’allargamento della guerra è il fatto che le tensioni nel Mar Rosso non accennano a placarsi, anzi. L’obiettivo dei bombardamenti angloamericani contro gli houthi in Yemen era (ed è) porre fine agli attacchi del gruppo sostenuto dall’Iran, che tanti danni stanno recando al commercio internazionale. Tuttavia, l’effetto ottenuto è l’esatto contrario di ciò che speravano Washington e Londra, ha sostenuto la studiosa Elizabeth Kendall nel corso di un’intervista (video) a DW. Gli Houthi agiscono da un lato per sostenere la causa palestinese, ma dall’altro desiderano l’aumento della tensione con gli americani per accrescere la loro popolarità all’interno dello Yemen. Kendall riconosce che in precedenza sono stati fatti altri tentativi per portare gli Houthi ad assumere una postura meno problematica per la regione, come l’imposizione di sanzioni e l’avvio di un processo diplomatico, ma tutti hanno fallito. In un certo senso, dunque, gli attacchi di queste ultime settimane in Yemen sono l’ultima risorsa, ma al tempo stesso deve essere chiaro, sostiene Kendall, che un conto è difendere le imbarcazioni nel mar Rosso, un altro è portare la guerra sul territorio yemenita. Quest’ultimo aspetto è precisamente ciò che serve agli Houthi per potersi presentare come le vittime dell’aggressione statunitense. Tuttavia, mentre molti analisti suggeriscono che i bombardamenti in Yemen provocheranno l’allargamento del conflitto senza portare alcun effetto benefico, altri sono dell’idea opposta. Ne è un esempio il Washington Post, che in un editoriale firmato dalla redazione suggerisce che la guerra è già un conflitto regionale e sono proprio gli Houthi ad averla resa tale. Perciò, sostiene il giornale americano, la reazione della coalizione angloamericana è «giusta e proporzionata». Anche l’Economist ha scritto che «la coalizione aveva validi motivi per colpire gli Houthi: la libertà di navigazione è un principio fondamentale del diritto internazionale. Non fare nulla significherebbe tollerare il blocco di un corridoio marittimo che gestisce circa il 30% del traffico mondiale di container». Se da un lato effettivamente è difficile immaginare che gli Stati Uniti sarebbero stati a guardare, soprattutto dopo che il segretario di Stato Blinken aveva avvertito gli Houthi, dall’altro occorre riconoscere che con ogni probabilità la risposta americana non porterà alla fine delle aggressioni ai vascelli in transito al largo delle coste yemenite. Lo stesso settimanale inglese, infatti, ha ricordato che da anni gli Houthi sopportano pesanti bombardamenti aerei: la coalizione a guida saudita ha lanciato dal 2015 un numero enorme di attacchi nel Paese, ma i ribelli hanno mostrato «scarsa preoccupazione per il costo della guerra». Per l’Economist «un gruppo che è uscito rafforzato da una guerra di nove anni che ha ucciso migliaia dei suoi combattenti e immiserito il suo Paese, difficilmente sarà scoraggiato da alcuni raid mirati della coalizione». La conferma è arrivata non più tardi di lunedì quando, dopo aver subito i bombardamenti angloamericani, gli Houthi hanno lanciato nuove operazioni nel Mar Rosso e danneggiato una nave di proprietà americana. Secondo David Ignatius gli Houthi hanno colpito il tallone d’Achille dell’Occidente, mettendo in crisi la libera circolazione delle merci. «Questa capacità di sfruttare i punti di strozzatura è una debolezza dell’economia globale sempre più importante ma poco discussa, e gli Stati Uniti, che si vantano del loro ruolo di garanti della libertà di navigazione, sembrano quasi impotenti a prevenirla», ha scritto Ignatius sul Washington Post. Addirittura, sostiene Ignatius, più gli Stati Uniti saranno coinvolti attivamente nella guerra, maggiore è l’impatto che gli Houthi riusciranno ad avere sull’economia globale: «questa è la lezione di questa guerra non dichiarata: gli Stati Uniti hanno un potere economico schiacciante. Ma forse proprio perché dipendono dal commercio e dai flussi finanziari globali, sono particolarmente vulnerabili agli attacchi economici da parte di pesi apparentemente leggeri come gli Houthi».

Qatar e Arabia Saudita hanno espresso anche in questo caso posizioni differenti rispetto a quelle di Washington (e Londra). Mohammed Bin Abdulrahman Al Thani, primo ministro dell’Emirato, ha ribadito dal palco di Davos che soltanto la cessazione delle ostilità a Gaza porrà fine agli attacchi degli Houthi. Secondo il quotidiano saudita in lingua inglese Arab News, invece, le vere motivazioni delle azioni degli Houthi sono da rintracciare nelle loro difficoltà a livello interno, mentre l’approccio dell’amministrazione Biden è «naïf».

 

Come ha spiegato Reuters, anche in questo caso sono in pericolo anche gli interessi della Cina. Da quando in Egitto ha preso il potere Abdel Fattah al-Sisi, Pechino ha aumentato i suoi investimenti nella zona limitrofa al Canale di Suez, dove transitano buona parte delle merci che la Cina produce per il mercato europeo. La compagnia di proprietà statale COSCO, per esempio, ha investito nel 2023 oltre un miliardo di dollari nello sviluppo delle infrastrutture portuali egiziane. In ballo però c’è ben altro rispetto ai soldi: «Pechino è sotto pressione per provare che il suo coinvolgimento nell’inaspettata (sic) distensione tra i rivali regionali di Arabia Saudita e Iran nel 2023 è stato qualcosa di più significativo che aver messo i puntini sulle i». L’altro Paese in grande pericolo è l’Egitto, alla costante ricerca di valuta straniera. La diminuzione del numero di navi che transitano dal Canale di Suez si è tradotta in minori introiti per il Cairo. La decisione di al-Sisi è stata quella di innalzare le tariffe fatte pagare alle poche navi che ancora transitano dal Mar Rosso, ha scritto Bloomberg. Intanto, preoccupata dall’evolversi della situazione, anche l’Europa «si domanda cosa può fare», ha scritto Nathalie Tocci su Politico. L’idea, ancora da definire ed eventualmente approvare, è quella di una nuova missione militare marittima separata da (ma in collaborazione con) quella a guida americana per scoraggiare gli attacchi degli Houthi. Secondo la direttrice dell’Istituto Affari Internazionali, il punto però è che la (possibile) missione europea ignora le reali cause dell’attuale instabilità, ovvero la guerra a Gaza. In questo contesto incendiario, la missione europea non sarebbe percepita come un intervento neutrale per proteggere la libertà di navigazione, ma come una presa di posizione a favore di Israele.

 

Gaza, simbolo della “bancarotta etica” dell’Occidente [a cura di Mauro Primavera]

 

È sempre più drammatica la situazione a Gaza: la città è ridotta a un cumulo di macerie, l’emergenza degli sfollati si aggrava ogni giorno di più, i beni di prima necessità scarseggiano. Un evento che potrebbe complicare ulteriormente le operazioni di primo soccorso è costituito dall’incidente avvenuto il 16 gennaio alla frontiera tra Israele ed Egitto: nel valico di al-Awja-Nitzana, dove transitano gran parte degli aiuti umanitari destinati alla Striscia, le forze armate egiziane hanno aperto il fuoco contro dei narcotrafficanti – anche se una fonte anonima dell’esercito arabo ha smentito questa ricostruzione – in procinto di attraversare la linea di confine. Come nota L’Orient Le-Jour, Israele ritiene che il rifornimento di armi ad Hamas avvenga proprio tra il valico di al-Awja e quello di Rafah e, per questo motivo, potrebbe approfittare del conflitto in corso per occupare militarmente il valico insieme a tutto il corridoio “Philadelphi”, ossia la zona di frontiera tra l’Egitto e Gaza. In questo modo, lo Stato ebraico otterrebbe un controllo pressoché totale del transito delle merci e delle persone. Il Cairo ha però reso noto che non accetterà la presenza israeliana lungo Philadelphi, segno che le relazioni tra i due Paesi sono tese. È invece riuscita, come l’ha definita il Washington Post, una «rara svolta diplomatica»: agenti del Mossad hanno consentito, grazie alla mediazione di Francia e Qatar, l’invio di un carico di medicine destinate alla cura degli ostaggi israeliani detenuti da Hamas e degli abitanti della Striscia di Gaza.

 

In ambito diplomatico, occorre mettere in risalto il piano di pace proposto dall’Arabia Saudita, Paese preoccupato dall’ondata di escalation e interessato a tutelare i propri interessi e gli investimenti di Vision 2030, il programma strategico promosso dal governo per innovare il modello economico del Paese. Il 16 gennaio il ministro degli esteri saudita Faysal bin Farhan ha dichiarato al vertice di Davos che il Regno potrebbe riconoscere Israele a patto che venga raggiunta un’intesa per la creazione di uno Stato palestinese, proposta che ha trovato il favore dell’amministrazione Biden. Una trattativa del genere, secondo la testata libanese L’Orient Le-Jour, costituirebbe la soluzione ottimale per tutti gli attori: «Netanyahu è alle prese con delle divisioni interne e potrebbe accelerare l’iter; similmente, Biden desidererebbe concludere un accordo prima della prossima primavera e della sua campagna presidenziale. Da parte sua, Riyad non sembra avere fretta di firmare un accordo, perché potrebbe aver ricevuto delle rassicurazioni dagli americani» prima degli attacchi occidentali agli Houthi, oltre ad aver già normalizzato le relazioni con Teheran nel marzo 2023. Al momento sembra tuttavia impossibile convincere il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu che, quasi con tono di sfida, ha escluso qualsiasi piano di spartizione delle terre sostenendo che «in futuro, lo Stato di Israele controllerà l’intero territorio che va dal fiume [Giordano] al mare [Mediterraneo]», facendo suo lo slogan della causa palestinese.  

 

Si continua intanto a commentare l’accusa di genocidio intentata dal Sudafrica contro Israele alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja. Su sul quotidiano saudita di lingua inglese Arab News Mohamed Chebaro osserva che il processo potrebbe costituire, a prescindere dall’esito finale, un primo passo verso la de-escalation e la fine delle operazioni militari. Per il giornalista anglo-libanese è assai probabile che anche nel caso di una condanna d’Israele, questa non verrebbe poi ratificata dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU per il veto di Stati Uniti e Regno Unito. Per Chebaro, una sentenza che accogliesse gli argomenti presentati dal Sud Africa, avrebbe tuttavia conseguenze sul piano etico: il riconoscimento del genocidio a Gaza infonderebbe nello Stato maggiore israeliano una sorta di resipiscenza (se non un vero e proprio senso di colpa) inducendolo ad operare a un mutamento di strategia che prevede un maggiore impegno nei negoziati e la de-escalation militare nella Striscia.

 

La questione morale del conflitto è un tema sempre più presente in parte della stampa internazionale. Ad esempio Hamid Dabashi, professore di studi iraniani e letteratura comparata presso la Columbia University di New York, denuncia il grave stato in cui versa il pensiero filosofico europeo, a suo dire sull’orlo di una “bancarotta etica”: «immaginiamo se Iran, Siria, Libano o Turchia, armate fino ai denti e protette da Russia e Cina, volessero bombardare Tel Aviv per tre mesi, notte e giorno, uccidendo centinaia di migliaia di israeliani, mutilandone molti di più e producendo milioni di sfollati, trasformando la città in un mucchio di macerie, proprio come Gaza oggi». Uno scenario del genere «non sarebbe tollerato nemmeno per un giorno» per via della «immaginaria sfera morale e dell’universo filosofico di quella cosa che si autodefinisce “l’Occidente”». Non si tratta solo di un doppiopesismo utilizzato dalle cancellerie europee e nordamericane per calcolo politico, ma è qualcosa di più profondo che tocca le corde più sensibili del pensiero occidentale. Quasi adottando un’ottica tribale, esso tende a escludere tutto ciò che si trova al di fuori della sua sfera culturale, sminuendo il valore di altri popoli e culture. Dabashi prende come esempio il caso di Jürgen Habermas, autorevole filosofo tedesco, che avrebbe «giustificato la carneficina» compiuta dagli israeliani. Da qui la domanda retorica dell’autore: se il novantaquattrenne Habermas non dimostra umanità nei confronti dei palestinesi, ha ancora senso prendere in considerazione il suo progetto filosofico? Sulla stessa linea si posiziona Hina Rabbani Khar, ex ministra degli Affari esteri pakistana, che su Al Jazeera commenta la “crisi di credibilità” dell’Occidente: «la più grave minaccia all’ordine liberale – ammonisce – viene dalle democrazie liberali, e non dalle loro nemesi autoritarie», a causa della sempre più grande discrepanza tra i valori promossi e le loro condotte. Il problema, sostiene la Khar, non è l’inefficienza dell’Onu e delle organizzazioni internazionali, ma il fatto che Stati Uniti e Regno Uniti, membri del Consiglio di Sicurezza, hanno posto il veto ad almeno due risoluzioni per l’applicazione di un cessate il fuoco nella Striscia.  

 

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