Le identità irrisolte del Paese asiatico

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Ultimo aggiornamento: 10/10/2022 15:49:12

Declan Walsh, The Nine Lives of Pakistan. Dispatches from a Divided Nation Bloomsbury Publishing, London 2020

 

Fin dalle sue prime pagine, The Nine Lives of Pakistan. Dispatches from a Divided Nation si mostra per ciò che è: non una dissertazione accademica sugli aspetti sociali, politici, religiosi o economici del Pakistan, ma un racconto in cui ciascun capitolo corrisponde appunto a un “dispaccio” su una particolare caratteristica del Paese. Lo stile è brioso e ricco di aneddoti, che Walsh, per nove anni corrispondente dal Pakistan (prima per il Guardian e poi per il New York Times), spesso attinge dalla sua esperienza. La lettura risulta perciò piacevole, anche se il gran numero di dettagli e storie personali rischia a volte di far perdere il filo.

 

Il libro è inoltre arricchito dalla descrizione delle «gemme nascoste» del Pakistan: un Paese che secondo l’autore «assomiglia a una di quelle vecchie scatole rompicapo giapponesi, composte da compartimenti segreti e botole nascoste, che possono essere aperte solo in un’unica sequenza» (p. 20). Ne sono un esempio lo Shandur Polo Festival che si tiene sulle montagne dell’Hindu Kush, o il raduno sufi di Sehwan Sharif in onore del mistico del XIII secolo Usman Marwandi, noto come Lal Shahbaz Qalandar. O ancora il festival di Manghopir, dove i Sheedi, i discendenti degli schiavi africani portati in Asia meridionale da arabi, persiani e altri invasori, danzano davanti a una vasca infestata di coccodrilli.

 

Il volume, tuttavia, non è solo un elenco di curiosità. Il suo fil rouge è piuttosto rappresentato dalle identità irrisolte del Pakistan, trattate, dispaccio per dispaccio, attraverso i numerosi incontri che Walsh ha avuto nel corso della sua permanenza nel Paese, da Salmaan Taseer, il governatore del Punjab assassinato per aver proposto di modificare la legge sulla blasfemia, al fondamentalista Abdul Rashid Ghazi, dal “Colonnello Imam” all’avvocata e attivista Asma Jahangir. Ne emergono tre relazioni complesse: con i militari (e con i servizi segreti), con il fondamentalismo islamista e con l’India.

 

Per indagare queste identità Walsh parte dal fondatore del Pakistan, Mohammed Ali Jinnah. Ne emerge una figura articolata e controversa. Un esempio: durante la lotta per l’indipendenza dell’India dal potere coloniale britannico, Gandhi invitava pubblicamente i propri seguaci a venerare le mucche, così come prescritto dalla religione induista. Ma era proprio Jinnah ad ammonire il Mahatma: è una follia, affermava il Qaid-i-Azam (“comandante supremo”), mischiare politica e religione in un Paese come l’India. Eppure, fu proprio Jinnah, a partire dal 1940, a richiedere formalmente la nascita di uno Stato indipendente per i musulmani. Il problema è che «cosa ciò significasse […] è cambiato nel tempo» (p. 64). Inizialmente l’idea era quella di garantire, nell’India post-coloniale, un alto grado di autonomia alle province a forte presenza musulmana. Poi si fece strada la «teoria delle due nazioni» (p. 66). E da quel momento Jinnah dovette pensare da zero tutti gli elementi del Paese, a cominciare dal nome, deciso prendendo le iniziali delle regioni che l’avrebbero costituito: Punjab, Afghania (l’attuale Khyber Pakhtunkhwa), Kashmir (che è dunque elemento costitutivo originario del Paese, e si comprende perciò quanto possa essere sentita la disputa con l’India) e Sindh. Più la desinenza dell’ultima regione: il Belucistan.

 

Fin dalla sua fondazione, dunque, la natura del Pakistan è stata ambigua: secondo alcuni sostenitori di Jinnah, come Ardeshir Cowasjee, storico editorialista pakistano e uno degli interlocutori di Walsh, questa responsabilità non può essere imputata al fondatore, mentre secondo Walsh egli non è riuscito ad «articolare una visione chiara per il Pakistan» (p. 213). È indicativo a questo proposito il ruolo dell’Islam nel nuovo Stato, chiarito da Jinnah soltanto tre giorni prima dell’indipendenza: i cittadini, affermava, possono «appartenere a ogni religione o casta o credo, questo non ha nulla a che vedere con gli affari dello Stato» (p. 72). Mentre creava una Nazione per i musulmani, Jinnah immaginava dunque uno Stato laico. Ma come ha scritto Walsh «era ormai troppo tardi» perché il “padre della patria”, consumato dal cancro, potesse portare avanti una simile visione. Ed era troppo tardi per il Pakistan, in cui la migrazione di 15 milioni di persone (indù e sikh verso l’India, musulmani verso il Pakistan) fu subito accompagnata da incredibili atrocità, e il circolo della violenza su base religiosa era ormai stato avviato.

 

Eppure, sebbene «il Pakistan sia fondato sulla fede, l’Islam ha offerto un’identità incompleta» (p. 277). Incompleta e soprattutto contestata: «Nonostante nominalmente uniti dalla fede islamica, molti pakistani tengono molto alla loro identità di pashtun, sindhi, baluci o di membri di altri regni vecchi di secoli» (p. 267). E così nascono le tensioni: la preminenza dei punjabi in tutti i posti chiave dello Stato è mal sopportata dalle altre etnie, in Belucistan c’è voglia di indipendenza, e per i pashtun il Pashtunwali, l’antico codice di condotta basato sull’onore, è superiore alle leggi dello Stato e non di rado si pone persino in conflitto con le norme islamiche. E, quando questo avviene, «il Pashtunwali generalmente ha la meglio» (p. 93). Per l’esercito e i servizi segreti (i veri padroni del Paese) l’incubo, specialmente dopo la secessione del Bangladesh, è che l’India sfrutti queste profonde linee di faglia a proprio vantaggio. È in questo quadro che s’inserisce il rapporto con il fondamentalismo islamista, manovrato dall’intelligence sia per obiettivi di politica interna che estera (due su tutti, attaccare l’India in Kashmir e controllare l’Afghanistan).

 

Minacciato da molteplici fattori d’instabilità, il Pakistan ha anche una straordinaria capacità di farvi fronte, come peraltro suggerisce il titolo del libro. Per spiegare quest’intricata situazione, un interlocutore di Walsh utilizza l’immagine delle “tre C” (p. 268): Conflitto, una tematica cara ai militari, i quali permettono di buon grado che se ne parli perché è utile a diffondere la percezione della minaccia esterna; Crisi, altro argomento di cui si può discutere liberamente, perché funzionale a mettere in luce la debolezza dei politici (e dunque la necessità dei numerosi colpi di Stato); e infine Contraddizioni, ovvero le identità irrisolte del Paese. A differenza delle altre, quest’ultima C deve essere negata. Lo sa bene Walsh, espulso dal Paese nel 2013 per aver cercato di raccontare la quinta rivolta indipendentista del Belucistan.

 

Claudio Fontana

 

 

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